21 DICEMBRE, 9.07, ORA STANDARD DELLA COSTA DELL’ATLANTICO

La torturata vescica di una non-tartaruga condotta sull’orlo della follia

Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno

Gentili Tweeter,

per sfuggire all’andamento talvolta soporifero del diario di viaggio del signor Darwin, eviterò di descrivere ogni singola molecola di quell’isola spartitraffico su nel Nord dello Stato. Basti dire che l’isola aveva la forma di un ovaloide, delimitata lungo tutto il perimetro da guidatori forsennati sfreccianti a rotta di collo con i loro automezzi. Com’è normale in quella regione del Nord dello Stato, il territorio dell’isola era noioso. La vista, in qualsiasi direzione, priva d’interesse. La geologia… bah. Un misero strato di erba ricopriva l’isola, e ogni superficie – l’erba, la fontanella fuori servizio, i vialetti di cemento – irradiava calore a una temperatura comparabile a quella della superficie del sole. Anzi, per maggior precisione: alla superficie del sole in agosto.

Obiettivo della mia ricerca era l’individuazione di qualche insetto lì intrappolato e adattatosi a quel particolare e sordido ambiente. Sarebbe bastato trovare un esemplare e battezzare la nuova specie. Questa scoperta mi avrebbe garantito un futuro come naturalista di fama mondiale, e non sarei mai più dovuta comparire come persona a carico sulle dichiarazioni dei redditi di Camille e Antonio Spencer.

Anche se i miei genitori le tasse non le hanno mai pagate.

Accucciato al centro dell’isola, come un vulcano in sonno dei Mari del Sud, gravido di fetidi accumuli gassosi di zolfo e metano, c’era il gabinetto pubblico di blocchi di calcestruzzo forati. Per attrarre insetti esotici stappai il mio vaso di tè iperzuccherato e mi misi in attesa. Perché non sperare in una farfalla dai colori fiammanti? Se una tale specie unica al mondo fosse comparsa, sarebbe stata mia: Papilio madisonspencerii. Gli indumenti mi stavano addosso inzuppati di sudore. Mi prudeva il collo. La sete montava.

Al posto delle farfalle aborigene, però, fui assediata da comunissime mosche. Levandosi come una cupa foschia, migrando in massa dal maleodorante gabinetto pubblico, sazie del banchetto a base di freschi sommovimenti intestinali umani, ancora umide degli escrementi di sconosciuti, queste mosche si trasferivano dritte dritte sul dolce delle mie labbra. Mosche grasse, nere e ronzanti, grosse come diamanti a dodici carati, sciamavano in una nebbia brulicante tutt’intorno a me. Il signor Darwin, mio invisibile mentore, si sarebbe vergognato di me, perché ero incapace di nutrire la benché minima curiosità scientifica per questi schifosi parassiti che mi atterravano sulle braccia, sulla faccia sudata e si aggiravano sul mio cuoio capelluto umido premendo con le loro zampette intinte nella cacca. Riarsa, esasperata, cercai di scacciarle e bevvi avidamente dal vaso di tè. La dolcezza suscitò nuova sete, e di lì a poco bevvi di nuovo.

A parte quelle mosche disgustose, la sola traccia di vita animale nei paraggi era la cacca di cane. Così come gli uccelli marini hanno depositato per millenni il guano su certe isole remote, rifornendo intere nazioni di depositi di fertilizzante ricco di azoto, ipotizzai che i futuri abitanti del Nord dello Stato avrebbero un giorno scavato sulla loro isola spartitraffico per estrarne i vasti accumuli di merda di cane. Di farfalle non ne arrivarono. E neanche di libellule dai colori fluorescenti. Provata dal caldo soffocante, sorbii altro tè. Tra il caldo e il notevole sforzo richiesto per scacciare le mosche merdoline, scoprii ben presto di essermi scolata quasi per intero quel vaso da cinque litri.

Irrigata ben bene dal tè, presto mi trovai nella necessità di irrigare io stessa. Una sgradevole necessità.

Vi prego, gentili Tweeter, di non prendere quanto sto per dire per una fisima snobistica. Non dimenticate che voi siete vivi e con tutta probabilità state degustando un crostino imburrato, mentre il mio prezioso corpo fa da servizio buffet per lombrichi. Tenendo presente le nostre rispettive condizioni, non ho certo modo di fare la sostenuta con voi. Tuttavia, in parole semplici, fino a quell’occasione nel tedioso Nord, non avevo mai fatto uso di un gabinetto pubblico. Certo, sapevo che ne esistevano, di questi spazi condivisi in cui chiunque poteva andare a donare la propria pipì alle fogne della comunità, solo che io non ero mai stata costretta a ricorrere a un’opzione così disperata.

Con la passera serrata che gemeva in preda a un’angoscia senza parole, abbandonai il vaso del tè ormai vuoto, il vetro appiccicoso ormai foderato di mosche nere. Portandomi dietro il mio Darwin, partii in cerca di sollievo. Il paesaggio non offriva nulla che potesse fungere da riparo. Non c’erano possibilità se non quella dell’inquietante costruzione di calcestruzzo dalle pareti esterne dipinte di un ocra scialbo. La mia crisi era in fase così avanzata, così tesa era la mia vescica, che non avevo speranza di tornare in tempo nel gabinetto spartano ma semi-igienico della nonna.

Il bagno pubblico che mi chiamava sembrava dotato di due porte su lati opposti della costruzione, entrambe dipinte di uno sgradevole marrone. All’altezza degli occhi accanto a ognuna delle porte c’era un cartello scritto in un minaccioso maiuscolo senza grazie: uno UOMINI, l’altro DONNE, come a significare che i generi erano soggetti a segregazione nell’espletamento delle attività da gabinetto pubblico. Attesi conferma, nella speranza che arrivasse una donna da seguire attraverso la porta giusta. Il mio proposito consisteva nell’imitare il comportamento della sconosciuta, evitando così i passi falsi più grossolani. Temevo, in particolare, il rischio di dare una mancia eccessiva o troppo scarsa al personale di servizio. L’etichetta e il protocollo erano una parte non trascurabile del programma di studi nel mio collegio svizzero, ma io non avevo idea di come ci si dovesse comportare quando si pisciava in presenza di estranei.

Persino a scuola mi astenevo dall’uso dei bagni collettivi, preferendo sempre tornare al water privato che avevo in stanza. Una delle mie peggiori paure era quella di avere la vescica timida e di scoprire che i miei muscoli pelvici non fossero capaci di rilassarsi a sufficienza.

Le mie abilità di naturalista determinarono la mia linea di condotta: aspettai l’arrivo di una donna con le budella piene. All’inizio non ne arrivarono. Dopo qualche minuto di atroce sofferenza, altre donne continuarono a non arrivare. Rastrellai il mio cervello in cerca di nozioni sul funzionamento di quei servizi. Per esempio, l’utente era tenuto a prendere un numerino e aspettare il proprio turno o una chiamata? Magari bisognava prenotare. In tal caso, ero decisa a passare sottobanco del denaro al maître d’hôtel per assicurarmi una pisciata immediata. Il pensiero del denaro mi paralizzò di paura. Qual era la valuta corrente tra i nativi del pallosissimo Nord? Rovistando alla svelta nelle tasche dei miei denim trovai euri, shekel, sterline, rubli e svariate carte di credito. Ciononostante, così come non erano arrivate farfalle, non arrivarono donne pregne di pipì. Mi domandai se strutture di quel genere accettassero pagamenti con carta prepagata.

A un certo punto, una sconosciuta chiaramente traboccante di mierda uscì di fretta da una berlina parcheggiata e corse verso la porta DONNE. Io mi preparai a seguirla, ormai quasi in ginocchio per il rapido accumulo di pipì. Quando la sconosciuta gravida di merda allungò la mano verso la maniglia, io le stavo così a ridosso che mi si sarebbe potuta scambiare per la sua ombra. Afferrò la maniglia e tirò… ma non accadde nulla. Appoggiò la spalla alla porta e spinse, poi tirò di nuovo, ma la porta marrone rifiutò di muoversi. Solo allora i miei occhi si alzarono seguendo il suo sguardo verso un foglio di carta attaccato alla porta con lo scotch. Recava una scritta a mano: FUORI SERVIZIO. E la donna, sibilando una parolaccia a sfondo sessuale, girò i tacchi e tornò all’auto.

Incredula, abbrancai la maniglia della porta, ma riuscii soltanto a far vibrare qualche vite nascosta che però tenne. Santo cielo!

Durante la mia attesa, svariati uomini erano entrati e usciti dal bagno degli UOMINI sulla facciata opposta della costruzione. In quel momento, di fronte alla scelta tra espellere la mia pipì come un volgare animale domestico sul prato spelacchiato e cosparso di cacche, esposta all’assalto delle mosche, sotto gli occhi di laidi camionisti e di mamme dal piede di piombo nel tedioso Nord… o tornare alla fattoria della nonna, con i pantaloni di denim inzuppati come quelli di una bambina piccola… posta di fronte a queste due alternative, le rifiutai entrambe. La mia scelta sarebbe consistita nell’abbandonare qualsiasi principio di civiltà, rinunciare a qualsiasi valore etico e morale a me caro. Avrei violato il più spaventoso dei tabù umani. Sentii colare lungo la gamba una prima gocciolina di pipì che bagnò i pantaloni con una piccola macchia scura. Perciò, stringendo il mio libro del Beagle come uno scudo a nascondere la vergogna, mi abbassai ai livelli di una fuorilegge, di un’eretica, di una blasfema.

Io, un’undicenne, andai quatta quatta a far uso del gabinetto degli UOMINI.

Sventura
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