1º NOVEMBRE, 00.01, ORA STANDARD DELLA COSTA DEL PACIFICO

La vita comincia prima del concepimento: preludio

Postato da Hadesbrainiacleonard@oltretomba.inferno

Il bene e il male sono sempre esistiti. Esisteranno sempre. Solo le nostre storie che ne parlano cambiano di continuo.

Nel VI secolo prima di Cristo, il legislatore greco Solone si recò nella città egizia di Sais e ne riportò il seguente racconto della fine del mondo. Secondo i sacerdoti del tempio di Neith un cataclisma investirà la Terra con fiamme e fumo velenoso. Nel giro di un giorno e di una notte, un intero continente sprofonderà, colando a picco nel mare, e un falso messia condurrà tutta l’umanità alla catastrofe.

Secondo l’annuncio dei profeti egizi, l’Apocalisse comincerà in una notte tranquilla, sulla cima di un’alta collina sovrastante il regno di Los Angeles. Lì, cantano gli antichi oracoli, una serratura si aprirà di scatto. Tra le grandi case cintate di Beverly Crest, un robusto catenaccio scivolerà di lato. Come riferito da Solone, i due battenti di un cancello di sicurezza ruoteranno sui cardini. Fuori dal cancello, in basso, i regni di Westwood e Brentwood e Santa Monica attendono, nel sonno, adagiati in una ragnatela di lampioni. E quando l’ultimo ticchettio d’orologio della mezzanotte sarà sfumato, dentro quel cancello spalancato abiteranno solo tenebre e silenzio, finché non si sentirà un motore prendere vita con un ruggito, e due fanali sembreranno condurre avanti quel rumore. E da quei cancelli uscirà una Lincoln Town Car che avanzerà pigramente cominciando la sua lenta discesa lungo le curve a gomito sopra l’Hollywood Boulevard.

Quella notte, secondo l’antica profezia, sarà placida, senza un alito di vento; cionondimeno, nella scia della Lincoln in lento progresso monterà la tempesta.

Nella sua discesa da Beverly Crest verso le Hollywood Hills, la Lincoln si stiracchia lunga e nera come la lingua di un impiccato. Con chiazze rosacee di lampioni che scivolano sulla sua corazza brunita, la Town Car luccica come uno scarabeo sacro in fuga da una tomba. E quando arriva in North Kings Road le luci di Beverly Hills e di Hancock Park con un ultimo guizzo si oscurano, non una casa alla volta: interi isolati vengono completamente cancellati dalla rete. E in North Crescent Heights Boulevard, il quartiere di Laurel Canyon viene spento nella sua totalità: non solo le luci, bensì anche il rumore e la musica nella notte fonda ammutoliscono. Ogni luminoso indizio di vita in città viene cancellato a mano a mano che l’auto scende a valle, da North Fairfax Avenue a Ogden Drive fino a North Gardner Street. E così le tenebre sommergono la città, seguendo l’ombra di quella splendida auto.

E si leverà anche un vento impietoso. Come previsto da quei sacerdoti di epoche passate, la burrasca trasforma le torreggianti palme di Hollywood Boulevard in spazzoloni imbizzarriti che strigliano il cielo. Le loro frasche mulinanti proiettano a terra orribili figure mollicce che si spiaccicano al suolo urlando. Con occhi come grani di caviale e code squamose da serpente, queste frenetiche figure mollicce vanno a sbattere contro la Town Car che passa. Cadono con gemiti di strazio. I loro artigli graffiano l’aria annaspando. I loro violenti impatti non rompono il parabrezza, che è a prova di proiettile. Le ruote della Lincoln rombante le schiacciano, facendo poltiglia della loro carne riversa a terra. E queste figure abbattute, strillanti, brancolanti sono roditori: corpi di opossum che si contorcono spiaccicati a morte. Gli pneumatici della Lincoln fanno esplodere questo tappeto rosso di pelliccia maciullata. I tergicristalli ripuliscono la visuale del guidatore dal sangue ancora tiepido, e le ossa frantumate non bucano le gomme, perché anche le gomme sono a prova di proiettile.

E il vento è tanto potente da ripulire la strada, sospingendo avanti questo fardello di schifosi animaletti mutilati, continuando a raccogliere questa marea di sofferenze nella scia della Town Car, che raggiunge Spaulding Square. Le crepe dei fulmini fratturano il cielo, e l’acqua scroscia, mitragliando le tegole dei tetti. Il tuono spara una fanfara, mentre la pioggia saccheggia i bidoni della nettezza urbana, spargendo borse di plastica e bicchieri di polistirolo.

Negli immediati dintorni della torre incombente del Roosevelt Hotel, invece, il boulevard è deserto, e l’esercito di spazzatura marcia sulla città senza l’ostacolo di semafori o di altre automobili. Le vie, gli incroci, tutto deserto. Anche i marciapiedi sono disabitati, come promesso dagli antichi divinatori, e le finestre tutte buie.

Il cielo ribollente è orbo delle lucine ardenti degli aerei, e i canali di scolo intasati lasciano le strade allagate di pioggia e di pellame. Le strade sdrucciolevoli di interiora. E all’altezza del Grauman’s Chinese Theatre l’intera Los Angeles è ridotta a un macello, nel caos.

Eppure, non molto più avanti, nell’isolato 6700… lì la luce al neon risplende ancora. In quell’unico isolato dell’Hollywood Boulevard la notte è tiepida e quieta. Non c’è pioggia a bagnare l’asfalto, e i tendoni verdi del Musso and Frank Grill pendono immobili. Le nuvole sopra quell’isolato cittadino si aprono come un tunnel a mostrare la luna, e gli alberi sui marciapiedi sono imperturbati. I fanali anteriori della Lincoln sono a tal punto rivestiti di rosso da proiettare un sentiero scarlatto, come un tracciato che l’auto debba seguire. Questi potenti raggi rossi svelano la presenza di una giovane fanciulla sul marciapiede opposto a quello dell’Hollywood Wax Museum, il museo delle cere. Nell’occhio dell’orrenda tempesta, lei fissa una stella di cemento rosa incastonata a raso nel marciapiede. Ai lobi sfoggia zirconi cubici dal taglio a brillante, grossi come decini. E i piedi calzano un paio di Manolo Blahnik contraffatte. Le morbide pieghe della sua gonna a tubino e del maglione di cashmere sono asciutte. Masse ondulate di capelli rossi le scendono a cascata sulle spalle.

Il nome inciso nella stella rosa è “Camille Spencer”, ma la giovane fanciulla non è Camille Spencer.

Un grumo rosa di gomma da masticare rappresa, svariati grumi, anzi, rosa e grigi e verdi, sfigurano il marciapiede come croste. Oltre ai segni della masticazione umana, la gomma reca impresso anche lo zigzag delle suole di passaggio. La giovane fanciulla ci lavora su con il tacco aguzzo di una falsa Blahnik, fino a quando non riesce a staccare quella scabra gomma. Finché la stella, se non proprio pulita, è quantomeno più pulita.

In questa bolla di notte placida, immobile, la giovane fanciulla afferra l’orlo della gonna e se l’avvicina alla bocca. Sputa sul tessuto e si inginocchia per lustrare la stella, facendo brillare il nome inciso a lettere d’ottone, incastonato nel cemento rosa. Quando la Town Car le si ferma accanto, lungo il marciapiede, la ragazza si rialza in piedi e gira intorno alla stella con il rispetto che si potrebbe riservare a una tomba. In una mano stringe una federa. Le dita dalle unghie smaltate di bianco sbeccato, strette a pugno, reggono questo sacco di tela bianca gonfio e appesantito di Tootsie Rolls, Charleston Chews e stringhe di liquirizia. Nell’altra mano tiene un Baby Ruth mangiato a metà.

I denti rivestiti di porcellana masticano pigri. Una linea di cioccolato sciolto le contorna le labbra tumide e imbronciate. I profeti di Sais mettono in guardia contro la bellezza di questa giovane donna, perché chiunque la vedrà dimenticherà qualunque piacere a parte quelli del cibo e del sesso. La sua forma terrena è a tal punto seducente che chi la vede viene ridotto a null’altro che stomaco e pelle. E, come cantano gli oracoli, non è viva né morta. Né mortale né spirito.

E la Lincoln ferma in folle presso il cordolo gronda rosso. Il finestrino posteriore dal lato del marciapiede si schiude di un filo ronzando, e una voce si annuncia dall’interno lussuoso. Nell’occhio di quell’uragano, una voce maschile domanda: «Dolcetto o scherzetto?».

Oltre il raggio di un tiro di sasso, la notte continua a ribollire dietro una muraglia invisibile.

Le labbra della fanciulla lucide di rossetto rosso-rosso – una tinta denominata “Caccia all’uomo” – quelle labbra piene si arricciano in un sorriso. L’aria, qui, incombe così calma che si può cogliere la fragranza del suo profumo, come di fiori posati dentro una tomba, premuti ed essiccati per mille anni. Lei si sporge verso il finestrino aperto e dice: «Sei arrivato troppo tardi. È già domani…». Tace il tempo di una lunga e lussuriosa strizzatina d’occhio con palpebra coperta di ombretto azzurro e poi domanda: «Che ora è?».

Ed è evidente che l’uomo sta bevendo champagne, perché in quell’attimo di silenzio persino le bollicine fanno baccano. E anche il ticchettio dell’orologio da polso dell’uomo fa baccano. E la sua voce dall’interno dell’auto dice: «È l’ora in cui anche le ragazze monelle devono andare a letto».

La giovane donna, ora, sospira malinconica. Si umetta le labbra, e il suo sorriso sfuma. Tra il civettuolo e il rassegnato dice: «Mi sa che ho violato il coprifuoco».

«Essere violati» dice l’uomo «può essere meraviglioso.»

La portiera posteriore della Lincoln si spalanca ad accoglierla, e la fanciulla sale a bordo senza esitazioni. E quella portiera, cantano i profeti, rappresenta una soglia. L’auto stessa è una bocca che inghiotte dolcetti. E la Town Car la rinchiude nel proprio stomaco: interni rivestiti di spesso velluto come quelli di una bara. Il finestrino oscurato si richiude ronzando. L’auto è accesa, in folle, il suo cofano esala vapore, il suo corpo è lucente e affusolato, bordato ora di una frangia rossa, una barba di sangue coagulato sempre più lunga. Tracce cremisi di pneumatici dal luogo della sua provenienza fino a dov’è ora parcheggiata. Dietro l’auto la tempesta infuria, ma qui gli unici rumori che si sentono sono le soffocate eiaculazioni di un uomo che grida. Gli antichi descrivono questo rumore come un miagolio, uno spiaccichio mortale di roditori.

Poi silenzio; dopo un po’ il finestrino posteriore si riapre di nuovo. Ne sporgono le unghie dallo smalto bianco sbeccato. Da queste penzola una pellicola di lattice, versione in sedicesimo della federa bianca della ragazza, un sacchetto in miniatura che pende appesantito. Il suo contenuto: una sostanza di un bianco torbido. La guaina di lattice è sporca di rossetto rosso-rosso. È sporca di caramello e cioccolato al latte. Invece di lasciar cadere quell’oggetto in un tombino, ancora seduta sul sedile posteriore dell’auto, la ragazza avvicina la faccia al finestrino aperto. Si porta il sacchetto di lattice alle labbra e vi insuffla aria. Lo gonfia e lo annoda abilmente all’estremità aperta. Come una levatrice che fermi il cordone ombelicale di un neonato. Come un clown di carnevale che attorcigli un palloncino. Chiude la guaina gonfiata, sigillando all’interno il lattiginoso contenuto, e con le dita comincia a torcerla. Piega e rigira quella forma tubolare fino a farla assomigliare a un essere umano con due braccia, due gambe e una testa. Una bambola vudù. È grande quanto un neonato. Questa sudicia creatura, ancora sporca del caramello delle sue labbra, intorbidita dalla misteriosa brodaglia dell’uomo, viene gettata al centro della stella rosa in attesa.

Secondo le profezie tramandate da Solone, quella piccola effigie è un sacrificio di sangue, seme e zucchero deposto su quella sacra figura a pentacolo, offerto sul ciglio dell’Hollywood Boulevard.

Quella notte, con questo rituale, ha inizio il conto alla rovescia verso il Giorno del Giudizio.

Di nuovo il finestrino a specchio dell’automobile riempie la sua cornice. E in quel preciso istante, la tempesta, la pioggia e le tenebre inghiottono il veicolo. Quando la Lincoln si stacca dal marciapiede, portandosi via la giovane fanciulla, il vento travolge la sua pseudocreaturina reietta. Quella vescica annodata. Quell’idolo. Il vento e la pioggia radunano il loro abbondante raccolto di animaletti maciullati e detriti di plastica e gomma da masticare rinsecchita, sospingendo tutta questa massa rotolante nella direzione della gravità.

Sventura
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