21 DICEMBRE, 9.13, ORA STANDARD DEGLI STATI UNITI CENTRALI

Fuga dalla scena dell’evento

Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno

Gentili Tweeter,

quando eruppi dalla porta dipinta di marrone di quell’infernale bagno pubblico nel tedioso Nord, lo scialbo sole si era abbassato: era tardo pomeriggio. Là dove avevo saziato la mia sete con troppo tè, il vaso di vetro vuoto era ancora abbandonato nell’erba bruciata. Di lì a poco, lo squilibrato assalitore sarebbe emerso dal gabinetto degli UOMINI alle mie spalle, forse tutt’altro che intimidito dalla nostra lotta, forse solo infuriato e con l’unico obiettivo di prendermi e di smembrarmi pezzo per pezzo per poi lasciarsi andare a un inverecondo atto sessuale con il mio torso esanime e decapitato sotto gli occhi di milioni di guidatori sfreccianti per il Nord dello Stato.

L’interminabile flusso di autocisterne con rimorchio, camion per il trasporto di legname e monovolume continuava a rombare intorno al perimetro di quell’isola spartitraffico dimenticata. Ai miei occhi nudi, dato che i miei occhiali da vista giacevano ancora sul pavimento del bagno, i veicoli si sovrapponevano e si confondevano a formare un muro compatto accompagnato dal ringhioso rumore dei battistrada sull’asfalto. Non c’era soluzione di continuità tra loro. Mi fermai a raccogliere il vaso da quattro litri usato per il tè, distratta dalla mia fine incombente.

Avevo forse ecceduto nella mia reazione alla profferta di quel dito di cacca? In fondo, lì nel Nord dello Stato, io ero una straniera. Forse infilare degli stecchi di cacca nei buchi aperti nelle pareti divisorie dei gabinetti era un’antica consuetudine locale equiparabile a un moderato corteggiamento. La nonna Minnie una volta mi aveva detto: «Un ragazzo stuzzica solo le ragazze che gli piacciono». Io avevo replicato con una citazione di Oscar Wilde: «Eppure ognuno uccide ciò che ama».

Cionondimeno, poiché il Nord dello Stato è quel che è, non era escluso che io avessi respinto un amoroso giovanotto di campagna. Se, in effetti, l’agitare tronchetti di mierda alle ragazzine era un agreste preambolo delle storie d’amore, mi ero giocata un potenziale pretendente.

Che avessi compromesso un rustico corteggiamento o fossi sfuggita a un assassino, avevo ancora il cuore in gola, e la mia fronte era bagnata del sudore freddo dello shock. La misteriosa secrezione che era schizzata fuori dal libro del Beagle costellava a grumi rappresi il davanti della mia camicia. Senza occhiali, le cose del mondo erano o troppo vicine o troppo lontane perché io potessi vederle chiaramente. Non ero in condizione di gettarmi nel caotico campo minato di quel traffico intenso, ma capivo che, se dalla costruzione di blocchi di calcestruzzo fosse sbucato un pazzo armato di pupù, avrei avuto ben poca scelta. Il mio sguardo offuscato cadde sul vaso del tè che avevo afferrato e sollevato, le cui pareti apparivano ormai tempestate – no, praticamente lastricate – di mosche nere intrappolate dal denso residuo di zucchero. Ritraendomi da quelle creature schifose, lasciai cadere il vaso e lo guardai rimbalzare sull’erba. Come già in precedenza, la scaltra naturalista che è in me concepì un piano. Con cautela, tornai a chinarmi e raccolsi il vaso vuoto, evitando con cura di entrare in contatto con quel tappeto appiccicoso brulicante di insetti. Con pochi passi raggiunsi il punto in cui il praticello riarso incontrava il parcheggio asfaltato; lì, un cordolo di cemento bianco riluceva nella calura del giorno. Di certo la nonna aveva bisogno di quel vaso per preparare il tè sul davanzale, ma mi pareva che la mia autodifesa avesse la precedenza. In futuro, se mia nonna avesse sentito la mancanza della sua brodaglia fatta in casa, avrei semplicemente telefonato a Spago e avrei chiesto loro di spedire con un corriere una porzione singola della loro deliziosa miscela. Quindi, usando entrambe le mani, sollevai sopra la mia testa l’appiccicoso recipiente carico di insetti. Con uno strillo catartico, lo scagliai contro il cordolo, dove il vetro si infranse in innumerevoli schegge. La più grossa e truculenta, la più simile a un pugnale, la trascelsi come mia arma.

A chi ritiene che la mia risoluzione sia esageratamente drammatica dirò che io avevo scritto il mio nome nelle ultime pagine del libro del Beagle. Pur essendo riuscita a fuggire da quel luogo, il libro e i miei occhiali rimanevano in mani nemiche. Quel demonio psicotico avrebbe visto il mio nome. Un caso clinico munito di pupù avrebbe scoperto il mio nome e cominciato a perseguitarmi per prendersi la sua vendetta. Per proteggere la mia mano, avvolsi l’impugnatura del mio pugnale con alcune banconote in euro. Così armata per recuperare il mio libro, avanzai senza far rumore verso i luridi gabinetti nel cubo di calcestruzzo.

L’erba intorno a me era cosparsa di tronchetti di cacca di cane in tutto e per tutto simili a quello che era stato brandito contro di me, ed ebbi la certezza che da quel momento in poi la vista di una pupù di cane mi avrebbe fatto sussultare il cuore per la paura. Avrei visto cacate di cagnolino gonfiabili acquattate in ogni ombra. Ogni incubo futuro sarebbe stato un’eco di quell’esperienza.

All’ingresso della costruzione girai la testa di lato e posai un orecchio sulla porta dipinta di marrone. Dall’interno, nessun rumore. Dalla mia posizione la mia carente visione periferica comprendeva il parcheggio di quell’area di sosta, il praticello tostato dal sole, l’infinito susseguirsi di ondate di traffico veicolare. Una sola automobile sostava vuota nel parcheggio. Era un furgoncino gibollato e arrugginito del tipo noto con il nome di “pick-up”. Una crepa bisecava orizzontalmente il parabrezza. La mia misera vista poteva anche sbagliarsi, ma un fanalino di coda sembrava riparato con strati di nastro adesivo rosso. Lo squilibrato, la mia nemesi, era arrivato lì con quel triste furgoncino incrostato di fango e tutto graffiato.

“Il papà migliore del mondo…”

Il mio cervello rigurgitò qualcosa che mi rifiutai di assaporare. Ricacciai indietro quella possibilità, quell’orrore non ancora riconosciuto che mi si era piazzato sul gozzo. Questa nuova idea era come vedere un asiatico che parlava spagnolo. Un concetto troppo impossibile.

Non c’era dubbio: ero sotto shock. Come uno zombie animato, brandendo il mio coltello di vetro, aprii la porta con una spallata e rientrai nel puzzolente gabinetto. Il passaggio dalla luce sfolgorante del giorno all’interno semibuio mi accecò, ma sentivo il plick-plock dell’acqua sgocciolante. In quell’eco catacombale udii il respiro rantolante di un uomo. I miei occhi scorsero, al successivo battito di ciglia, una figura riversa sul pavimento lurido. Era un uomo, la testa posata a terra. La sua pelle rugosa e i capelli grigi si erano sovrapposti al punto da non permettere di distinguere con certezza dove finisse la faccia e dove cominciasse il cuoio capelluto. All’inizio non avrei saputo dire se fosse prono o supino, ma poi vidi le ginocchia raccolte, tirate verso il petto in posizione fetale. I pantaloni erano ancora arrotolati all’altezza delle caviglie, e la cintura con la fibbia IL PAPÀ MIGLIORE DEL MONDO slacciata. Le gambe nude, i fianchi esposti erano così bianchi che rilucevano perlacei, appena offuscati da peluzzi neri. Tra le gibbose ginocchia rosacee si tendeva la vuota amaca delle sue sudicie mutande, e una mano scompariva tra le cosce, dove sembrava coprire a coppa le sue vergogne. L’altra mano in fondo al braccio esteso al massimo brancolava nell’aria accanto al mio libro abbandonato. Scintillante come un punto soleggiato in quella petrosa cripta dell’isola spartitraffico, un anello d’oro circondava la base del suo dito anulare. Era, ai miei occhi invalidi, sì e no un nove carati.

Persino con i miei occhi malmessi notai il fiotto cremisi che defluiva dal bacino avvizzito di quell’uomo. Il rivoletto rosso scorreva giù per la lieve pendenza del pavimento, trascinandosi dietro i resti del suo sputo tabaccoso verso l’arrugginito canale di scolo centrale. Lì, tutti i suoi fluidi scomparivano in notevoli quantità. Seguendo il suo sguardo, la sua mano protesa, trovai conferma alle mie peggiori paure, perché lui aveva chiaramente intenzione di esaminare il libro.

Al mio passo successivo il mio piede nella Bass Weejun trovò gli occhiali perduti. Sotto il mio peso da bambinetta cicciottella non erano più gli occhiali di nessuno; non erano neanche più occhiali. Uno scoppiettio secco e lo scrocchiare di vetro e plastica fecero voltare la testa del vecchio nella mia direzione.

Il libro del Beagle era caduto, aperto e a faccia in giù, con le sue preziose pagine premute su quel pavimento obbrobrioso. Un patetico assortimento di foglie e fiori essiccati era piovuto dal suo nascondiglio nelle profondità delle pagine del racconto del signor Darwin. Dopo essere stati conservati al sicuro per decenni, quei minuscoli germogli erano sparpagliati e disseminati sul corpo del pervertito accasciato al suolo. In un impulso dettato dal panico mi proiettai in avanti, coprendo quella breve distanza, e mi chinai per afferrare quella mia proprietà cartacea.

Quando le mie dita si chiusero intorno al bordo del libro, anche la mano dello psicopatico artigliò il volume. Per una terribile eternità, lui mantenne la presa. Fu un lugubre tiro alla fune, tra me e quell’anonimo Altro. Non riuscivo ancora a vederlo in faccia, travisato com’era dallo scompiglio dei suoi capelli. Le sue forze venivano meno, ma non mollava la presa, e alla fine i miei sforzi non facevano che avvicinarlo a me. Era vecchio, un vecchio con le guance smunte e scavate e gli occhi vitrei e cisposi. Gli zigomi e il mento sembravano scolpiti come i totem intagliati con la sega elettrica che certa gente vendeva nei lotti abbandonati vicino alle stazioni di servizio, lì nel Nord dello Stato. I fiori secchi, viole e violette del pensiero, digitali di un’epoca che fu, ramoscelli di lavanda, tageti essiccati e fragili quadrifogli conservavano ancora il colore di estati da lungo tempo svanite. Estati precedenti la mia nascita. Le margherite e gli aster conservati formavano un letto funebre sotto il suo corpo, e un ultimo esalante sospiro del loro antico profumo addolcì la fetida aria di quello scenario profano.

Le mie braccia riuscirono a strappare il libro da quelle grinfie, e io arretrai di un passo, ma non potei decidermi a fuggire. Gettata tra i fiori e le lenti d’occhiale infrante c’era una farfalla scarlatta, morta e spiaccicata. Era la farfalla dai colori fiammanti dei miei più alati sogni di naturalista. La mia specie: Papilio madisonspencerii. A un esame più ravvicinato, però, vidi che non era scarlatta e neppure una farfalla. Era soltanto una falena bianca appena saturata dal sangue dello sconosciuto, che sgorgava copioso.

L’uomo, ammantato di fiori, posato sui fiori, levò una mano tremante verso di me. Le sue vecchie labbra fremettero per una sola parola, ma non emisero suono. Le pallide labbra si mossero di nuovo, questa volta dicendo: «Madison?».

Involontariamente, la mano che reggeva la mia arma improvvisata si rilassò – quella scheggia allungata di vetro dall’impugnatura fasciata di banconote – e il pugnale cadde a terra. Le dure pareti di quel locale, sfregiate da strati di graffiti, fecero eco al flebile rintocco di qualcosa di fragile che si disintegrava in infiniti frammenti. Il vetro infranto scintillò, e la cartamoneta svolazzò fino a terra nel sangue che fuggiva. Annusai nella mia bocca un’aria che non avrei voluto sentire.

Il pick-up gibollato così familiare parcheggiato all’esterno. Il Papà Migliore del Mondo.

“Leonard vuole che raccolga dei fiori per mio padre.”

Le vecchie labbra sussurrarono: «Piccola Maddy?».

Il mio cuore prese il sopravvento sul cervello, e io mi avvicinai lentamente, mi portai abbastanza a ridosso da vedere che il rosso gli stava impregnando i pantaloni e il davanti della camicia. Allungò una mano tremante, e la mia, non più armata, la incontrò a mezza via. Le nostre dita si intrecciarono, e la sua pelle era fredda nonostante la calura estiva. Lo sconosciuto era il padre di mia madre. Il marito della nonna Minnie. Era il nonno Ben, mio nonno, e le sue labbra agonizzanti si mossero piano a dire: «Tu mi hai assassinato, bambina malvagia… Brucerai all’inferno per questo, vedrai!». E in un sibilo aggiunse: «Sarai relegata per l’eternità nell’inestinguibile lago di fuoco!».

La sua morsa ossuta mi schiacciava le dita. E come il canto ripetitivo di un fringuello… come onde che lambiscano una spiaggia delle Galápagos proseguì dicendo: «Sei una bambina perfida e spregevole…». Rantolava. «La tua mamma e la tua nonna ti odieranno per aver spezzato loro il cuore!»

E andò avanti, mio nonno, a maledirmi così fino al suo ultimo respiro.

Sventura
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