21 DICEMBRE, 8.09, ORA STANDARD DELLA COSTA DELL’ATLANTICO

Un ricongiungimento da schifo

Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno

Gentili Tweeter,

spaparanzata sul copriletto di satin del mio letto, la nonna incrocia all’altezza delle caviglie le gracili gambe offrendomi uno sgradito scorcio di quel che c’è sotto la gonna con spacco. Domando: «Ti abbiamo seppellita… senza mutande?».

«Quella stupida di tua madre» dice lei per tutta risposta. Il vestito che indossa è senza maniche, e lei fissa uno spinoso tatuaggio tribale che le circonda il polso per poi risalire lungo il braccio fino al gomito e di lì alla spalla. Il nero inchiostro forma lettere spinate, simili a rovi, che dicono: “Io [forma di cuore] Camille Spencer… Io [forma di cuore] Camille Spencer…” con una rosa tatuata che sboccia a separare le iterazioni. La nonna si sputa su un pollice e sfrega le parole che ha sul polso, dicendo: «Cos’è ’sta cretinata?». Lei non può vedere, ma le parole proseguono dietro le spalle e intorno al collo come uno strangolino, per concludersi con una grossa rosa tatuata che le copre la maggior parte della guancia destra. Questa ripetuta dichiarazione è stata impressa post mortem sulla vecchissima pelle cotta dal sole, su insistenza di mia madre.

Con la testa rialzata sul cuscino del letto, la nonna Minnie abbassa lo sguardo sui suoi seni pieni che gonfiano il corpetto del vestito. «Per l’amor del cielo… che mi ha fatto tua madre?» Con l’artiglio adunco di un venerando dito indice si tasta sperimentalmente una mammella sodissima, frutto di un altro ritocco post mortem.

Fuma una sigaretta fantasma, sbuffando fumo di seconda mano dappertutto, e con la mano libera dà dei colpetti sul letto accanto a sé per invitarmi a sedere. Ovviamente, mi siedo. Sono amareggiata e risentita e arrabbiata, ma non scortese. Mi siedo e basta, senza parlare, e di certo senza abbracci né baci. La mia finta borsa Coach presa in prestito è posata sul letto al mio fianco, e io ci infilo una mano e frugo tra ombretto Avon turchese, barrette di Almond Joy e preservativi. Pesco uno strano palmare e comincio a trasformare sulla tastiera i miei pensieri maligni in parole… frasi… post velenosi da blog.

Se ora dico le cose come stanno, deciderete che sono semplicemente la tredicenne fantasma più dura di cuore che abbia mai calcato la faccia della Terra, ma io sto già augurando alla mia amata nonna Minnie, defunta da tempo, un cancro ai polmoni e una seconda morte.

Tra un tiro e l’altro da quel chiodo da bara, la nonna mi domanda: «Non hai visto uno spiritista appostato qui in giro, vero? Pelle orrenda… Un gran bel pezzo d’uomo dai capelli lunghi raccolti a treccia come un cinese…». Ammicca con un occhio rugoso.

Sta’ tranquilla, HellHottieBabette, mi sto prendendo cura della tua borsetta.

La nonna Minnie era la madre di mia madre e ai suoi tempi d’oro era probabilmente una scatenata amante del jazz con i capelli a caschetto e le ginocchia incipriate, che ballava il jitterbug sui tavoli impolverati di cocaina di locali clandestini, in compagnia di Charles Lindbergh, e rombava per West Egg di notte a bordo di una Stutz Bearcat, avvolta in pellicce di procione e ingozzandosi di pesciolini rossi ancora vivi, ma quando l’ho conosciuta io la nonna era già piuttosto logora. Credo che il fatto di dover crescere mia madre non l’avesse per niente aiutata a restare giovane.

Quando nacqui io, la nonna Minnie collezionava già bottoni e si curava la sciatica. E fumava a nastro. Ricordo che, quando andavo a trovarla, nel Nord dello Stato, lei scaldava l’acqua per il tè dentro un vecchio barattolo di sottaceti esposto al sole, su un davanzale. A parte tutta questa normanrockwellità, la casa di mia nonna puzzava come se dei luridi cavernicoli ci avessero passato le vacanze, come se lei fosse solita preparare i pasti combinando ingredienti crudi strappati da un qualche pezzo di terra, per poi riscaldarli a creare il cibo in casa, senza mai telefonare a Ivy o alla Grill Room del Four Seasons per farsi portare di corsa moules marinières.

Dopo aver usato il bagno, dalla nonna, non c’erano cameriere somale che intervenivano quatte quatte a disinfettare tutto e a distribuire nuovi shampoo al profumo di pamplemousse. Non c’è da stupirsi, quindi, se mia madre scelse di fuggire ancora adolescente per diventare una star di Hollywood e sposare mio padre, già miliardario. Fino a un certo punto si può anche far finta di essere Laura Ingalls Wilder, ma poi il gioco della campagnola a piedi scalzi comincia a stancare. Mentre io ero esiliata sulla mia isola d’Elba nel Nord dello Stato, mia madre era in giro con una équipe cinematografica dell’UNESCO a insegnare l’uso del preservativo e il sesso sicuro ai boscimani del Kalahari. Mio padre, invece, orchestrava ostili scalate finanziarie della Sony Pictures o conquistava la principale quota di mercato nel commercio internazionale di plutonio per usi bellici, e io ero costretta a fingere interesse per i rustici richiami all’accoppiamento degli uccelli selvatici.

Io non sono una snob. Non potete dirlo, perché io da tempo ho perdonato alla nonna per aver abitato in una fattoria nel Nord dello Stato. L’ho perdonata per aver comprato parmesan tarocco e per la sua incapacità di distinguere un sorbetto da un gelato.* Tra i meriti della nonna Minnie c’è comunque quello di avermi iniziata ai romanzi di Elinor Glyn e di Daphne du Maurier. Per segnare un punto anche a mio favore, dirò che ho tollerato la sua mania di crescere i suoi pomodori tradizionali quando Dean & DeLuca avrebbero potuto spedirci via corriere dei Cherokee Purple infinitamente più buoni. A tal punto le volevo bene. Però, a rischio di sembrare troppo dura nel giudizio, ancora non l’ho perdonata per la sua morte.

Togliendosi un frammento di tabacco dalla lingua, servendosi delle unghie lunghe quanto bacchette cinesi con cui mia madre l’aveva “svecchiata” per il funerale, la nonna dice: «Tua madre ha ingaggiato qualche tizio per dare la caccia al tuo fantasma, perciò sta’ in guardia». E aggiunge: «Posso dirti questo: è una specie di detective privato che trova la gente morta, ed è proprio qui, in questo hotel!».

Qui seduta, nella mia vecchia cameretta d’albergo, circondata dalle mie scimmie Steiff e dalle zebre Gund, non vedo altro che quella sigaretta accesa. Quella forma di suicidio legalizzato. E so bene, per rispondere al commento postato da HadesBrainiacLeonard, di essere ingenerosa, ma permettetemi di essere franca: non sono totalmente priva di empatia, eppure, nel profondo, penso che lei se ne sia fregata di me. Mi ha abbandonato perché per lei le sigarette erano più importanti. Io le volevo bene, ma lei voleva più bene al catrame e alla nicotina. E oggi, trovandola nella mia camera da letto, mi riprometto di non commettere mai più l’errore di volerle bene.

Mia madre non le aveva mai perdonato di non essere Peggy Guggenheim. Io non le perdono di aver fumato, cucinato, tenuto l’orto e di essere morta.

«Di’ un po’, Semino di zucca» fa la nonna Minnie, «dov’è che te ne sei stata?»

Mah, le rispondo, in giro. Non le dico niente di come sono morta. Né faccio parola della mia condanna all’inferno. Intanto le mie dita continuano a battere sui tasti del palmare; con i polpastrelli urlo tutto quello che non sono in grado di dire ad alta voce.

«Io sono stata lì. In Paradiso» dice nonna Minnie. Indica con la sigaretta il soffitto. «Siamo stati salvati tutt’e due, io e il nonno Ben. Il problema è che il paradiso ha adottato una di quelle severe regole contro il fumo.» Perciò, spiega, così come gli impiegati devono sfidare le intemperie e starsene ingobbiti all’aperto per aspirare dai loro stick cancerogeni, la mia defunta nonna deve scendere in purgatorio come fantasma per soddisfare la sua ignobile dipendenza.

Perlopiù mi limito ad ascoltare e a scrutarla in viso in cerca di somiglianze con me. Bimba e vegliarda, creiamo una sorta di effetto “prima e dopo”: il suo naso a becco di pappagallo è il mio grazioso naso a patatina, solo esposto ai raggi ultravioletti di centomila giorni d’estate su al Nord. La sua pappagorgia che ricade a più strati di varie dimensioni replica il mio delicato mento di ragazzina, ma triplicandolo. Provo a parlare del tempo che fa. Lì seduta sul bordo del letto dell’albergo, dove la nonna aspira dalla sua sigaretta, domando se anche il nonno Ben si aggira furtivo per l’hotel Rhinelander.

«Pisellino» mi dice, «smettila di trafficare con quella calcolatrice tascabile e sii più socievole.» La nonna Minnie gira la sua testa da fantasma di qua e di là sul cuscino, sbuffando fumo verso il soffitto, e dice: «No, tuo nonno non è da queste parti. Ha preferito restare in paradiso per dare il benvenuto a Paris Hilton, quando arriva».

Ti prego, professoressa Maya, dammi la forza di non usare un emoticon.

Paris Hilton va in paradiso?

Non riesco a Ctrl+Alt+Capacitarmene.

Qui seduta, mentre guardo in faccia mia nonna, mi rendo conto all’improvviso di non poter vedere i suoi pensieri. I pensieri… il pensare… la prova avanzata da René Descartes a sostegno della nostra esistenza è invisibile quanto i fantasmi. Come le nostre anime. Si potrebbe dire che, se la scienza vuol negare la possibilità di un’anima per mancanza di un riscontro fisico, gli scienziati dovrebbero negare anche l’esistenza del pensiero. Dopo questa riflessione, guardo il mio solido e funzionale orologio da polso e noto che è passato soltanto un minuto.

Mia nonna mi becca con il gomito piegato, l’orologio girato in modo da vedere l’ora, e dice: «Ti è mancata la tua nonna, micina mia?». Esala un’altra voluta di fumo verso il soffitto.

«Sì» rispondo, mentendo. «Certo, mi sei mancata.» Intanto continuo a digitare il contrario.

Non mi sfugge che proprio questa è la principale contraddizione della mia vita: io amo, anzi adoro i miei familiari, ma solo finché non sono con loro. Non appena posso godermi un ricongiungimento con la mia nonna Minnie, defunta da tanto tempo, ecco che desidero sottoporre a eutanasia l’amata nonnina sfumacchiante e mezza cieca.

La triste realtà, però, è che all’eutanasia clinica si può ricorrere una volta soltanto, se va bene.

Poi, all’improvviso, un rumore.

Dal foyer dell’attico: una risata.

Domando: «Sarà quel detective privato capellone paranormale che dicevi?».

La nonna Minnie punta la sigaretta in direzione del trambusto, una risata maschile, e dice: «Ecco perché non dovresti essere qui, paperotto». Fa cadere la cenere fantasma dalla sigaretta e riporta il mozzicone alle labbra. «Anch’io sto facendo una piccola indagine segreta» aggiunge, e fa un altro tiro. «Credi che mi diverta a star qui, circondata dai tuoi giocattoli? Maddy, cara» dice, «tu sei incappata in un appostamento.»

* In italiano nel testo. (NdT)

Sventura
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