21 DICEMBRE, 9.25, ORA STANDARD DEGLI STATI UNITI CENTRALI

Nonnicidio

Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno

Gentili Tweeter,

quella prima sera dopo la scomparsa del nonno Ben, mia nonna dovette portarmi in auto fino all’ospedale, per scoprire qualcosa che la polizia si era rifiutata di rivelare per telefono. Qualcosa che io già sapevo. In auto, la nonna fumò una sigaretta dopo l’altra, accendendole con il mozzicone della precedente che poi gettava fuori dal finestrino, minuscola meteora che spargeva nel buio scintille arancioni. Alla maniera di una stella cadente che preannuncia una morte. In quel momento prevaleva la sensazione bizzarra data dal fatto di trovarmi accanto al posto dell’autista. Con quella formazione seguimmo i nostri fanali nel mesto futuro.

Avrei voluto marchiare la nonna con lo stigma sociale del fumo passivo e della pratica di spargere rifiuti, ma decisi di ingoiare la mia lamentela. Quella donna provata dalla fatica sarebbe presto stata una vedova. E la melodrammatica rivelazione avrebbe avuto luogo senz’altro davanti a una folla di sconosciuti nell’ambulatorio autoptico di un qualche medico legale. Lei sarebbe probabilmente caduta a terra svenuta, con il suo solito grembiule di calicò sopra lo sbiadito abito da casa di percalle a quadretti, un mozzicone acceso tra le labbra rovinate.

Campi coltivati fiancheggiavano l’autostrada su entrambi i lati, e i nostri fanali illuminavano di tanto in tanto una logora vacca del Nord dello Stato, vestita di un cuoio stressato e di scarsa qualità.

Per la nostra escursione di mezzanotte scelsi di indossare un pigiama di flanella, di flanella rosa, sotto un cappottino corto di cincillà. L’effetto era incantevole, un po’ come posare da Missy Batty van Batton, con i piedi senza calze in pantofole di peluche rosa cucite in modo da sembrare coniglietti dalle orecchie molli con occhi a bottoncino neri. Mia nonna non aveva degnato la mia mise sgargiante di una seconda occhiata. La sua attenzione aveva un vantaggio di dieci miglia e attendeva impaziente al pronto soccorso che il resto della nonna la raggiungesse.

Per raggiungere la nostra destinazione passammo accanto alla famigerata isola spartitraffico sull’autostrada, e io vidi le auto della polizia con il muso rivolto verso la costruzione di calcestruzzo e i fari allineati a illuminare quel tozzo e squallido edificio come un palcoscenico. Gli agenti in uniforme in piedi in quella luce sembravano attori intenti a bere caffè da bicchieri di carta, il che stemperava la drammaticità della scena. Il furgoncino pick-up del nonno con il parabrezza crepato e il fanalino di coda rappezzato era sempre lì, fermo nel parcheggio, ma era stato circondato dalla polizia con transenne e nastro di plastica. All’esterno di questo perimetro si era radunata gente che fissava il pick-up come fosse la Monna Lisa.

Passando lì davanti feci finta di non guardare. I miei piedi non toccavano il fondo dell’auto. Dondolavo nel vuoto le mie pantofole rosa a coniglietto e cercavo di conciliare l’ostentasalsiccia del gabinetto con il nonno Ben che mi aveva insegnato a dipingere di giallo la casetta degli uccellini. La mia memoria cercò di convincersi che quel dito di cacca era davvero un dito di cacca, ma la fatica di tener viva questa bugia nella mia testa mi stava sfinendo. È incredibile l’energia che ci vuole per disconoscere una verità. Non aiutava il fatto che fossero le due del mattino.

In quella vacanza nel tedioso Nord dello Stato, tutti nascondevano un segreto: io avevo ucciso qualcuno; mio nonno era un molestatore da cessi pubblici; mia nonna aveva un cancro grosso come una ciliegia, un limone, un pompelmo, che cresceva come un giardino, ma io ancora non lo sapevo.

Nel caso la polizia avesse trovato un testimone, decisi di smettere per un po’ di sembrare me stessa. È una delle ragioni per cui diventai veramente obesa: mimetizzazione. Diventare una cicciona si è rivelato un travisamento furbissimo.

Per il resto solo la nonna e io e automobilisti ubriachi sulla strada a notte fonda. Lei passò oltre l’isola spartitraffico senza neppure guardarla. Un tiro di sigaretta più tardi, dopo un paio di feroci colpi di tosse, domandò: «E il libro com’è? Ti piace?».

Io ricacciai indietro il ricordo di un salsicciotto morto spiaccicato e profilato da sangue umano tra due pagine. Quel libro del Beagle, riempito di un succo che – dicevo a me stessa – non era sperma. «Sì, è bello» risposi. «Quel libro è un vero tour de force letterario.» Dio solo sa su che cosa stesse rimuginando. Mi protesi per accendere la radio, e mia nonna mi diede uno schiaffo sulla mano allontanandola dalla manopola. Quel piccolo buffetto bastò a ricordare al mio stomaco il volume di Darwin che colpiva quel rugoso e minaccioso… quel che era.

Non avrei mai saputo come va a finire l’evoluzione.

Quando parlava, con le labbra serrate sul filtro della sigaretta, la parte di carta bianca che bruciava le sobbalzava davanti alla faccia come il bastone di un cieco. Con la punta rossa, per giunta. Stava tastando il terreno, con le sue domande. «Sei arrivata al punto in cui il collie aiuta a svaligiare una banca?»

Ovviamente alludeva al Richiamo della foresta. La saga di un animale cui erano stati trapiantati embrioni di scimpanzé radioattivi provenienti dalla nebulosa Granchio. Se avessi scelto quel libro di Jack London saremmo ancora tutti vivi. Nonostante avessi gli occhi chiusi, avevo fatto la scelta sbagliata. Le dissi: «La rapina in banca?». Dissi: «Quel capitolo mi è piaciuto tantissimo».

La nonna Minnie inclinò il mento appena un po’ verso l’alto e distolse un filo gli occhi dalla strada. Guardò nello specchietto retrovisore l’illuminato gabinetto, e osservò la scena del delitto che regrediva da luogo reale, rimpicciolendo sempre di più, fino a diventare una delle tante stelle nella notte. Disse: «E che cosa mi dici di quando il cane vede quel pazzo che assassina il vecchio a sangue freddo?». Domandò: «Ci sei arrivata, lì?».

I nostri fari zoomavano avanti, scivolando su un tratto di autostrada del Nord dello Stato, e io guardavo l’orizzonte fisso senza risponderle. Immaginavo, invece, pesche, albicocche, ciliegie, pomodori, fagioli, persino cocomeri in conserva dentro vasi di vetro trasparenti. Succhi rosa zaffiro, rosso rubino e verde smeraldo. Un tesoro di cibi, questo bottino immerso in troppo zucchero o in troppo sale, per evitare che i batteri ci si insediassero. Mia nonna Minnie aveva sbollentato, cotto e inscatolato un lungo futuro di pasti per lei e per il nonno, e ora era rimasta sola. Il modo migliore per darle un sostegno sarebbe consistito nell’aiutarla a mangiare. Forse insieme saremmo riuscite a giustificare tutti quegli anni passati a sbucciare e a togliere torsoli.

Mia nonna disse: «Sai, mi è sempre dispiaciuto per quel povero collie». Disse: «Se quel cane avesse detto la verità, sai, tutti avrebbero continuato a volergli bene».

Di qualunque cosa stesse parlando, non si trattava di un libro che avessi letto. Invece di rispondere con altre bugie lasciai ricadere la testa di lato sul collo floscio. Le mie mani si raggomitolarono nelle tasche di cincillà. I miei occhi si chiusero lentamente, e cominciai a russare come se stessi dormendo, anche se pareva invece che stessi leggendo la parola “russare” da un migliaio di cartelli mostrati a mo’ di suggerimento.

La nonna Minnie disse: «Tutti sapevano che quella collie stava solo cercando di proteggersi». Poi però dovette smettere di parlare per un attacco di tosse. Per quanto riguardava me, l’auto era piena zeppa di tutto quello che non volevo dire. Se proprio mia nonna era destinata a soffrire, non sarei stata io a infliggerle la sofferenza.

Avrei potuto sputare il mio segreto tanto quanto lei avrebbe potuto sputare il suo tumore.

Quando arrivammo all’ospedale fece finta di svegliarmi, e io finsi di essere intontita, perlopiù sbatacchiando le palpebre e recitando sbadigli. Una conseguenza indesiderata era che di certo avremmo dovuto fare un funerale, cui i miei genitori avrebbero dovuto presenziare. Sarebbero dovuti venire a prendermi per portarmi via con loro, e per quel salvataggio mi pareva quasi che valesse la pena uccidere qualcuno. La nonna e io camminammo tenendoci per mano lungo un vialetto d’ospedale fino a entrare in uno spazio illuminato dietro porte scorrevoli. Il pavimento di linoleum era stato lucidato a cera al punto da sembrare luminoso come il soffitto al neon, e la sala d’attesa sembrava stretta a sandwich tra queste due forme di luce. Lì la nonna mi lasciò seduta con le riviste, su una sedia verde di plastica dura che sarebbe stata chic a Oslo, ma che nel Nord dello Stato risultava semplicemente squallida. Tra le riviste c’erano tre vecchi numeri di “Cat Fancy” sulla cui copertina io coccolavo la mia gattina, Tigrotta. Povera Tigrotta. A cominciare da “People”, “Vogue” e “Time”, sfogliai tutte le riviste in cerca di scene della mia altra vita. La mia vita vera.

All’improvviso ebbi paura che il nonno potesse essere vivo in un letto lì vicino, collegato mediante tubicini a una sacca di sangue di seconda mano, che rideva e mangiava Jell-O raccontando al personale paramedico di come quella palla di lardo viziata marcia della sua nipote avesse tentato di staccargli la salsiccia mentre lui voleva solo farle uno scherzo. Poi sentii un poliziotto di passaggio che parlava con un medico di “crimine dettato dall’odio”, e immaginai di essere stata scoperta.

Abbastanza vicino a me da permettermi di sentire, un agente disse che il portafogli, l’orologio e la fede nuziale di mio nonno erano spariti, e io mi indignai al pensiero che qualcuno potesse derubare un vecchio che giaceva morto sul pavimento di un gabinetto. È vero che ero stata io a ucciderlo. Non c’è neanche bisogno di dirlo. Ma io ero il suo Fagiolino. E questo faceva differenza. Da quel che sentivo, la polizia non aveva capito niente. Mi scocciava lasciare che si impegolassero in ipotesi tanto strampalate, ma nulla imponeva che mia nonna, oltre a essere vedova, sapesse anche di essere sopravvissuta a un maniaco sessuale.

Nessuno disse di aver ritrovato gli euri che avevo lasciato cadere o i rubli inzuppati di sangue o i miei occhiali distrutti o lo stiletto di vetro rimediato dal vaso di tè infranto. Il poliziotto disse: «Un assassino pazzo, da brivido».

Il medico disse: «Mutilazione rituale». E ipotizzò l’intervento di alieni extraterrestri.

Il poliziotto buttò lì: «Un culto satanico».

Io pensai che stessero calunniando mio nonno Ben, ma poi capii che parlavano di me. Nella migliore delle ipotesi alludevano a un qualche killer pazzo che si era dato alla macchia, ma si trattava comunque di me, che ero lì seduta con le mie pantofole a coniglietto e il cappotto di pelliccia. La semplice condizione di cadavere senza portafogli né sangue e con la salsiccia staccata per metà faceva di mio nonno l’innocente parte lesa. Non mi sembrava giusto. Certo, era doloroso sentirmi chiamare “sadico bastardo” da quei rappresentanti dell’autorità, ma se avessi tentato di difendermi sarei finita sulla sedia elettrica, e questo non sarebbe certo servito a migliorare la situazione di mia nonna. O la mia acconciatura già ribelle, che non sta mai a posto.

Sventura
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