21 DICEMBRE, 9.05, ORA STANDARD DELLA COSTA DELL’ATLANTICO

Orsù, viaggiatori!

Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno

Gentili Tweeter,

fu così che in quell’estate del mio esilio nel tedioso Nord, in quell’ormai svanito ieri illuminato dal sole, mi ritrovai sul ciglio di asfalto sbrecciato della statale Vattelapesca, al margine più esterno delle sei corsie dirette a Nord stracolme di autoarticolati. Esplosioni di clacson, ingranaggi stridenti nel cambio marcia. L’aria del mattino atrocemente inquinata di olio motore, catrame, grassi lubrificanti e fumo di succo di dinosauro bruciato.

Nessun esploratore aveva mai osato guadare un corso d’acqua più pericoloso di questo.

La mia rotta procedeva perpendicolare rispetto al flusso dei veicoli, al loro slancio, al sibilo e al ruggito di pneumatici radiali, al tuono balbettante dei freni motore. Attraverso questa letale parata di metallo sfrecciante intravedevo la sponda opposta, la mia destinazione: l’isola dove i veicoli parcheggiavano per scaricare i propri occupanti, che si affrettavano a raggiungere i gabinetti di blocchi di calcestruzzo forato per depositarvi i propri contenuti escrementizi.

Se avessi fatto un solo passo sarei stata costretta ad attraversare l’intera sede stradale. Un unico passo e sarei stata obbligata a compiere gli altri cinquanta necessari a condurmi sana e salva sulla lontana isola dei gabinetti. Lì, alcuni cani pascolavano, depositando con aria disinvolta piccoli mucchietti di feci, con la stessa cura che le tartarughe a rischio d’estinzione usano nel depositare le proprie uova.

Che strana devo essere apparsa ai guidatori, ragazzina undicenne con pantaloni di denim e camicia da lavoro azzurra di chambray, i cui lembi mi arrivavano alle ginocchia, le maniche troppo lunghe arrotolate fino ai gomiti cicciottelli.

Le braccia erano incrociate sul petto, a stringere il libro del Beagle e un fragile e ingombrante vaso da cinque litri pieno di tè del davanzale della nonna. Il torbido infuso sciabordava e ondeggiava, pesante all’interno del vetro delicato. Prima di requisire il vaso, avevo rovesciato nella bevanda dorata una quantità indicibile di zollette di zucchero, e quanto più il liquido colava fuori dal coperchio poco ermetico, tanto più le mie mani e le mie braccia diventavano appiccicose. La pelle delle mie dita incollate tra loro come quelle di un palmipede, come se mi stessi evolvendo in vista di un qualche destino acquatico. Ero così saldata al pesante vaso di vetro che, se anche avessi mollato la presa, sospettavo che il recipiente di vetro sarebbe rimasto bloccato contro il davanti della mia camicia azzurra di chambray.

Non appena mi fossi immessa nel flusso del traffico, la più piccola pausa mi avrebbe collocato in pieno sulla traiettoria di qualche impatto polverizzante, scaraventata nella fosca e torpida aria estiva, le ossa rotte dalla prima all’ultima. O travolta e spremuta del mio sangue di ragazzina, rintracciabile per chilometri lungo la strada sull’impronta zigzagante e saettante del battistrada di giganteschi pneumatici di gomma nera. La minima esitazione avrebbe comportato la mia morte, e a quei tempi nutrivo ancora molti pregiudizi sull’essere morti. Come tanta gente viva e vegeta, io ambivo a non smettere di respirare.

Con un’inalazione profonda, che avrebbe anche potuto essere la mia ultima, mi proiettai nel caos.

Le mie Bass Weejun schiaffeggiarono l’asfalto, mentre camion della spazzatura imperversavano da ogni lato. Il lamento delle sirene, lo strombazzare dei clacson. Enormi autocisterne piene fino all’orlo di liquidi infiammabili… camion ruggenti carichi di legname… quei mastodonti mi schizzavano accanto, scuotendo il mio minuscolo io con una forza tale da sballottarmi come un tappo di sughero nel mare in burrasca. Trascinandosi dietro grandi ondate di microliti pungenti, abnormi pullman della Greyhound mi tempestavano di ghiaiolina acuminata. Nella scia di camion dal cassone piatto, sferzanti venti di scirocco mi tiravano la pelle e i capelli.

Chi ha una felice vita domestica non si imbarca per andarsene in Alaska o alle Galápagos. Non si congeda dagli amati familiari per isolarsi in laboratori e studioli. Nessuna persona psicologicamente equilibrata si esporrebbe ai raggi X, tipo Marie Curie, fino a restarne avvelenata. La civilizzazione è un processo che i disadattati asociali impongono al resto dell’umanità comune, tollerante e ancorata ai valori della famiglia. Solo i miserabili, i falliti, gli emarginati possono starsene chini per giorni e giorni a osservare le abitudini riproduttive delle salamandre. O a studiare un bollitore del tè.

L’avanguardia, in ogni campo, è opera dei solitari, dei senza-amici, degli esclusi. Il progresso è sempre il prodotto di gente impopolare.

Una persona innamorata – con genitori affettuosi, attenti e che non siano divi del cinema – non potrebbe mai scoprire la gravità. Solo la profonda tristezza porta al vero successo.

Le precedenti osservazioni mi davano coraggio mentre giganteschi autoarticolati a doppio rimorchio mi sfrecciavano accanto, a meno di un palmo di distanza. Se mia madre avesse avuto una vita felice come Rebecca di Sunnybrooke Farm, non sarebbe mai diventata una figura così celebre tra i patiti di cinema. Se il sogno della mia vita fosse stato quello di bollire innocenti albicocche in un grezzo liquame gelatinoso, aiutando mia nonna, non mi sarei trovata ad attraversare di gran carriera le ostili corsie della statale Vattelapesca.

Le mie zampe cicciottelle sgambettavano, avanzavano e si ritiravano nel trambusto, con schivate per non farmi travolgere e per evitare che brandelli della mia abbondante polpa infantile si spiaccicassero su tutto un assortimento di paraurti cromati e di griglie di radiatore lanciati verso la Pennsylvania o il Connecticut, con la mia tenuta denimchambray ridotta a stracci zuppi stirati sull’asfalto rovente. Un piccolo inciampo e sarebbe stata la fine. Un passo falso in avanti costringeva a due passi indietro. Il mio fardello di tè sciaguattava, facendomi perdere l’equilibrio. Barcollai di lato sulla traiettoria di un lunghissimo mostro in arrivo, che sparò il suo potente clacson. Le ruote ormai incombenti stridettero e slittarono. Un rimorchio carico di bestiame condannato al macello mi scivolò accanto, così vicino che riuscii a sentire il loro muscoso odore di buoi, troppo vicino. Quelle migliaia di occhi castani da vacche calarono su di me uno sguardo afflitto.

Senza tregua, altri camion sopraggiunsero velocissimi, come una mandria, inducendo le mie gambe tozze a corricchiare di qui e di là, la mente accecata da un disperato istinto di conservazione. Mi lanciai. Chiusi gli occhi, corsi, guizzante, alternando colpi di reni a frenate improvvise. Ruotai, slittai e mi tuffai senza sapere bene dove stavo andando, sensibile soltanto all’ululare dei clacson e alle sterzate dell’ultimo istante. Fanali mi inseguivano, lampeggiando con i loro abbaglianti indignati all’indirizzo della mia pancetta sobbalzante.

Grondavo sudore, ero tallonata. Le mie adipose braccia da mostro mulinarono quando infine fui intercettata. La mia avanzata si interruppe, le mie maniglie dell’amore sobbalzarono, mentre la mia direzione veniva modificata. Un furioso assalto di autisti inferociti riuscì ad accelerare il mio battito cardiaco più di tutti i successivi due anni di costoso personal training.

Alla fine inciampai. La punta di una scarpa urtò un ostacolo e io caddi rotolando, rassegnata a farmi maciullare dal primo automezzo di passaggio. Le braccia e il tronco, volando in avanti, si accartocciarono a proteggere il fragile vaso di vetro e il libro del Beagle. Invece di atterrare sul duro asfalto, però, andai a finire su qualcosa di morbido. Aprendo gli occhi, scoprii che l’ostacolo che aveva fermato il mio piede era un cordolo di cemento. Il luogo morbido su cui ero caduta era un praticello rasato. Ero arrivata all’isola spartitraffico. E in mezzo a quell’erba appiattita color giallo cadavere, il comodo cuscino su cui appoggiavo la testa era una tiepida e molle montagnetta di cacca canina.

Sventura
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