21 DICEMBRE, 9.33, ORA STANDARD DEGLI STATI UNITI CENTRALI

Il mio conto alla rovescia prima dell’addio

Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno

Gentili Tweeter,

a tarda notte, nel mio letto su nel Nord, ridiventai naturalista. Predisponendomi al sonno, mi succhiavo i residui zuccherosi da sotto le unghie e fissavo nel buio verso il soffitto invisibile. E ascoltavo. Ascoltavo e contavo. Sapevo sempre dove si trovava mia nonna – in cucina, in salotto, nella sua camera – per via del rumore della sua tosse, regolare come il richiamo di un uccello, ma rassicurante e terribile al tempo stesso. Quel tossire. Quei colpi di tosse. Servivano, simultaneamente, come prova del fatto che era viva, ma che non lo sarebbe stata per sempre. Di notte imparai ad aggrapparmi a ogni colpo di tosse, a ogni raffica di rantoli e raspi, fino a trovarvi conforto. Nonostante il grumo duro del libro del Beagle continuasse a pugnalarmi alla schiena, riuscivo alla fine a prendere sonno con il libro della Bibbia aperto sul cuore.

Come c’è chi conta i secondi tra il lampo e il tuono, io contavo i secondi tra i colpi di tosse. Un alligatore, due alligatori, tre alligatori. Pensavo che, forse, quanto più a lungo fossi riuscita a contare, tanto meglio sarebbe stata la nonna. Speravo che alla fine riuscisse ad addormentarsi. Quando arrivavo a nove alligatori, mi dicevo che forse si era semplicemente presa una bronchite acuta. Magari una polmonite, ma qualcosa di curabile. A venti alligatori cominciavo a sonnecchiare e compariva quell’incubo del nonno Ben, morto, mezzo nudo, che mi tirava via le coperte con le mani insanguinate. Alla fine, però, i colpi di tosse ricominciavano, l’ansimare, il boccheggiare, così rapidi che non riuscivo a farci stare, tra uno e l’altro, neanche un alligatore.

A letto mi ciucciavo le dita per ripulirmele. Mia nonna e io avevamo fatto polpette di popcorn per tutto il giorno, e l’odore del mais scoppiato pervadeva la casa. Vi ho già detto che il giorno dopo si sarebbe festeggiato Halloween? Be’, eravamo alla vigilia di Halloween e avevamo cucinato polpette di popcorn da distribuire agli adepti del “dolcetto o scherzetto”. Come gli operai sfruttati di certe fabbriche all’estero, avevamo mescolato popcorn e sciroppo di mais e gocce di colorante alimentare arancione, poi con le mani imburrate avevamo appallottolato tante bitorzolute zucche in miniatura. Quindi avevamo premuto piccoli triangoli di mais caramellato per fare tanti Jack-o’-lantern dagli occhi appuntiti e i denti da vampiro. Per impacchettarli li avevamo avvolti in carta da forno.

E ho detto che avevo furtivamente imbottito tutti i nostri dolcetti di Halloween con le abbondanti e inutilizzate scorte funerarie di Xanax? “Mai buttar via…” avevo pensato.

Giunse un colpo di tosse dalla camera da letto della nonna, e io cominciai a contare: “Un alligatore… due alligatori…”, ma subito arrivò un altro colpo. Con il distacco di un Darwin cominciai a classificare i colpi di tosse in base alle caratteristiche. Alcuni raspavano. Altri gorgogliavano, umidi. Un terzo tipo consisteva soltanto in una specie di sibilo senza respiro. Poteva sembrare il primo colpo di tosse di un bambino che stia imparando a respirare, o l’ultimo respiro mancato di qualcuno che muore.

Mentre ascoltavo attentamente, distesa a letto, le punte delle mie dita sapevano di pancake imburrati immersi nello sciroppo. Dopo l’ultimo colpo di tosse, contai: “Un Mississippi… due Mississippi… tre Mississippi…”, finché un nuovo colpo di tosse non mi riportò daccapo.

I miei genitori non celebravano il Natale né il Pesach né la Pasqua, ma i festeggiamenti che organizzavano per Halloween bastavano a compensare milioni di vacanze ignorate. Per mia madre l’aspetto centrale era quello della maschera e dell’adozione di un’identità archetipica alternativa, bla bla bla. Mio padre era persino più noioso sull’argomento, perché si dilungava sull’inversione delle gerarchie di potere, e sui bambini oppressi che si presentano come fuorilegge per prendersi la rivincita sulla consueta egemonia degli adulti. Mi vestivano da Simone de Beauvoir e mi portavano in parata per il Ritz di Parigi a rivendicare la parità tra i sessi sul luogo di lavoro e a chiedere cioccolato Hershey, ma soprattutto a dimostrare il loro acume politico. Un anno mi vestirono da Martin Lutero, e tutti quelli che incontravamo domandavano se fossi travestita da Bella Abzug. Gli adulti, pfui!

Nel mio letto del Nord dello Stato smisi di sentire colpi di tosse talmente a lungo da arrivare a contare sedici alligatori, e sotto le coperte incrociai due dita appiccicose sperando nella buona sorte. Pensai, per un attimo, all’opportunità di travestirmi da Charles Darwin, quell’anno, ma non volevo ritrovarmi poi a dover dare spiegazioni, nel portico di ogni casa, a quei noiosi vicini bifolchi da anello mancante.

Arrivai a ventinove alligatori. A trentaquattro alligatori.

La porta della camera da letto si spalancò, senza far rumore, e una mano avvizzita si allungò verso di me dall’ombra del corridoio. Una figura entrò nella camera, furtiva, secca, scheletrica, la faccia un teschio ghignante sporco di succo di tabacco. Al posto di spettrali catene trascinava la fibbia d’argento di una cintura. Una mano ossuta si protese a porgermi una lunga pupù secca di cane infilata in un panino da hot dog. Il tronchetto di cacca era guarnito da uno spruzzo dorato di senape di Digione. Ogni notte vedevo quello stesso mostro, o una qualche sua versione, ed era una buona notizia perché significava che mi ero finalmente addormentata. Niente più conteggi. Avevo un incubo, ma stavo dormendo. Significava che anche la nonna si era addormentata.

Il letto che era stato di mia madre era morbido e profondo. La nonna aveva cambiato le lenzuola, quel giorno, e profumavano di fresco e di pulito dopo un pomeriggio a prendere il sole sul filo. Non c’era nulla che mi facesse male.

Il cadavere del nonno Ben fluttuava sul pavimento, con i pantaloni di gabardine arrotolati all’altezza delle caviglie. Il teschio ghignante sibilava: “Tu, assassina!”. E mentre arrancava sempre più vicino lasciava una scia di sangue sul pavimento.

Nulla che mi facesse male.

Rapido come un colpo di tosse, il pensiero mi sorprese: il libro del Beagle. Non lo sentivo più. Quel grumo doloroso. Il mostro ghignante del nonno scomparve. Ero sveglia. Sbucai in fretta da sotto le coperte ma non trovai sangue sul pavimento. La porta era chiusa. Tuffai entrambe le braccia sotto il materasso, fino alle spalle, tastai intorno e non trovai alcun libro. Mi spostai lungo il bordo del letto, tastando dappertutto tra il materasso e la rete, e ancora niente libro. Un incubo peggiore del mio peggiore incubo. Mi misi in ginocchio accanto al letto, pregai di essere ancora addormentata e che fosse tutto un sogno. Non che io credessi in Dio, a quei tempi, ma avevo visto mia madre interpretare una pia monaca in un film, una volta, e il suo personaggio passava metà del tempo inginocchiata a borbottare suppliche tra le mani giunte.

Quando vidi che quelle finte preghiere non funzionavano, uscii in punta di piedi dalla stanza, percorsi il corridoio, raggiunsi la libreria in salotto. Nella luce fioca passai tentoni da una costa di libro all’altra, ed eccolo: The Voyage of the Beagle. Serviva a far stare dritti anche gli altri libri, risistemato nel posto in cui io lo avevo trovato la prima volta, come se nulla fosse mai accaduto. Come se tutti i sanguinosi dettagli delle settimane precedenti fossero stati un sogno. Forse fu per questo che non trovai il coraggio di toglierlo dallo scaffale. Non volevo aprirlo e scoprire la realtà a forma di salsiccia insanguinata. Non volevo pensare che la nonna avesse scoperto quella verità segreta.

Restai lì nel salotto buio finché il mondo a mezzanotte non entrò in Halloween e contavo, “Settecentootto alligatori… Settecentonove Mississippi…”, la mia mano sospesa così a lungo tra me e il libro che la spalla mi faceva male. La mia mano protesa, come la mano in decomposizione del nonno si era protesa verso di me. Le mie dita erano tinte di arancione per il colorante alimentare, e nel buio l’arancione sembrava rosso scuro.

Contai così senza toccare la verità finché non intervenne qualcosa a rompere l’incantesimo. Mia nonna tossì. Il consolante e terribile rumore giunse dalla sua camera da letto, prova di vita e di morte, colpi di tosse sopra colpi di tosse, così veloci che smisi di contarli. Lasciai lì il libro e me ne tornai a letto.

Sventura
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