21 DICEMBRE, 10.58, ORA STANDARD DELLA COSTA DEL PACIFICO

Tragico dénouement di una gattina

Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno

Gentili Tweeter,

sì, mio padre mi diede uno schiaffo.

E io sarò anche stata una presuntuosa preadolescente romantica con l’ambizione di diventare una Helen Burns con le sue annose sofferenze, ma so che prendere un ceffone sulla mia bocca impertinente, troppo sventata per non mettermi nei guai, fu molto meno divertente di quel che mi ero sempre immaginata.

Nel bagno ben arredato del Beverly Wilshire, mentre le acque gelide di quel water intasato dalla gattina dilagavano ai nostri piedi, si abbatté il colpo di mio padre, senza neanche riuscire a farmi girare la faccia, ma il rumore secco dello schiaffo riverberò enormemente in quello spazio piastrellato. Mi faceva più male la mano carnosa con cui avevo percosso il suo viso che la guancia colpita dal suo controceffone. I vasti specchi lì intorno ci inquadravano entrambi: l’impronta della mia manina ad arrossargli il volto, e la mia rabbia a oscurare il mio. Mia madre era lì in piedi attorniata da cameriere e assistenti personali e parassiti assortiti, le dita affusolate volate a nascondere agli occhi quella scena brutale. Ciuffi di peluria arancione cavalcavano la marea montante, e noi – noi tutti – eravamo a mollo. Solo l’improbabile straniero adottato restava escluso da quella tragedia familiare. Quella canaglia dall’aria scontrosa era un messaggero di sventura giunto da qualche società feudale dilaniata dalle faide e inebriata dal sangue. Ecco, quell’espressione truce da bambino già uomo, sicuramente allattato da lupi feroci, questo era Goran. Questo fu il drammatico momento del nostro primo incontro.

Nei giorni e nelle settimane seguenti, a Nairobi e a Nagasaki e a Napoli, mio padre avrebbe trasferito in modo per nulla discreto sull’imbronciato profugo orfano tutto l’affetto che un tempo provava per me. Così come io avevo incanalato tutta la mia infelicità attraverso la gattina, mio padre arrivò a fare affermazioni tipo: «Goran, ti dispiacerebbe dire a tua sorella che non riceverà regali per Natale… a parte, forse, una prolunga per la cintura di sicurezza?». Anche se noi il Natale non l’avevamo mai festeggiato. E mio padre evitava di nominarmi: ero la sorella di Goran, o la figlia di mia madre, ma per lui ero diventata invisibile. Da parte mia, dato che lui non mi vedeva, non potevo parlargli. E così smettemmo di esistere l’uno per l’altra.

A Reykjavík, a Rio e a Roma, ero già diventata un fantasma per lui.

Dopo di che ci fu l’infelice episodio dello sgozzamento del pony da parte di Goran all’EPCOT Center. E poi Goran rubò i trofei di People’s Choice vinti da mia madre e li mise in vendita su Internet. A quel punto mio padre si era già ammorbidito, ma era troppo tardi, perché poco dopo, molto poco, sarei morta veramente.

Sventura
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