21 DICEMBRE, 10.40, ORA STANDARD DELLA COSTA DEL PACIFICO

Il mio vero amore sottratto alle fauci della morte

Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno

Gentili Tweeter,

i miei genitori non hanno mai adottato niente senza diramare, come minimo, dieci milioni di comunicati stampa. L’adozione di Tigrotta non fece eccezione. Una troupe di documentaristi ci seguì fino a un gattile di East Los Angeles, dove mio padre e io soppesammo i pregi dei vari randagi abbandonati. Mia madre guidò la falange delle telecamere verso un soriano avvizzito, solitario nella sua cella di rete metallica. Esaminando il cartellino su cui era indicato il curriculum vitae dell’animale, disse: «Oooh, Madison, questo ha la leucemia! Secondo la prognosi, gli restano quattro mesi di vita. Mi sembra perfetto!».

Per i miei genitori, il requisito fondamentale di qualsiasi relazione di dipendenza era la provvisorietà. Volevano case, dipendenti, imprese di cui potevano liberarsi in qualsiasi momento, come degli orfani del Terzo Mondo che adottavano. Per le pubbliche relazioni non c’è opportunità migliore di quella offerta da qualcosa da salvare e da amare intensamente per un mese per poi seppellirlo davanti alle cineprese con un sontuoso funerale.

Quando scartai il soriano morente, mio padre mi guidò verso un tartarugato piuttosto in là con gli anni. Secondo le stime del personale del gattile, gli restavano sei settimane di vita. «Diabete» disse mio padre, annuendo solenne. «Che ti serva di lezione, signorinella, per la prossima volta che ti verrà voglia di dolciumi.»

Le telecamere dei documentaristi ci seguivano da un gattino spacciato all’altro. Passavamo da gatti con la peritonite infettiva ad altri affetti da cardiomiopatia ipertrofica. Alcuni tentavano lo sforzo disperato di sollevare la testolina morente, quando io li accarezzavo un po’ tra le orecchie febbricitanti. Sembrava più un ospizio per gatti che un ricovero di randagi. A vedere quei mici che soffrivano di tumori intestinali e di piometra terminale, stavo malissimo. Certo, avevano tutti bisogno di amore e di una casa, ma io non ne volevo sapere di quegli animali. Io volevo un animale sano che ricambiasse il mio amore.

Un siamese giaceva su un pannolone di carta usa e getta, troppo debole per controllare la vescica. Un persiano piagnucolava lamentoso e mi guardava sbattendo gli occhi impastati e velati dalla cataratta. Quando mio padre vide il lungo elenco di medicine che doveva prendere tutti i giorni, un sorriso gli illuminò il volto. «Questo non può durare a lungo, Maddy!» Con una mano mi sospinse verso la sua gabbia puzzolente e disse: «Puoi chiamarlo “Cat Stevens” e fargli il funerale più grandioso mai celebrato per un gatto!».

Mia madre, sgomitando per scippargli l’attenzione della telecamera, aggiunse: «I bambini adorano mettere in scena dei piccoli funerali per i loro animali… creare un piccolo cimitero e riempire tutte le fosse! Serve a sensibilizzarli nei confronti delle forme di vita batteriche del sottosuolo!».

Posto che ci fossero forme di vita per cui mia madre nutriva rispetto, tra queste non rientrava sua madre. Quando mia nonna era morta d’infarto la sera di Halloween, per un grumo di sangue vagante causato dal suo cancro, l’indomani mia madre era arrivata da Cannes con il famigerato abito lungo color acquamarina tempestato di paillettes e di perle naturali. «Haute couture» aveva detto, entrando in quella sperduta agenzia di pompe funebri, con il vestito sigillato nella custodia per abiti ripiegata su un braccio. Il becchino del Nord dello Stato era abbagliato: seduti dall’altra parte della scrivania c’erano Antonio e Camille Spencer. Adulante, riconobbe che il vestito era stupendo, ma poi passò a spiegare, paziente, che era una 36, mentre la taglia del corpo impestato dal cancro della nonna Minnie era almeno una 42. Mio padre, senza por tempo in mezzo, sfilò un libretto degli assegni dalla tasca interna della giacca e domandò: «Quanto?».

«Non capisco» disse il becchino.

«Per farla entrare in quel vestito» aggiunse prontamente mia madre.

Quel povero ingenuo impresario delle pompe funebri, lui, domandò: «È così bello… Siete sicuri di volerlo scucire?».

Mia madre soffocò un grido. Mio padre scosse la testa, amareggiato e incredulo, e disse: «Ehi, senta un po’, quel vestito è un’opera d’arte! Provi a scucirne un solo punto e la denuncio, la riduco sul lastrico».

«Noi» spiegò mia madre, «vorremmo che lei desse qualche piccola rifilatina… un tocco di lipo qua e là… in modo che mia madre sia al meglio della forma.»

«La telecamera» disse mio padre «ti aggiunge cinque chili.» A quel punto stava già vergando un grosso assegno a sei cifre.

«Telecamere?» domandò il becchino.

«Magari può levare qualcosina dietro le orecchie e…» disse mia madre, tirandosi dimostrativamente la pelle delle tempie fino a rendere le guance lisce e tese. «E forse ingrandirle un po’ il seno, risollevarglielo: un piccolo impianto, in modo che il corpetto del vestito stia su bene.»

«E le extension ai capelli» aggiunse mio padre. «Vogliamo che abbia tantissimi capelli, la cara vecchietta.»

«Magari» suggerì mia madre «potete toglierle i reni e spostarglieli un po’ più su, qui sul davanti.» Posò le mani a coppa sui propri seni impeccabili.

Mio padre firmò l’assegno con uno svolazzo. «E abbiamo ingaggiato anche un tatuatore.» Staccò l’assegno e glielo sventolò davanti alla faccia, sorridendo compiaciuto: «A meno che lei non sia contrario all’idea di inchiostrare la nonna…».

«Ah…» disse mia madre, schioccando le dita. «Niente roba, sotto. Mi raccomando. Neanche un perizoma. Niente di niente. Non voglio che il pubblico che seguirà il suo funerale in diretta via satellite veda la mia cara, adorata madre defunta con il segno delle mutande sotto il vestito.»

Pensai che a quel punto dei preparativi per il funerale mia madre potesse scoppiare a piangere nell’agenzia di pompe funebri. Lei, invece, si voltò verso di me e mi domandò: «Maddy, tesoro, che cos’hanno i tuoi occhi? Come mai sono così rossi e gonfi?». Prese una boccetta di Xanax dalla borsa e mi offrì una pastiglia. «Andiamo a cercare delle fette di cetriolo, per eliminare quel gonfiore.»

Io, gentili Tweeter, dalla sera di Halloween non avevo smesso di piangere un solo istante. Anche se mia madre non se n’era mai accorta.

Quando mi tornano in mente i baci di mia nonna, sento l’odore delle sigarette. In confronto, i baci di mia madre sapevano di farmaci ansiolitici.

E anche al ricovero per gatti randagi tentava di appiopparmi pastiglie di Xanax, nel tentativo di farmi accettare un grosso gatto dell’isola di Man dalla foltissima pelliccia nera. Non sembrava interessata al fatto che quel felino fosse già morto da qualche minuto. Mio padre sollevò quel corpo ancora caldo dalla sua gabbia lercia e cercò di piazzarmi il cadaverino sempre più rigido tra le braccia cicciottelle. «Prendilo, Maddy» sussurrò. «In TV sembrerà semplicemente addormentato. Non possiamo stare qui tutto il giorno…»

Sollevò delicatamente il floscio e morto gatto di Man nella mia direzione, e io, indietreggiando di un passo, vidi qualcos’altro. Nella stessa gabbia, nascosto dal gatto nero appena spirato, c’era un minuscolo gattino arancione. Era la mia ultima chance. Ancora un istante, e mi avrebbero riportata al Beverly Wilshire con un rigido cadavere di felino tra le mie braccia di ragazzina. Sotto l’occhio delle telecamere, con gli addetti del ricovero come testimoni, puntai un indice grassottello verso quel nuovo batuffolo di pelo arancione e dissi: «Quello, papà!». Facendo la vocina, intonai: «È quello il mio gattino!». L’oggetto arancione del mio disperato affetto aprì gli occhietti verdi e ricambiò il mio sguardo.

Mia madre diede una rapida occhiata alla schedina affissa accanto alla gabbia. In una decina di parole si raccontava la storia brevissima del minuscolo felino. Quel pomeriggio al ricovero per gatti randagi mia madre si sporse verso mio padre e sussurrò: «Prendiamo quello arancione». Sussurrò: «Metti giù quel gatto morto e accontentala».

Con il gatto di Man morto ancora penzolante dalle mani, mio padre digrignò i denti ricoperti da capsule e disse: «Camille, è ancora un cucciolo». Con un sorriso a denti stretti, sibilò: «Quel maledetto animale camperà un cazzo di secolo». Diede una scrollata al cadavere peloso e sogghignando disse: «Con questo, magari, Maddy può chiedere al suo fidanzato di eseguire il numero di Lazzaro».

«La nostra piccola Maddy si è affezionata a quel gattino lì…» disse mia madre e, allungando una mano all’interno della gabbia, raccolse la tremolante e soffice pallottola arancione. «… e noi glielo prendiamo.» Disponendosi in modo da consentire alle telecamere di riprendere il gesto, si voltò verso di loro e, non senza posa, affidò quel tiepido malloppetto alle mie cure. Allo stesso tempo, bisbigliando di lato a mio padre, disse: «Non preoccuparti, Antonio». Gli fece cenno di chinarsi a leggere la scheda clinica relativa all’animale.

E a quel punto, un fotografo della rivista “Cat Fancy” si fece avanti, disse: «Cheese!» e un attimo dopo fummo tutti accecati dal flash.

Sventura
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