21 DICEMBRE, 9.29, ORA STANDARD DEGLI STATI UNITI CENTRALI
Un nuovo libro e un nuovo moroso
Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno
Gentili Tweeter,
fu al funerale del nonno che mi avvidi di come mia nonna avesse cominciato a tossire in un modo nuovo e più insistente. Tra i bambini ci sono quelli che magari piangono, ma altri tossiscono per attirare attenzioni amorevoli. Altri bambini bevono vodka o si ingozzano di sostanze illegali. Altri bambini escono con uomini che abusano di loro. O magari esagerano con il cibo. Persino le attenzioni negative sono preferibili alla sorte di un orfano baltico ignorato in una culla, segregato in un reparto dimenticato pieno di scugnizzi abbandonati. Quella tosse durante il funerale del nonno, quel tossire sputacchioso accanto alla tomba, era il suo modo di suscitare compassione. Non avrei mai immaginato che il suo bisogno emotivo potesse arrivare a produrre un cancro.
Nonostante le mie preghiere, i miei genitori non vennero nel Nord dello Stato per la cerimonia funebre. Si accordarono con una troupe di ripresa dotata di camion per la trasmissione privata dell’evento in diretta via satellite nella loro casa di Tenerife. I paparazzi, però, arrivarono come mosche. Il “New York Post” titolò: Padre di attrice torturato e ucciso in una toilette.
Invece di fiori o biglietti di cordoglio, mia madre mandò a mia nonna e a me sontuosi cesti-regalo pieni di Xanax.
Ogni volta che squillava il telefono immaginavo fosse la polizia che mi convocava per l’iniezione letale. Al funerale sfoggiai un velo nero di Gucci su occhiali neri Foster Grant e un visoncino vintage corto Blackglama e guanti neri, nell’eventualità che qualche scaltro segugio avesse tentato di prendere le mie impronte digitali dalla balaustra della comunione. Per rispondere a CanuckAIDSemily, cara Emily, la chiesa vera e propria era una rustica struttura fatta di assi di legno dove un cadavere non sembrava affatto fuori luogo, giustapposto com’era a piatti di carta riempiti di biscotti alle arachidi. I convenuti sembravano sinceramente addolorati per il tragico decesso del nonno e manifestarono la loro aborigena empatia da Nord dello Stato porgendomi un dono: un libro. A differenza del libro del Beagle o di quello del Richiamo della foresta, questo volume era fresco di stampa, un titolo nuovo, ottimamente rilegato in similpelle. Doveva essere il libro dell’estate, perché tutti i presenti ne avevano una copia. Era il mega-bestseller del momento, Le ceneri di Angela o Il codice Da Vinci del giorno. Una prima sommaria consultazione lasciava presagire un’opera postmoderna raccontata da una molteplicità di punti di vista – molto Kurosawa, come struttura – incentrato sulla trama, una sorta di peplum pieno di magia e draghi, sesso e violenza. Accolsi questa loro rustica offerta di condoglianze con la stessa grazia con cui mia madre avrebbe ritirato un Oscar.
Impresso a foglia d’oro sulla costa c’era il titolo: La Bibbia.
Fantasioso quanto un libro di Tolkien o di Anne Rice, questo nuovo tomo raccontava un’elaborata storia sulla creazione. Nel mio cuore avrebbe facilmente spodestato il libro del Beagle, con quel gusto talora didattico e ottocentesco del signor Darwin. Nella sua saga egli descriveva l’esistenza come un’impresa senza appello, una lotta disperata per resistere e procreare. Non è di grande conforto, di fronte alla morte, chi ti assicura che tu sei soltanto una difettosa variazione della vita giunta al termine del suo vicolo cieco evolutivo. Mentre il libro del Beagle presentava una narrazione fatta di morte e ancora morte, un interminabile susseguirsi di adattamento e fallimento – in cui tutta la storia era letteralmente impastata di sperma e sangue – il libro della Bibbia prometteva una vita felice per l’eternità.
Sopravvivenza del più adatto contro sopravvivenza del più buono.
Quale autore scegliereste, gentili Tweeter, da leggere prima di addormentarvi?
Quella chiesetta di provincia aveva anche un club del libro che si riuniva una volta alla settimana per parlare di questo nuovissimo successo letterario. Per donarmi il libro, questi semplici abitanti del Nord dello Stato si affidarono a un ragazzino. Mentre io lasciavo la chiesa con mia nonna, questo tesoruccio dai capelli color stoppa si fece avanti timidamente dai loro ranghi a quadrettoni. Reggeva a due mani questo libro della Bibbia, e ai miei occhi di undicenne stanca del mondo parve un tipo serio, vestito dei suoi stracci lavati di fresco, un personaggio di secondo piano, destinato a mungere vacche e a generare altri lavoratori agricoli per poi morire in un non immeritato anonimato, probabile vittima di un qualche futuro incidente con la mietitrebbia. Lui, sorta di David Copperfield di campagna, e io, affascinante giramondo e icona della moda, sembravamo coetanei. Una rude donna dall’aria contadina lo spinse verso di me con le sue mani callose dicendo: «Dallo alla povera bambina, Festus».
Così si chiamava: Festus. Posò il libro sui miei palmi inguantati di nero.
Non posso dire di essere rimasta folgorata, ma Festus stuzzicò la mia curiosità romantica. Una scintilla, molto probabilmente di natura elettrostatica, passò tra lui e me, ma così forte che sentii la lieve scossa percorrere il mio elegantissimo guanto. Accolsi il dono con un semplice cenno del capo e un mormorio di ringraziamento. Simulando stress emotivo, finsi di cadergli addosso, e le sue robuste braccia da scugnizzo di campagna mi sorressero. Nell’abbraccio, le mani prepuberi di Festus mi afferrarono carnalmente: solo il libro della Bibbia impediva il pieno contatto tra le nostre sensibili zone pelviche.
Festus, reggendomi per un istante, sussurrò: «Il Buon Libro la sosterrà, signorina Madison».
Ebbene sì, gentili Tweeter, Festus sarà anche stato un grezzo primitivo, che puzzava dello sterco di gallina annidato sotto le sue unghie, ma usava il verbo “sostenere”.
Santo cielo, che emozione! «Au revoir» promisi senza fiato al mio audace corteggiatore rurale. «All’incontro…» Controllai di nascosto il titolo del libro. «… di approfondimento sulla Bibbia».
Le sue ardenti labbra di bambino bisbigliarono: «Bellissimo orologio…».
E da quel momento in poi fui creta nelle mani di quel giovane garzone di fattoria. La mia fertile mente cominciò immediatamente a costruire situazioni romantiche ambientate nel suo mondo di agricoltura di sussistenza. Insieme ci guadagnavamo faticosamente il pane quotidiano nell’ostico paesaggio del Nord dello Stato, e il nostro amore sarebbe stato della stessa materia schietta di una poesia di Robert Frost.
Per il rinfresco dopo il funerale, la nonna Minnie aveva preparato crostatine di mele e una torta Bundt con spruzzi di limone e un flan di albicocche. Una sbrisolona saporita, barrette all’acero, ciliegie in pastella, sformato di pesche, Betty alle pere, slump alle uvette, croccantini al cocco, pandowdy alle noci, buckle alla cannella, zuppa inglese alle prugne e dessert alle nocciole con crema pasticcera. Aveva costruito piramidi di biscotti di noce pecan sui vassoi. Piatti di amaretti allo zenzero e biscottini al burro. Impegnata a glassare pasticcini e a inzuccherare frittelle, non doveva essersi sentita tanto più vedova di prima. Impossibile sapere quali accordi complicati stringono due persone per restare sposati più di dieci minuti. Magari sapeva persino delle pagliacciate del nonno all’isola spartitraffico. Da parte mia, recuperai il libro di Jack London dallo scaffale del salotto e me lo portai in camera, insieme a un piatto di pasticcini, e lo lessi, pregustando la scena degli embrioni di scimpanzé. A metà del romanzo giunsi alla conclusione che quel che due persone non si dicono forgia un legame più forte della sincerità.
I pasticcini alle fragole della nonna mi stavano corrompendo, incitandomi a non dire la verità. Forse quei pasticcini erano il castigo per le mie bugie. Dalla fattoria della nonna si riusciva a vedere solo fino al primo albero. Ciò rendeva difficile il compito di pensare al futuro. A qualsiasi futuro.
Non solo il giorno del funerale di mio nonno o il giorno dopo o quello dopo ancora, bensì in tutta la settimana successiva, io continuai a mangiare. La nonna Minnie rompeva uova, versava latte dai cartoni, tagliava blocchi di burro dal vassoio preso dal frigorifero. Spargeva farina. Tossiva. Aggiungeva cucchiaiate di zucchero. Tossiva. Mostrandomi tutte le cose terribili che servono per preparare da mangiare – olio vegetale, lievito, estratto di vaniglia – regolava la temperatura del forno e colmava con mestolate di pastella schiumosa piccoli recipienti da muffin, dicendo fra i colpi di tosse: «Quando aveva la tua età, tua madre tornava sempre a casa con i pidocchi in testa…».
La nonna Minnie raccontava la sua vita al contrario, quando cucinava, elencando particolari come fossero ingredienti. Di quando mia madre aveva fatto la pipì a letto. Di quando mia madre aveva mangiato la cacca di gatto e la nonna le aveva tolto dal sedere una tenia lunga come uno spaghetto. Neanche questa immagine bastò a farmi smettere di mangiare.
Si dilungò a raccontare la storia di mia madre che aveva comprato il biglietto di una lotteria e aveva vinto una fortuna che sarebbe stata il trampolino di lancio per la sua carriera di attrice del cinema.
Di notte, il libro del Beagle infilato tra il materasso e la rete del letto mi impediva di dormire. Me ne restavo lì sveglia, con la gibbosità del libro a premere contro la spina dorsale, e la certezza che il procuratore locale sarebbe presto arrivato a bussare alla porta della mia camera per mostrarmi un mandato di perquisizione. Gli investigatori mi avrebbero torchiato alla luce di una lampadina nuda dicendomi che avevano trovato diverse parole stampate al contrario, a rovescio, come viste allo specchio, sulla salsiccia morta di mio nonno. Era evidente che quelle parole erano state impresse o trasferite dall’arma del delitto. Quelle parole erano le impronte digitali necessarie a condannare il colpevole. Alcune delle parole leggibili al contrario erano: “Wollaston”. “wigwam”, “guanaco”, “Goeree”, “fuegini”, “scorbuto” e, la più eloquente tra tutte, “Beagle”. Una squadra di sbirri avrebbe messo sottosopra la camera scoprendo il libro nascosto.
Nelle rare occasioni in cui mi assopivo, il mio defunto nonno Ben entrava nella stanza spingendo un carretto da venditore di hot dog e mi serviva una salsiccia sommersa di crauti e sangue. O un piatto fumante di tenie della cacca di gatto annegate in un sugo alla marinara.
Come nel peggiore degli incubi, un giorno mia nonna stava dividendo la biancheria sporca e si presentò in cucina con qualcosa di azzurro. Io ero seduta al tavolo della cucina a mangiare una cheesecake. Non una fetta di cheesecake: stavo pagaiando con una forchetta nel bel mezzo di un oceano di cheesecake, e mi ingozzavo frenetica senza gustare un solo boccone. Aperto sul tavolo c’era il libro della Bibbia. Smisi di leggere e di masticare e, con la bocca ancora piena, vidi la mia camicia azzurra di chambray appallottolata tra le mani della nonna, e feci fatica a non strozzarmi.
Anche se in realtà io, il cibo, non lo masticavo. Il mio modo di mangiare era più che altro un vomitare al contrario.
Piazzate sotto i miei occhi, vicine quanto la forchettata di cheesecake rimasta in sospeso, c’erano le chiazze di quella misteriosa bava essiccata. Con espressione distratta e ingenua, la nonna mi domandò: «Gocciolina di Pioggia…». Tossicchiò le parole: «Ti ricordi per caso cos’è questa schifezza, così magari faccio un prelavaggio?».
Primo, non sapevo esattamente che cosa fosse. Secondo, ero certa che lei avrebbe preferito non saperlo. Scostando la mia gustosa cheesecake da quelle macchie gialle e ammuffite, dissi: «Senape di Digione».
Con mio grande orrore, la nonna avvicinò il tessuto stropicciato alla sua faccia e guardò meglio. Con un’unghia grattò la macchia incrostata dicendo: «Non odora per niente di senape…». Dalla macchia grattata piovve una specie di pulviscolo. Le particelle si posarono sulla mia forchetta. Sul piatto della mia cheesecake ancora da finire. La nonna Minnie si avvicinò ulteriormente alla faccia la camicia insozzata, allungando verso la macchia l’esitante punta della lingua.
«Non è senape!» gridai. La forchetta cadde con fragore sul pavimento della cucina. Mi alzai così di scatto che la mia sedia di metallo restò un istante in bilico e poi si rovesciò dietro di me. Il trambusto indusse la nonna a concentrare l’attenzione sulla mia faccia. Io dissi, ormai calma: «Non è senape».
Lei mi fissò, la lingua di nuovo al sicuro in bocca.
«È uno starnuto» dissi.
«Uno starnuto?» domandò lei.
Dovevo starnutire, le spiegai, e non avendo a portata di mano un fazzoletto ero stata costretta a usare la camicia.
Mia nonna, strabiliata, esaminò quelle estese Galápagos di depositi rappresi.
«Tutta questa roba sarebbe moccio di un tuo starnuto?» domandò, come se io fossi quella sul punto di morire per un’atroce malattia ai polmoni causata dalle sigarette.
Mi strinsi nelle spalle. Smisi di badarle. Pur di non farla soffrire, le avrei lasciato credere che sua nipote era un sudicio e disgustoso animale. Avevo undici anni e mi stavo gonfiando come una scrofa da primo premio.
Come a un segnale, lei cominciò a tossire e andò avanti a lungo, imbarazzata, per poi nascondere la faccia rossa dietro quella pallottola di camicia azzurra che ancora teneva tra le mani. Colpi di tosse secchi, come quando il nonno Ben raschiava dal profondo dei polmoni uno sputo catarroso al tabacco. Le vene risaltavano in rilievo sul collo come le mappe dei maggiori sistemi fluviali disegnate da Darwin. Erano colpi di tosse così brutti che lei non riuscì a smettere neanche quando tutt’e due vedemmo il rosso brillante che stava sputando sulle precedenti chiazze di bava rinsecchita.
Tra succo di salsiccia e sangue di polmoni, avrei detto che quella camicia di chambray fosse spacciata.
Quel che imparai è che non è mai troppo tardi per salvare qualcuno. Ed è sempre troppo tardi. E quante probabilità si hanno di poter fare qualche differenza? E così, invece di rivelare a mia nonna che la sua nipotina era una bugiarda, e che suo marito era un maniaco sessuale invertito, e che la sua figlia diva del cinema non nutriva tanta simpatia per lei, invece le dissi che faceva la migliore cheesecake al burro di arachidi di tutto il pianeta. E le porsi il piatto vuoto implorando l’ennesima porzione.