21 DICEMBRE, 10.15, ORA STANDARD DELLA COSTA DEL PACIFICO
Vi presento il Diavolo
Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno
Gentili Tweeter,
vi prego di fare attenzione, voialtri pre-morti: in quanto ex cinici ex caustici ex nichilisti, avete scartato da anni ogni forma di fede religiosa. Guai a voi, perché ciò vi espone all’influenza di falsi profeti. Questa anoressia spirituale vi ha lasciato affamati, pronti a ingozzarvi di qualsiasi teologia rimasticata vi venga proposta. Considerate la mia scorta, il “cacciatore di teste psichico” inviato dai miei genitori a recuperare il mio fantasma e a trascinarmi a casa. Attraversando la zona arrivi del LAX, l’aeroporto di Los Angeles, il signor Crescent City crede di tenermi in pugno, ma in realtà non stringe altro che aria.
«Cara angioletta morta» mi dice, camminando ad ampie falcate, «per prima cosa dobbiamo trovare il nostro autista. Poi dovremo prendere l’elicottero fino alla barca della tua mamma.»
Passiamo accanto a una giovane madre che, china sul suo frugoletto, mormora teneramente: «Di’ “vaffanculo”, tesorino. Di’ “vaffanculo”, così non ti separerai mai dalla tua mamma, né in questa vita né nella prossima…».
Inutile dire che io seguo a una certa distanza, ben lungi dalla sgradevole presa del mio accompagnatore. Anche il più piccolo contatto con il signor Crescent City comporterebbe una mescolanza della sua forma terrena e della mia spirituale, un’unione più intima della più appassionata interazione matrimoniale terrena. Il suo tocco, poi, è… immaginate di inalare un’enorme esalazione di depressione condensata. O di tracannare un bicchierone di amaro rimpianto.
«Cazzo, quando arrivo in paradiso» dice Crescent, «insegnerò ai bambini che le droghe sono una deviazione che dura per tutto il resto della loro cazzo di vita.»
Mentre Crescent mi guida tra la folla, il LAX mi appare in una luce tragica come non mai. Tra queste orde vagolanti vedo esseri umani così provati dalla fame da essere ridotti a mangiare cheeseburger con tripla pancetta grondanti una salsa identica al disgustoso fluido sgorgato un tempo dalle pagine del libro del Beagle. Vedo intere famiglie costrette dalle diseguaglianze economiche a vestirsi con il prêt-à-porter Tommy Hilfiger. Dovunque si volgesse lo sguardo, erano scene di stenti e privazioni. Un conto è sapere che nel mondo moderno ancora esiste una povertà così terrificante, tutt’altro conto è lo strazio di vedere direttamente persone costrette a portarsi da sé i propri bagagli.
Un’antica vegliarda, quasi dell’età di mia madre, trentadue anni suonati, ci passa accanto con una mise di Liz Claiborne della stagione scorsa, e questa visione patetica fa salire le lacrime ai miei occhi di fantasma. Bisogna vedere di persona i danni causati dalla tinta fatta in casa e dai carboidrati per sentir nascere in sé la passione civile di progressiste come Jane Addams.
Queste perdute torme di viaggiatori – che a differenza dei miei genitori non vengono pagati per indossare i loro vestiti – devono essere folli. O folli o sotto l’effetto di droghe. Perché… Perché hanno tutti stampato in faccia lo stesso esagerato ghigno ammiccante da pagliacci. Sono poveri, brufolosi e hanno in mano biglietti di autobus per Sioux Falls, eppure… sorridono. Camminano come se stessero passeggiando per il Jardin du Luxembourg con lo scroscio della fontana dei Medici in sottofondo. Ma qui non siamo al 6ème arrondissement. Non c’è che un sottile rivestimento di plastica steso sopra il cemento dell’aeroporto. Inopinatamente, questi sconosciuti si radunano a gruppi. Si tengono per mano mentre attendono i voli, formando cerchi di preghiera improvvisati nelle zone “sterili” in prossimità dei gate. Una volta istituito il legame, chiudono gli occhi. In coro, cupi, intonano: «Vaffanculo…». Con gli occhi chiusi, assumono espressioni da trance mistica. La testa rovesciata all’indietro, cantano inni di “vaffanculo… frocio… negro… troia… ebreaccio…”, con parole scandite e precise come in un conto alla rovescia della NASA.
Gentili Tweeter, che mondo pacifico è quello in cui tutti offendono e nessuno se la prende. Nel mio campo visivo tutti gettano rifiuti e sputano a terra, e nessuno sembra turbato da questi atti di inciviltà.
Peggio ancora, e ho i brividi a dirlo, c’è gente grassa che si tiene per mano con gente magra. Lingue messicane condividono lo stesso gelato con lingue bianche. Omosessuali che sono gentili con altri omosessuali. Neri ed ebrei gomito a gomito, felici. Il mio eroe, Charles Darwin, si vergognerebbe di me. Il mio intervento ha completamente distrutto l’ordine naturale degli esseri viventi.
«Tutti, a ’sto cazzo di mondo, ti adoriamo, cara angioletta morta, per averci mostrato quale cazzo è la retta via.» Il signor Crescent City mi rivolge queste parole mentre veleggiamo giù per una scala mobile. Non abbiamo bagagli da recuperare. Sotto di noi, il nostro autista ci attende in mezzo a uno stormo di altri autisti in livrea. Uno schiocca le dita, per attirare la nostra attenzione. Ha in mano un cartello su cui sta scritto a mano “Mr City”. Nemmeno al chiuso l’autista si toglie gli occhiali a specchio e il berretto con visiera. Nessuna targhetta a identificarlo. Calza degli antiquati stivali da cavallerizzo e pantaloni jodhpurs di lana grigia. Malgrado la calura losangelina, indossa un cappotto a doppiopetto, come un autista stile Agatha Christie inviato dalla Western Costume Company nel 1935.
«Siamo noi» dice Crescent allo chauffeur, indicando prima il nulla e poi se stesso. «Andiamo all’elicottero.»
Lo chauffeur rivolge i suoi occhiali da sole direttamente verso di me, e mi vede. «Oh, niente di meno che l’angelo» dice con un alito all’uovo sodo. Poggia un ginocchio a terra. «La nostra gloriosa redentrice.» Con una mano inguantata si toglie il berretto dalla testa e se lo porta sul cuore. Un tono beffardo nella sua voce. Nelle sue parole, un familiare puzzo di metano.
Per quanto mi riguarda, non ho bisogno di vedere la targhetta con il nome. Quando è inginocchiato davanti a me intravedo i due piccoli bernoccoli delle corna nascosti tra i folti capelli biondi. La folla degli autisti avanza improvvisamente ad accogliere i rispettivi passeggeri, e un allegro Falstaff in livrea di serge blu inciampa sull’uomo inginocchiato. Entrambi gli autisti ruzzolano a terra. Gli occhiali a specchio cadono, e io ho una fugace visione di gialle iridi caprine. Il borbottante Falstaff si rialza in piedi, mentre il nostro maleodorante e supplicante autista si rigira sulla pancia per recuperare il berretto che sta rotolando via. Ormai in piedi, Falstaff tende una mano all’autista ancora a terra, dicendo: «Scusami, amico». Scoppia a ridere: «Mi concederai mai il tuo cazzo di perdono?».
Un altro autista si china a raccogliere gli occhiali da sole, ma le lenti sono ormai a pezzi, calpestate da un viaggiatore frettoloso. Un altro autista mette in salvo il berretto rotolante e lo restituisce all’uomo carponi, che se lo calca bene sulla testa e si abbassa la visiera per nascondere i suoi strani occhi. Tende la mano verso la mano soccorrevole del Falstaff. Si toccano, come una scena sulla volta della Cappella Sistina o sul pavimento di un gabinetto pubblico nel Nord dello Stato, e l’uomo a terra dice: «Io non perdono nessuno». La voce, un sibilo. Il suo corpo in livrea striscia sul pavimento del LAX come un serpente.
Con la mano libera, il rude eversore sta già spolverando la sua vittima accidentale. La manona percuote la spalla del cappotto di lana, gli spazzola le maniche. «Niente di male» dice, ma quando l’uomo caduto si rialza, il più grosso cade in ginocchio. Le loro mani si separano. «Che cazzo…» dice il Falstaff. Lungo l’attaccatura dei capelli gli compaiono gocce di sudore che colano come se la sua fronte fosse un bicchiere di plastica biodegradabile contenente latte di soia ghiacciato. Il suo goffo sorriso si trasforma in un digrignar di denti, e alle guance gli affluisce così tanto sangue che sembra agonizzare bruciato dal sole. Graffiandosi il petto, si accascia al suolo in posizione fetale, e le sue gambe si agitano di sghembo nel nulla, correndo velocissime verso nessun luogo. La sua bocca da Falstaff si contorce fin quasi a rivoltare la faccia paonazza come un calzino, mentre le mani scavano la giacca come scavano i cani, quasi non vedesse l’ora di strapparsi via il cuore e di mostrarcelo. I bottoni d’ottone della sua livrea saltano via con uno schiocco. Le sue unghie trapassano la pelle, scavando in cerca di sangue, finché il corpo non ha un brivido e si irrigidisce.
Ebbene sì, gentili Tweeter, potrò anche far confusione, a volte, tra escrementi di cane e genitali maschili, ma so riconoscere, ormai, quando qualcuno è vittima di un attacco cardiaco sul pavimento sotto i miei occhi. Ormai è una scena a cui sono abituata.
Da sotto le palpebre frementi, l’agonizzante Falstaff guarda indietro i curiosi che attorniano il suo ultimo soffrire e lo guardano reverenti e invidiosi. È circondato dalle cerniere cromate e dentate di tutti i loro trolley. Questa folla da bon voyage prova un’invidia che non tenta minimamente di dissimulare. Nessuno chiama il 911. Nessuno si fa avanti per tentare un eroico salvataggio. Il morente sussurra: «Cazzo!».
Alcune voci tra i passanti assembrati gridano: «Alleluja!».
Il morente sussurra: «Merda!».
Tutti i presenti, incluso il signor Crescent City, sussurrano: «Amen».
Come una campana, una vocina dice: «Addio». È un bambinetto con una stria di lentiggini rosa sul naso. Con il braccio disteso davanti a sé agita il polso, sbandierando la piccola mano pendula, mentre dice: «Ci rivediamo in paradiso!».
Seguendo il suo esempio, altre mani salutano ondeggianti. Onde lente. Onde da concorso di bellezza. La befana con la mise datata di Liz Claiborne manda un bacio. Un coro di sfinteri rimbomba triste, un coro di dolenti “Ave, Maddy!”. I presenti ruttano in segno di solenne rispetto.
L’uomo boccheggiante resta immobile. Il sangue smette di fluire dal buco che lui stesso si è scavato nel petto. Ecco la mia occasione per rimettere le cose a posto, per riportare la Terra al suo infelice ordine naturale. Solo quando infine arrivano i paramedici mi decido a fare la mia mossa.