21 DICEMBRE, 8.12, ORA STANDARD DELLA COSTA DELL’ATLANTICO
Una tresca svelata!
Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno
Gentili Tweeter,
da un punto imprecisato dell’hotel giunge il rumore di una porta, di un chiavistello che scorre con pesante clangore. Nessuno ha bussato per annunciarsi. Nessun cortese avviso di “Pulizie!” o di “Servizio in camera!”. È la porta che dal corridoio dell’hotel si apre sul salone. La serratura scatta. I cardini emettono un lieve sospiro, e un attutito rumore di passi risuona sul pavimento marmoreo del foyer della suite.
Triste a dirsi, i morti sono ancora in grado di provare attacchi lancinanti di imbarazzo. Come voi predecomposti, anche i post-vivi possono sentirsi mortificati nel profondo dalle proprie sordide confessioni.
Prendete ad esempio la seguente ammissione: ho passato le ore più tenere della mia infanzia con l’orecchio premuto contro la porta della camera da letto dei miei genitori. Nelle non rare occasioni in cui il sonno tardava a cogliermi, ad Atene, ad Abu Dhabi oppure ad Akron, mi piaceva tanto origliare gli ansiti carnali dei miei genitori. I gemiti del loro coito avevano su di me l’effetto della più dolce ninna nanna. All’orecchio della mia infanzia, quei gemiti e grugniti erano garanzia di continuità dell’armonia familiare. Gli orgasmi bestiali dei miei genitori mi rassicuravano: la nostra famiglia non si sarebbe dissolta, a differenza di quella di tutti i miei ricchi compagni di giochi. Anche se di compagni di giochi non ne avevo.
Colpi, tonfi. La cultura dello spiritismo è piena di fantasmi che bussano con forza. Per le anime relegate nel mondo fisico è solo una questione di educazione. In parole povere, a nessuno va di entrare in una stanza e trovare un pre-morto intento a cagare o a recitare con foga il ruolo del Bruto Infoiato.
Ecco perché i fantasmi bussano sempre prima di entrare in una stanza. Anch’io. Soprattutto io. Nell’attico dell’hotel Rhinelander, seguo il suono della risata di mio padre, l’inconfondibile scalpiccio da stallone purosangue delle sue scarpe, accompagnato dal ticchettio da bomba a orologeria dei tacchi Manolo Blahnik, la mia ricerca mi conduce davanti alla porta della camera da letto newyorchese dei miei genitori. Un attimo prima che io trapassi il legno smaltato, una voce dall’interno dice: «Sbrigati, amore: siamo terribilmente in ritardo sulla tabella di marcia. Avremmo dovuto scopare già diverse ore fa…».
La voce di mio padre blocca il mio ingresso. Che dire del celeberrimo Antonio Spencer? La testa ha la forma di un macigno decisamente belloccio. Una pietra miliare. Di solito parla con un tono affettato stile National Public Radio, ma oggi ha una voce nuda, irsuta.
Invece di trasportarmi al di là della porta con il rischio di ritrovarmi davanti a una scena primordiale, cammino avanti e indietro per il foyer, prostrata dal senso di colpa.
Lì nel foyer la mia attenzione viene attratta da una presa elettrica. Riparleremo presto e più dettagliatamente di questa pratica, ma per il momento vi prego di credermi sulla parola: travaso il mio ectoplasma fantasmatico nei tre forellini di una presa e mi insinuo lungo i fili di rame sepolti nelle pareti dell’hotel. Immaginatevi Charles Darwin mentre risale nella foschia il sistema fluviale amazzonico. Arrivata a una scatola di derivazione, scelgo uno dei fili e lo seguo fino alla prima presa della corrente, dove mi imbatto nei poli di una prolunga. Mi faccio strada seguendo il rame e salto il fosso di un interruttore aperto. Continuo a risalire il tunnel e mi ritrovo in un vicolo cieco, all’interno di una lampadina. Non una spaziosa lampadina a incandescenza alla Thomas Edison, si badi: questa è una lampadina fluorescente compatta, tutta ritorta e installata su un abat-jour da comodino. Tutt’intorno, un paralume di pergamena scherma la vista della stanza d’hotel. Sono attorcigliata dentro una lampadina spenta, del tipo efficiente ed ecologico che ci si aspetterebbe di trovare in casa dei miei. E il sapore del mercurio è Ctrl+Alt+Schifoso. Circondata dal paralume, posso solo vedere, in basso, la superficie di legno venato di un comodino. Lì, come elementi di una scabrosa natura morta moderna, la mia visuale comprende un palmare, la chiave di una stanza attaccata a un portachiavi d’ottone, una sveglia e la confezione strappata di un preservativo assente.
Ah, il consolante ciangottio dei miei genitori che si leccano e si manipolano frenetici le attempate zone erogene.
Fateci caso, voi morti futuri, ogni volta che spegnete una lampadina fluorescente o un tubo catodico e vedete quel luccichio residuo verde fotone, quel luccichio è un ectoplasma umano intrappolato. I fantasmi non smettono mai di cadere nel tranello delle lampadine.
Anche adesso, avvoltolata all’interno della lampadina buia, concedo al mio io fantasma di origliare furtivo. Schermata come sono, non li vedo, ma capto le rauche raccomandazioni di mio padre. «Ah» dice, «va’ più piano.» Sempre mio padre: «Mi piace quel che fai, bellezza, ma aspetta…». E ancora: «Mi stai facendo perdere il controllo…».
A quel punto una mano si insinua sotto il bordo inferiore del paralume, simile a un ragno ossuto. Rivestito di un muscolo liscio, il braccio è come un serpente, la pelle levigata come squame di lucertola. Le unghie sono smaltate di un bianco smangiato; linee rosa corrono dalla base del palmo lungo la parte interna dell’avambraccio, come solchi tracciati dall’aratro in un campo incolto su nel Nord dello Stato. Queste linee rosa parallele corrono fin quasi al gomito. Irregolari, evocano i pochi centimetri di zolle dissodate da un vecchio e sudicio contadino solitario prima di schiantare al suolo per un infarto.
Queste ferite, così rozzamente inferte e cicatrizzate da poco, marchiano chi le sfoggia come un aspirante suicida. Gentili Tweeter, io riconosco quelle cicatrici. Conosco questo braccio.
Conosco lo spettacolo desolante della vita agra che si conduce su nel Nord dello Stato.
Si vede una sottile mezzaluna marrone sotto tutte le unghie. È cioccolato, quel marrone. All’occhio di un consumatore esperto è chiaramente cioccolato al latte colato da una barretta di Baby Ruth. Il loro tocco è viscido di sudore e appiccicoso di caramello. Le dita brancolano contro le pareti di vetro della lampadina, sfiorandomi la faccia e sporcandomi i capelli. Accarezzando e molestando il mio io fantasma chiuso qui dentro. Queste dita hanno l’odore delle mutande di mio padre lasciate a fermentare sul fondo di un cesto di biancheria sporca in una surriscaldata lavanderia di Tunisi. L’odore che mia madre aveva addosso certe mattine quando ridacchiava e se ne stava con l’accappatoio addosso fino a mezzogiorno. In quelle mattine mia madre versava serenamente il succo di grano nei bicchieri, con le guance screpolate e rubizze per lo strofinio della barba di mio padre.
Non avendo al dito l’anello di fidanzamento giallo canarino di mia madre, questa mano annaspante non appartiene a mia madre.
Attaccato alle dita sottili c’è il braccio serpente, poi una spalla magrissima, un collo affusolato. Una faccia si sporge dal letto, e due occhi sbirciano da sotto il bordo del paralume e guardano dritti verso di me, mentre le dita localizzano e premono l’interruttore. La faccia, non più vecchia di quella di una bella e giovane liceale nell’improvviso sfolgorio a 60 watt, non è quella di mia madre.
Il rossetto è sbavato intorno alle labbra della sconosciuta. Le guance sono livide per via dei basettoni che avrebbero dovuto raschiare la faccia di mia madre. Lei guarda da sotto il paralume come se stesse sbirciando sotto una gonna. La sporcacciona ignota sorride nel cono di luce del mio nascondiglio e sussurra: «Che ora è?».