21 DICEMBRE, 8.28, ORA STANDARD DELLA COSTA DELL’ATLANTICO
Un turista tra i morti
Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno
Gentili Tweeter,
mia madre, come modo per cavarsela, ha sempre avuto quello di comprare maisons nei luoghi più remoti. A Stoccolma, a Sydney, a Shanghai, un piano di riserva per ogni piano di riserva: in questo modo, di certo, avrebbe sempre avuto un rifugio. Questa era la sua strategia a prova di intoppi: una pletora di luoghi dove ritirarsi. Se in un paese cambiavano il regime fiscale, se una pubblicità negativa la esponeva alla gogna mediatica, mia madre si rintanava a Malta, a Monaco, alle Mauritius.
Per mio padre, la stessa funzione veniva assolta dalle fidanzate. Così come mia madre non si è mai pienamente impegnata ad avere un unico domicilio, mio padre non ha mai concesso privilegi particolari a una qualche signorina Ventosa Vogliosetti. Il sottile e perlopiù ignoto fascino delle case e delle amanti in avanzo sta nel non farne realmente uso. Il desiderio insoddisfatto, l’idea di una sontuosa casa vuota o di una concubina che si strugge fondano l’attrattiva dell’oggetto. Pensate ai paginoni centrali di “Playboy” o alle oziose donne dell’harem dipinte da Delacroix o alle disabitate stanze illustrate sulle pagine di “Architectural Digest”. Tutti vasi vuoti in attesa di essere riempiti.
Insomma, dopo lo shock dell’esposizione alle porcheriole extraconiugali di mio padre, mi ritiro. Colo a ritroso lungo i fili di rame dell’hotel Rhinelander. Messa di fronte alla realtà, ripercorro all’indietro la via fino al foyer dell’attico e riemergo come una bolla di fantasma dalla presa in cui mi ero infilata. La procedura comporta una certa espansione, un rigonfiamento del pallone di fantasma che io sono fino alle dimensioni approssimative di tredicenne tarchiatella. I tratti del mio viso prendono forma, poi è la volta dei miei occhiali con montatura di corno, seguiti dal cardigan e dalla gonna-pantalone di tweed dell’uniforme scolastica. Gli ultimi a prendere forma sono i miei mocassini Bass Weejun. A quel punto, anche il resto del mio io fantasma sgocciola fuori dalla presa: sono intatta, ma Ctrl+Alt+Delusa.
E a quanto pare non sono sola. C’è un uomo tra la mobilia, le sedie e i tavoli ingobbiti sotto i loro teli anti-polvere. Sta lì, esattamente sotto il lampadario avvolto in un sudario di stamigna. Il mio io fantasma, i miei occhi di fantasma guardano negli occhi questo sconosciuto. Forse è il cacciatore di spiriti contro cui mia nonna ha cercato di mettermi in guardia.
Gentili Tweeter, non scambiatemi per un’elitista con la puzza sotto il naso, ma vedere un americano negli Stati Uniti è una cosa che mi lascia sempre strabiliata. Per buona parte della mia infanzia ho girato tra Andorra, Antigua, Aruba, in tutti quei meravigliosi paradisi fiscali, seguendo la perenne migrazione degli esuli fiscali in cerca di protezione per i loro pantagruelici patrimoni in Belize, in Bahrein, alle Barbados. La mia impressione, in generale, era che gli Stati Uniti avessero trasferito offshore tutti i propri cittadini e fossero perlopiù abitati e mandati avanti da stranieri clandestini.
Certo, capita qualche volta di vedere qualcuno in tenuta da cameriera o alla guida di una Town Car, ma l’uomo che vedo nel foyer dell’attico, non è il servitore di nessuno. Per prima cosa, risplende. Irradia una limpida luce blu. Non come se contenesse una lampadina: un qualcosa di sfaccettato, piuttosto, un gioiello, che cattura la luce circostante. La testa è offuscata e indistinta, perché – mi rendo conto – vedo di lui sia la faccia sia la nuca, gli occhi e i capelli simultaneamente. È come osservare la pagina di un libro in controluce, con un sole così forte da poter leggere le parole su entrambe le facciate. È abbagliante, come se tutti gli angoli di un diamante fossero visibili nello stesso momento. Attraverso il suo corpo riesco a vedere i palazzi fuori dalla finestra, la grigia veduta su Central Park. I capelli gli ricadono in una treccia lunga e compatta come una baguette ammuffita. Ogni ciocca appare trasparente e iridescente come uno spaghetto asiatico di vetro. Il collo è come cellophane teso, la pelle è ondulata da vene e tendini. La giacca del suo completo, le gambe dei pantaloni, persino le sue scarpe da corsa consunte sono traslucide come bava.
Lì in piedi, con le braccia penzolanti lungo i fianchi, tremola come una colonna di fumo. Quando schiude le labbra le vedo vaghe come la forma ondeggiante di una medusa che nuoti in qualche disgustoso documentario sottomarino. La sua voce suona in sordina, come se si trovasse in un’altra stanza a sussurrare segreti.
Sì, CanuckAIDSEmily, prima di morire, era esattamente così che mi immaginavo i fantasmi.
Smunto e fiacco, dice: «Tu sei quella bambina morta».
Mi vede.
«E tu sei…?» domando. Mi strozzo con le mie stesse parole.
La sua figura ondeggia un po’ da una parte e dall’altra. Proprio quando sembra che stia cadendo da un lato, si raddrizza con un sussulto, come se qualcuno l’avesse svegliato di colpo. Compensa eccessivamente lo squilibrio e comincia a pendere dalla parte opposta. Non riesce a stare dritto, la sua posizione è una serie continua di cadute evitate in extremis.
Gentili Tweeter, io magari non conoscerò i tanto celebrati piaceri femminili delle mestruazioni, ma un tossicomane lo riconosco, se lo vedo. Vivendo con Camille e Antonio mi sono trovata a contatto con una grande varietà di persone dipendenti da sostanze chimiche.
Deglutisco, sbalordita. Con la gola secca domando: «Sei Dio?».
«Cara bambina morta…» sembra sussurrare. Si sta dissolvendo, e non in senso metaforico. Sta evaporando. Le mani si diluiscono come latte versato nell’acqua. Con parole più flebili di un’eco, lievi come un pensiero, dice: «Vieni a cercarmi nella stanza sessantatré quattordici. Mi troverai». Non resta che la scia della sua voce quando aggiunge: «Vieni a dirmi un segreto che solo tua madre può conoscere…».