21 DICEMBRE, MEZZOGIORNO, ORA STANDARD DELLE HAWAII-ALEUTINE

Fata Morgana

Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno

Gentili Tweeter,

in definitiva, questo è il racconto di tre isole. Come il racconto di Lemuel Gulliver. La nostra prima isola era Manhattan. La seconda era un’isola spartitraffico su nel Nord dello Stato. La terza andiamo ora a scoprirla.

Dopo la nostra umiliante débâcle al LAX, accompagnai il mio pastore psichico fino a un Sea Stallion CH-53D customizzato, il Gaia Wind, con cui coprimmo un lungo tragitto a bassa quota sull’oceano aperto. Considerando il sole pomeridiano sul Pacifico e l’aria cristallina di dicembre, è tutto piuttosto emozionante.

Mentre voliamo verso ovest, quel che noto, dapprincipio, è un vago bagliore all’orizzonte. Benché sia pieno giorno, benché la direzione sia quella sbagliata, sembra che stia sorgendo una mostruosa e prematura aurora. Un bagliore tremolante e azzurrognolo. Poco più di tre ore dopo il decollo dal LAX, il Gaia Wind giunge in vista di una nuova costa. Come Gulliver e Darwin prima di me, scorgo una nuova terra straniera. Condotti avanti dal whop-whop-whop della grande elica dell’elicottero, aleggiamo sempre più vicini a quello strano, impossibile territorio di alpi luminose e seghettate. Il sole splende su vaste pianure. Le ombre di nuvole di passaggio screziano la superficie terrestre, e guglie di un’altezza mozzafiato si protendono verso il cielo nella caligine. Ecco, questo paesaggio di fantasia non assomiglia alla terra firma quanto piuttosto a picchi e ghirigori di panna montata, il tutto proiettato su scala gigantesca e con il colore bianco e cristallino di una distesa di sale. Anche se i miei genitori ex hippie ed ex seguaci della dieta macrobiotica non mi avevano mai esposto al sale.

Il mio stupefatto consorte, il signor Crescent City, si sporge in avanti, gli occhi dalle vene dilatate fissi su quella visione sempre più grande. La sua bocca si spalanca, accentuando l’espressione del viso già non tanto vigile, proferendo un’unica, estatica parola. «Madlantide!»

Santo cielo.

Contrariamente al vecchio adagio “Comprate terra… non ne fanno più”, davanti a noi è squadernata la prova del fatto che di terra c’è gente che ne fa. Camille e Antonio, perlomeno, ne fanno.

I miei genitori avevano spesso accennato a quel progetto. Era loro dichiarata ambizione risolvere molti dei più drammatici problemi del globo con un’unica teatrale soluzione. Al primo posto, nelle loro menti, c’era il vorticante mar dei Sargassi di rifiuti plastici noto anche come “l’isola di plastica del Pacifico”. Per secondo veniva il cambiamento climatico globale. Al terzo posto c’era la riduzione dello spazio vitale per gli orsi selvatici della varietà polare. Quarto e ultimo, il gravoso fardello delle tasse sul reddito che erano costretti a pagare.

In verità, gentili Tweeter, nell’accaparrarsi le attenzioni dei miei genitori le tasse sul reddito facevano la parte del leone, ma vi prego di portare pazienza, per il momento.

Come soluzione a tutti questi inconvenienti, Antonio e Camille Spencer avevano proposto un radicale progetto di opere pubbliche. Già prima del mio decesso, erano molto impegnati a far pressione sui leader mondiali. Da grandi burattinai quali erano, mia madre e mio padre orientarono l’opinione pubblica verso la realizzazione del loro sogno: la creazione di un nuovo continente –, una vasta zattera galleggiante di polistirolo espanso e polimeri compattati, con una superficie pari al doppio di quella del Texas. In questa zona più o meno al centro del Pacifico, in costante movimento e in continua crescita, c’era un tempo la summenzionata isola di plastica del Pacifico, quella dilagante zuppa di sacchetti e bottiglie di plastica, di cubetti di LEGO e di ogni altra forma di rifiuto di plastica galleggiante e fluttuante catturato nelle correnti circolari del Vortice del Pacifico.

In nome della restaurazione ecologica, i miei genitori si erano fatti promotori di una fondazione internazionale per compattare quella crescente massa di plastica e, rimestando quel bollito di Styrofoam, quel pantano di cellophane sbrindellato… semplicemente sciogliendolo con iniezioni di aria surriscaldata e introducendo leganti chimici, hanno reinventato quel fradicio orrore ecologico trasformandolo in una bianca confezione. Quel sintetico paese delle meraviglie copre milioni di ettari, modellato in lucenti montagne e disteso a ondeggianti colline tra cui l’acqua piovana si accumula a creare laghi e mari interni di acqua dolce. Il paesaggio di schiuma montata galleggia, immune ai terremoti, e cavalca le onde dei peggiori tsunami. La sua caratteristica più sconvolgente è il candore primordiale, perlaceo… un biancore iridescente e immacolato con una vaghissima sfumatura d’argento.

Da lontano è una visione paradisiaca. Ecco torrette e cupole barocche che si potrebbero immaginare se si guardassero i cumulonembi nel cielo stando distesi di schiena su un prato in Tanzania durante le vacanze di Pasqua. Anche se noi non abbiamo mai festeggiato la Pasqua. Certo, andavo a caccia di uova dipinte, ma i miei genitori mi dicevano che erano state nascoste da Barney Frank, che ogni anno mi mandava anche un enorme cestoregalo pieno di bocconcini alla carruba. Anche se mia madre non aveva mai permesso al mio io ciccio e porcellino di mangiarne. Anche se a nessuno sono mai davvero piaciute le carrube.

Nel paesaggio di plastica gonfiata sognato dai miei, incombono altissime guglie che si stagliano su pergolati di rose bianche, archi e contrafforti, cortili e passaggi luccicanti come zucchero filato. È il bianco che la lingua vede quando si lecca un gelato alla vaniglia. Avvicinandosi alle coste di Madlantide si distinguono candide gole e vette. Davanti a noi, materie plastiche riciclate, fuse da getti di aria ad alta temperatura fino a sembrare lucidate. Vitrei nella loro patinata levigatezza, questi picchi e pendii non sono soggetti alla fisica geologica. In un paesaggio di sogno, un’arcadia alla Maxfield Parrish: si elevano a un’altezza impossibile, immacolate facciate di avorio splendente che si ergono dritte su spiagge lisce come specchi. Luminose come riflettori.

E io sarò anche una ragazza mangiacarrube zuccherodipendente tarchiatella, pacioccona e morta, ma conosco la parola “arcadia”. E so riconoscere una losca evasione fiscale, quando la vedo.

Al contrario degli altri continenti, Madlantide è esistita prima come mappa che in forma di vette e vallate. In questa terra gonfiata e sbiancata di polispazzatura ogni pendio, ogni dirupo, è stato progettato e modellato da artisti, disegnato su carta cianografica prima di essere creato. Preconcepito. Predestinato. Predeterminato in ogni suo centimetro quadrato.

L’opposto della tabula rasa.

Così come avevano creduto nell’armoniosa convergenza dei pianeti e nel potere delle piramidi, Camille e Antonio propagandarono questo continente vergine come una Nuova Atlantide.

Madlantide.

Difficile poter volare tanto alto da rendersene conto, ma la forma complessiva del continente non è un accidente di natura. I tratti di costa e le baie disseminate qua e là non sono plasmate da sistemi fluviali. No, dallo spazio si può notare che la nuova formazione ha l’aspetto di una testa umana vista di profilo. Il collo mozzato è rivolto a sud; la sommità del capo a nord. Questo profilo di un bianco latteo, alabastrino, forma un enorme cammeo circondato dall’azzurro ceruleo dell’Oceano Pacifico. La silhouette brobdingnagiana, il suo cadente doppio mento, oscura per dimensioni le vicine isole del Giappone. La grassa collottola incombe sulla California settentrionale, mentre le sue guance da scoiattolo minacciano di ostruire le rotte navali sopra le Hawaii. Inutile dire che questo continente nuovo di zecca è stato modellato in modo da assomigliare esattamente a me.

Vista dallo spazio, la Terra ora sembra una gigantesca moneta su cui sta impresso il mio profilo. Questa è l’immagine satellitare che avevo visto sugli schermi televisivi e sulle copertine delle riviste al LAX. Ecco l’Eden di plastica bianca a me intitolato.

Un mare interno tondeggiante funge da occhio. Sulla costa opposta, disordinati ghiacciai di plastica simulano le ciocche dei miei capelli indocili. E benché l’esito non sia particolarmente lusinghiero, quell’immagine è veritiera. Mi ritrae, ma in scala spropositata. Se si domandasse a mia madre, risponderebbe che è solo di poco più grande del naturale. I miei affranti genitori direbbero di aver concepito quell’inedito esperimento in plastica riciclata come imponente omaggio alla mia memoria. Per finanziare l’opera con fondi pubblici provenienti da tutti i governi del mondo, mio padre aveva promesso che sarebbe servita a raccogliere tutti i rifiuti derivati del petrolio mai prodotti dall’umanità. Il suo biancore avrebbe riflesso i raggi del sole rinviandoli al mittente, contrastando così il cambiamento climatico. Poiché galleggiava, il continente poteva anche essere rimorchiato verso nord per offrire soluzioni residenziali agli orsi polari sfrattati. I politici si erano affollati a sostenere l’impresa.

Nei fatti – mi spiega Mr Ketamina –, ora che l’opera è completata, quella manciata di persone che fisicamente risiedono sul territorio hanno già rivendicato presso il tribunale internazionale la loro indipendenza come nazione sovrana. Non è un caso che questi patriottici zeloti – noti come “madlantiani” e fautori dell’emancipazione dagli oppressori colonialisti – siano anche le persone più ricche del mondo e che in base all’appena stilata costituzione di Madlantide nessuno di loro sarà soggetto a pagare tasse sui loro altissimi redditi. Né verranno tassate le eredità. Inoltre, i selezionati residenti di questa nazione di plastica avranno tutti il titolo di ambasciatore, sicché in tutte le loro escursioni all’estero godranno dell’immunità diplomatica. Questo, gentili Tweeter, è il nobile sogno dei miei genitori: un’infinità di denaro e libertà infinita. Tutte le grandi corporation del mondo sgomitano per potervi stabilire il loro quartier generale.

Ormai siamo nello spazio aereo madlantiano. Sorvoliamo vette montuose di plastica bianca. Procediamo ondeggiando lungo candide vallate di plastica. Davanti a noi, una scheggia di non bianco. Situata più o meno al centro del mio vasto profilo globale di ragazza grassa, c’è una nave. Lì incuneato, in una labirintica fossa che evoca l’inizio del mio condotto uditivo – il buco dell’orecchio che, secondo i cristiani ortodossi, è l’orifizio per cui lo Spirito Santo ingravidò la Vergine –, imprigionato in quel deserto come una nave di esploratori intrappolata dall’avanzata dei ghiacci, o come Satana intrappolato nel lago di ghiaccio dantesco, c’è il megayacht dei miei genitori, il Pangaea Crusader.

Sventura
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