21 DICEMBRE, 8.47, ORA STANDARD DELLA COSTA DELL’ATLANTICO

Un preludio al mio esilio

Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno

Gentili Tweeter,

non sempre sono stata un grande e grasso budino di bambina. A undici anni ero magra come un grissino. Una vera silfide di ragazzina, con un indice di massa corporea appena sufficiente a impedire il collasso di tutti i miei principali organi vitali. Sì, un tempo ero una minuta, flessuosa ballerina con il metabolismo di un colibrì e per questo rendevo. La mia funzione era quella dell’equivalente infantile di una escort, a dimostrazione della fertilità di mia madre e del grandioso patrimonio genetico di mio padre, sempre pronta a sorridere accanto ai miei genitori nelle foto dei paparazzi.

Poi, però, mi mandarono a vivere su nel Nord dello Stato. Il lontano ricordo si rapprende acido nel mio cervello.

Il Nord dello Stato. Il tedioso Nord. È uno dei pochi posti in cui i miei genitori non possiedono una casa. Immaginate un milione di miliardi di alberi feriti che grondano sciroppo d’acero nella neve e… voilà, ecco a voi il Nord dello Stato. Figuratevi un miliardo di miliardi di zecche portatrici della malattia di Lyme che non vedono l’ora di mordervi.

E per non fare indebite generalizzazioni, servendosi del computer portatile di mia madre, il mio io undicenne andò a cercare una foto satellitare del luogo. Visto nel suo insieme, il Nord dello Stato ha un colore verde su verde da vecchia mimetica dell’esercito. Dallo spazio potei seguire la linea della statale Vattelapesca che costituisce una via di trasporto vitale tra nessun posto e nessun posto. Lessi i toponimi, in cerca di qualche nome famoso, e la verità mi colse… Lì, su quella cartina, c’era Woodstock.

Woodstock, N.Y. La squallida Woodstock. Perdonatemi per quanto sto per confessare. Mi ripugna toccare questo tasto, ma i miei genitori si conobbero all’edizione di Woodstock del ’99, quando la gente scatenava tumulti per il prezzo della pizza e dell’acqua in bottiglia su quel migliaio di pessimi acri di fango sovrappopolati. Mia madre era solo una nuda ragazza di campagna avvolta in una nube di sudore e patchouli. Mio padre era un pallido e nudo ex studente del MIT dai lunghi dreadlock unti che si era rasato i peli pubici per assomigliare di più al Buddha. Nessuno dei due aveva le scarpe.

Caddero in una pozzanghera e fecero la scena dei Bruti infoiati. La salsiccia infangata di lui le infangò la passera, lei si beccò un’infezione delle vie urinarie e si sposarono.

Chi ha detto che la magia non esiste?

Adesso raccontano la storia alternandosi alla voce, facendo ridere sconosciuti alle feste di fine riprese e nei camerini televisivi. Sottolineano il dettaglio del fango perché conferisce un tocco di verosimiglianza autodenigratoria al lubrico episodio.

E lo so, sì, che cosa vuol dire la parola “verosimiglianza”… so persino pronunciarla.

Mentre una cameriera somala preparava le mie valigie, mia madre verificava, capo per capo, che non ci fosse roba lavabile solo a secco. A quanto pareva la gente su al Nord faceva il bucato battendo la lingerie Vivienne Westwood tra due pietre piatte in riva a un fiume. E non avevano il sashimi, neanche. Né l’accesso a Internet, spiegò mia madre. Perlomeno, i miei nonni non ce l’avevano. Come non avevano il televisore. Possedevano, invece, del bestiame. Non animali in qualche senso remoto e astratto, tipo gli orsi polari il cui numero diminuisce vorticosamente o le piccole foche della Groenlandia che si crogiolavano su un banco di ghiaccio artico, pronte per le bastonate di qualche eschimese: no, quelle erano le caprette e galline coccodè e muuucche della nonna cui avrei badato, tra le altre cose previste dalla tabella di marcia quotidiana.

Santo cielo.

Non ci fu supplica bastevole a sospendere la mia condanna, e così fui sommariamente piazzata sul sedile posteriore di una Lincoln Town Car e spedita via in un baleno, con una valigetta tra le tante appositamente riservata al trasporto della mia sostanziosa riserva di Xanax. Quell’estate, alla tenera età di undici anni, avrei imparato a inghiottire la mia paura. A mandar giù l’orgoglio e la rabbia. E da quel giorno mia madre non avrebbe più potuto sfoggiare una figlia scheletrica.

Sventura
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