21 DICEMBRE, 9.05, ORA STANDARD DEGLI STATI UNITI CENTRALI
Vittoria sul Minotauro
Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno
Gentili Tweeter,
tanti anni orsono, dunque, a cavallo della tazza lercia di un gabinetto pubblico nel Nord dello Stato, serrai la presa sul libro del Beagle. A due mani, reggevo il pesante volume rilegato in pelle. Come un golfista pronto al drive della quattordicesima buca sul campo di St. Donats, o come un campione di tennis che inarchi il corpo all’indietro per effettuare un servizio bruciante agli Open di Francia, allineai lentamente il libro a quell’offensiva cacca di cane. Quel pezzo di pupù canina magicamente gonfiatosi sporgeva bramoso verso di me, ignaro delle mie imminenti reazioni violente. La stanza di blocchi di calcestruzzo forato riecheggiava del musicale plick-plock dell’acqua sgocciolante, ma per il resto era calato un silenzio totale, a riprova del fatto che il mio molestatore e io stavamo entrambi trattenendo il respiro. I muscoli delle mie deboli spalle e delle braccia filiformi si piegarono, rigidi come ferro, accumulando tutta la forza acquisita dai guru di yoga spaziale da cui mia madre mi aveva mandato a Katmandu e a Bar Harbor. Un selvaggio urlo da karateka prese forma in fondo al mio petto. Strizzando gli occhi miopi per mettere a fuoco, dissi a me stessa: “Espira”. Dissi a me stessa: “Devi angolare bene il colpo”.
Carica al massimo, ero un Teseo pronto a combattere contro il Minotauro negli umidi scantinati di Creta. Ero un Ercole che si cingeva i lombi per affrontare Cerbero, il feroce cane multicefalo che sorveglia l’accesso agli inferi.
Dissi a me stessa: “Ora!”.
Brandendo il pesante volume sopra la testa, per poi calarlo diagonalmente verso il basso, infersi alla minacciosa cacca di cane una botta poderosa. Senza esitare, di rovescio, assestai un secondo e sonante colpo contro quella schifosa cacchina, che però sembrava non volersi staccare né volar via come avevo sperato. Intrappolato dalle sue dimensioni magicamente accresciute, il minaccioso dito di pupù pareva bloccato in quel buco frastagliato di metallo. Quel brutto pezzo di cacca ballonzolava e oscillava come un matto, agitandosi e contorcendosi in ogni direzione. Da dietro la sottile parete di metallo un ansimare profondo precedette un ululato agghiacciante. La pressione che prima aveva incurvato il divisorio dalla mia parte si invertì all’improvviso, e sembrò che una grande forza spingesse la lastra di metallo lontano da me. La barriera graffiata e danneggiata era tirata indietro dagli sforzi della cacca di cane che cercava di sfilarsi.
Accanendomi con il libro dalla copertina rigida, rifilai alla disgustosa pupù del mio nemico una sfilza di colpi selvaggi. In risposta a ciò, l’invisibile avversario emetteva strilli e muggiti. Erano rumori animaleschi. Il lamento che si sarebbe potuto sentire in un macello. Questo gemere insensato poteva essere quello di un cavallo o di una vacca almeno quanto quello di un maschio umano.
Infliggendo una gragnuola di colpi a quella mierda che si dibatteva, mi sorpresi a mia volta a lanciare urla rabbiose. Il mio era il grido di vendetta di tutti i bambini tormentati da bulli crudeli, una combinazione di furia e singhiozzi e risate isteriche. Quel locale di cemento sembrava allagato, invaso dagli strepiti dei due combattenti, e l’aria fetida vibrava di multipli echi. Strillavo così forte che agli angoli della bocca mi si formò della bava schiumosa.
Sia pur nel vortice della furia, i miei istinti di naturalista tenevano botta. Nonostante la mia vista poco acuta, senza occhiali, notai che la cacchetta maltrattata aveva cominciato a restringersi. Lo schifoso pezzo di pupù si stava ritraendo, diventava più piccolo, più corto, finché non parve sul punto di indietreggiare dal buco frastagliato. Per scongiurare la sua imminente fuga aprii il libro del Beagle più o meno a metà e feci in modo che quella cacca in fase di rimpicciolimento si ritrovasse a contatto con la giuntura delle pagine. Così come i miei colleghi, Matita e Penna Blu, avevano inserito esemplari di foglie e fiori, preservando felci e altre erbe per i posteri, io avrei chiuso tra quelle pagine la mia scioccante scoperta. Appena prima che la caccottina potesse filarsela, richiusi prontamente il pesante tomo. Tutto il Nord dello Stato tremò per l’urlo di cui il mio gesto fu causa. Che fossero a prendere il sole a Kuala Lumpur, a Calcutta, a Karachi, guardandosi l’ombelico colmo di sudore, i miei genitori devono aver percepito quell’esplosione. Tutto il mondo fu scosso dalla potenza di quell’urlo.
Così imprigionai quel declinante pezzo di numero due: chiuso a sandwich nel cuore cartaceo del viaggio del signor Darwin, più o meno – secondo le mie stime – nel bel mezzo del suo resoconto sulla Terra del Fuoco. Conservai il possesso della cacca maligna tenendo chiuso il libro, senza smettere i miei sforzi per staccarla, agitando il libro da una parte all’altra, tirando con tutte le mie forze. Strapazzato in questo modo il pezzo di caccapupù veniva inciso e masticato dagli spuntoni del buco frastagliato. La sottile parete di metallo, a quel punto, ondeggiava con violenza, con le che viti cominciavano a cedere, pronta al crollo.
Capita in qualche rara occasione, gentili Tweeter, di osservare fenomeni naturali per cui non esistono spiegazioni pronte. Il compito del naturalista consiste nel prendere nota e registrare una descrizione degli eventi in questione, confidando nel fatto che un giorno quel caso anomalo acquisterà un significato. Dico ciò perché a quel punto accadde una cosa stranissima: mentre tenevo con forza il mio libro in cui era chiusa al sicuro la caccapupù e strattonavo per interposto volume quel corto guinzaglio, le pagine sembrarono vomitare. Un sottile rivolo di schifoso sputo sgorgò da quei fogli. Quel viscoso rigurgito bianco sporco eruppe dalle profondità del diario del signor Darwin. La mia memoria dilata questo istante, tendendo i secondi in modo da permettere di cogliere i particolari più minuti: un primo getto, seguito da un secondo e da un terzo, di quella bava incolore che sprizzava dalle pagine del libro stretto tra le mie mani. Non in grande quantità, ma con una rapidità tale da non darmi il tempo di reagire. Prima che io potessi spostarmi di lato, la sostanza gelatinosa atterrò sul petto della mia camicia azzurra di chambray. Qui, il mio contegno di professionista venne meno. Con gli spruzzi di quel misterioso flegma che ancora colavano sul mio misero petto di bambina, abbandonai la lotta. Lasciai lì il libro del Beagle e la cacca di cane che ancora teneva prigioniera, mi lanciai fuori dal cubicolo e corsi strillando con tutta l’aria che avevo nei polmoni.