21 DICEMBRE, 6.05, ORA STANDARD DELL’EUROPA CENTRALE
Come sono stata ulteriormente esclusa dal novero di chi già era stato escluso dalla grazia di Dio
Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno
Gentili Tweeter,
non sarei qui incastrata su questa pietrosa Galápagos che è la Terra, a bere la tiepida urina di tartaruga dell’umana compagnia, se non fosse per lo scherzo di Halloween giocatomi da un certo trio di Miss Troiette O’Troians. Ero stata strangolata a morte e dissanguata da otto mesi al massimo. Ero stata dannata, sì, per aver commesso un orribile omicidio che verrà descritto tra poco. Uno dei principali tormenti, all’inferno, sta nel sapere, in fondo, di esserselo meritato. Ne ero evasa sfruttando la consuetudine per cui a ogni vigilia di Halloween l’intera popolazione dell’Ade ritorna sulla Terra a far scorte di noccioline salate e uva passa dal crepuscolo a mezzanotte. Io ero perciò proficuamente occupata a rastrellare quartieri suburbani a caccia di Twix e di Almond Joy per arricchire i forzieri infernali, quando una lieve brezza dalle remote distanze della notte mi portò all’orecchio il mio nome. Un coro di giovani voci femminili, voci gorgheggianti e flautate di preadolescenti che invocavano il mio nome: «… Madison Spencer… Maddy Spencer, vieni a noi. Ti ordiniamo di venir qui a soddisfare le nostre richieste».
Voi pre-morti, che vi piaccia o meno, dovete capire che noi post-vivi non siamo le vostre puttane. I morti hanno di meglio da fare che rispondere alle vostre stupidissime domande da tavola Ouija sui numeri del lotto o su chi vi sposerà. Voi e le vostre sedute spiritiche per gioco, le furberie con cui inclinate tavolini e adescate fantasmi. Mi restavano, sì e no, quattro ore di buio per raccattare barrette di KitKat, ed ecco che venivo richiamata da un gruppo ridacchiante di Miss Fighette von Figheimer. Erano sul mio vecchio letto, nella stanza del mio ex collegio a Locarno, in Svizzera, e recitavano all’unisono: «Manifestati a noi, Madison Spencer. Vediamo se il tuo culone sembra un po’ più magro ora che è morto». E ridevano con le mani magre davanti alla faccia.
Azzittendosi a vicenda, le Zoccole von Zoccolberg invocavano: «Spiegaci la tua dieta segreta da fantasmi». Questa presa in giro da parco giochi le fece sghignazzare, ribaltandole di lato, spalla contro spalla. Erano sedute a gambe incrociate e stavano sporcando con le scarpe il mio copriletto, dando anche ogni tanto una pedata alla testiera del letto, mangiando popcorn intorno ad alcune candele che ardevano su un piatto. «Abbiamo i Cipster» dicevano beffarde, scuotendone un sacchetto. Gusto barbecue. «Abbiamo la salsina di cipolle.» Una voce disse: «Qui, Madison… Vieni qui, porcellina porcellina porcellina…». Poi tutte le voci si unirono a cantare: «Suuuuuiiiii…!». A voce altissima ripetevano il richiamo per suini nella fredda notte di Halloween. «Vieni qui, porcellina ina ina ina ina…»
Grugnivano. Sbuffavano. Chiamavano. «Oink, oink, oink.» Masticavano rumorosamente, con la bocca strapiena di snack ad alto contenuto calorico, e ridevano stridule.
No, gentili Tweeter, non le ho massacrate in preda alla rabbia. Mentre scrivo, sono ancora vivissime, anche se assai più umili. Basti dire che arrivai con una Lincoln Town Car nera e risposi ai loro yodel da montanare. In occasione di quell’Halloween incoraggiai il famigerato trio nemico di Pervertite Pervertheimer a evacuare il misero contenuto delle loro budella anoressiche, e me ne vergogno. A mia discolpa, posso dire che ero un filo in ansia, distratta dall’incombere del mio coprifuoco.
Indugiare anche solo di un ticchettio oltre la mezzanotte avrebbe comportato l’esilio sulla tediosa Terra, perciò ero ipervigile mentre la lancetta lunga avanzava minuto dopo minuto verso il dodici. Quando le tre signorine Schifose de Schifosis furono tutte ben rivestite del loro stesso fragrante rigurgito e della loro cacca gommosa, io corsi alla Town Car che mi attendeva.
Il mio fidato veicolo di fuga era lì dove l’avevo lasciato: parcheggiato lungo il marciapiede coperto di brina accanto ai prati innevati della palazzina residenziale dell’istituto. Le chiavi pendevano dal quadro. L’orologio del cruscotto segnava le undici e quarantacinque, un margine di tempo ragionevole per il mio viaggio di ritorno all’inferno. Mi piazzai al volante e allacciai la cintura. “Ah, Terra!” pensai con una qualche indulgenza, con nostalgia, persino, mentre osservavo quel vecchio edificio per cui un tempo mi aggiravo, mangiucchiando Fig Newtons e leggendo I parassiti. Quella sera tutte le finestre sfolgoravano, alcune addirittura spalancate al clima dell’inverno svizzero, le tende svolazzanti al gelido vento che scendeva dai pendii glaciali delle tediose Alpi. Tutte le finestre aperte incorniciavano le teste di facoltose studentesse affacciate a vomitare lunghi stendardi di poltiglia alimentare lungo la facciata in mattoni rossi dell’edificio. La vista era troppo gratificante, difficile rinunciarvi, ma l’orologio del cruscotto segnava le undici e quarantacinque.
Rivolgendo a tutti un affettuoso adieu, girai la chiave nel quadro.
La girai di nuovo.
Pigiai il mio comodo mocassino Bass Weejun sul pedale dell’acceleratore, dando anche un piccolo colpetto. L’orologio del cruscotto diceva undici e cinquanta. Verificai di nuovo che la leva del cambio fosse saldamente fissa su “parcheggio” e girai per la terza volta la chiave.
E, santo cielo!, non accadde nulla. Nessun rumore d’auto riverberante da sotto il cofano del veicolo. Per gli eventuali ficcanaso della blogosfera che credono di sapere tutto loro – specie in fatto di automobili – no, non mi ero dimenticata di spegnere le luci e la batteria non si era scaricata. E l’auto non era a corto di succo di dinosauro. Disperata, tentai più volte di accendere, guardando l’orologio che avanzava con costanza verso le undici e cinquantacinque. Alle undici e cinquantasei il telefono dell’auto si mise a suonare, emettendo una serie di classici squilli di una volta, che io ignorai nei miei frenetici tentativi di aprire il vano portaoggetti in cerca del manuale dell’auto per risolvere la mia crisi meccanica. Il telefono stava ancora squillando quattro minuti dopo quando, sull’orlo del pianto, sollevai il ricevitore dal suo gancio e risposi, secca: «Alors!».
All’altro capo una voce disse: «… Madison stava quasi per piangere dall’esasperazione». La melliflua voce maschile proseguì: «La dolce sensazione di trionfo su quelle bullette delle sue compagne di scuola si trasformò amaramente in panico quando vide che il veicolo della sua fuga non si rimetteva in moto…».
Era Satana, il principe delle tenebre, che evidentemente stava leggendo da quel suo penoso manoscritto, Storia di Madison Spencer, il presunto racconto della mia vita che lui sostiene di aver composto ancor prima del mio concepimento. In quelle pagine, ogni momento del mio passato e del mio futuro è stato dettato da lui, a quanto dice.
«… la piccola Madison» seguitò Satana «sussultò scioccata udendo, al telefono della Town Car, la voce del suo signore e padrone…»
Lo interruppi per domandare: «Hai manomesso il motore?».
«… lei sapeva» disse la voce al telefono «che il suo Grande Destino Maligno la attendeva sulla Terra…»
Io gridai: «Non è giusto!».
«… Maddy avrebbe presto scoperto di avere un’unica possibilità: buttarsi e innescare la fine del mondo…»
Gridai: «Io non intendo innescare proprio niente!». Gridai: «Non sono la tua Jane Eyre!».
L’orologio del cruscotto segnava la mezzanotte. Una campana del campanile di eine remota Kirche alpina si mise a suonare. Ancor prima del sesto rintocco, il ricevitore che avevo in mano cominciò a dissolversi. Tutta la Town Car stava scomparendo intorno a me, ma la voce di Satana continuava a ronzare. «… Madison Spencer udì rintoccare la campana di una chiesa lontana e si rese conto di non esistere. Non era mai esistita se non come strumento al servizio del Diavolo, seduttore supremo, di una bellezza folle…»
Con il progressivo svanire del sedile, il mio didietro grassoccio di ragazza cicciottella andò lentamente a posarsi sulla strada. L’ultimo rintocco di mezzanotte riecheggiò nelle valli e tra le gole della tediosa Svizzera. Le finestre dell’edificio residenziale del collegio a poco a poco si richiusero. Le luci si spensero. Le tende furono tirate. La cintura di sicurezza che fino a un attimo prima premeva contro il mio pancino generoso si fece inconsistente come un filo di foschia. Lì accanto, come abbandonata in mezzo alla strada, c’era la borsa Coach contraffatta che un’amica, Babette, aveva lasciato sul sedile posteriore dell’auto.
Con i rintocchi della mezzanotte, la Lincoln si era ridotta a un impalpabile banco di nebbia, una nuvoletta grigia a forma di Town Car. Io, derelitta, ero seduta nel canale di scolo con la malandata borsetta in finta pelle di Babette, sola nell’inclemente notte svizzera.
In luogo dello scampanio della chiesa, ora il vento portava soltanto un metallico motivetto dance sintetizzato. La canzone era Barbie Girl del gruppo europop Aqua. Una suoneria. Era un palmare che avevo trovato tra i preservativi e i dolciumi nella borsa. Sul display c’era il prefisso di Missoula, Montana. L’SMS appena giunto diceva: “URGENTE: prendere volo Darwin Airlines #2903 Lugano-Zurigo; poi il volo Swiss Airlines #6792 per Heathrow e poi l’American Airlines #139 per il JFK. Porta il culo all’hotel Rhinelander. Sbrigati!”. Il messaggio proveniva da un punk post-vivo dai capelli blu che scontava una pesante condanna all’inferno, il mio amico e mentore Archer.