21 DICEMBRE, 8.53, ORA STANDARD DELLA COSTA DELL’ATLANTICO
Un banchetto politicamente scorretto
Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno
Gentili Tweeter,
se proprio volete saperlo, l’isolata fattoria del nonno e della nonna su nel Nord dello Stato constava di un salotto con una parete coperta di libri… due striminzite camere da letto… una cucina primitiva… addirittura un unico bagno. Una delle due camere da letto era stata di mia madre e sarebbe diventata la mia. Come mi era stato preannunciato, non avevano televisore né computer di sorta. Possedevano un telefono, però, ma era uno di quei rudimentali apparecchi a disco.
Il tipico pranzo mi vedeva seduta al tavolo della cucina davanti a un piatto pieno dei miei peggiori incubi da undicenne. Il vitello, per esempio. O il formaggio prodotto dal lavoro servile di centroamericani non sindacalizzati. Maiale di macellazione industriale. Glutine. Riuscivo a sentire il gusto delle spore del morbo di Creutzfeldt-Jakob. Sentivo l’odore dell’aspartame testato sulle scimmie in laboratorio.
Quando mi azzardavo a chiedere se la carne bovina proveniva da allevamenti amazzonici che praticavano la deforestazione selvaggia, mia nonna si limitava a guardarmi. Si accendeva una sigaretta e faceva spallucce. Per guadagnare tempo lasciavo la forchetta nel piatto e mi lanciavo in qualche strampalato racconto di quel che mi era successo un mese prima a una festa a casa di Barbra Streisand, davvero l’inconveniente più folle che la sfarzosa villa di Babs Streisand sulla costa di Martha’s Vineyard…
Squillava il telefono in salotto, e la nonna correva a rispondere. Con voce impalpabile come un profumo, nella stanza accanto, diceva: «Pron-to?». Le molle del divano cigolavano quando si accomodava. Diceva: «Be’, non compro mai le balle di cotone. Mi capita più spesso di comprare i tamponi di cotone». Taceva e poi aggiungeva soltanto: «Blu». Restava un attimo in ascolto e poi diceva: «Menta». Diceva: «Sposata, da quarantaquattro anni, ormai». Diceva: «Una figlia, la nostra Camille». Poi, come tossicchiando: «Ho compiuto sessantotto anni lo scorso giugno». Infine, aggiungeva: «Assemblea dei fratelli in Cristo».
Da sola in cucina, con il mio aneddoto su Barbra Streisand lasciato a metà, non mangiavo un boccone. Gettavo la mia cotoletta torturata fuori dalla finestra aperta sopra il lavandino.
Analogamente, la cena constava di una casseruola di tonno, ma non di quello “rispettoso dei delfini”. Il gusto piccante delle reti a strascico giapponesi era inconfondibile. Neanche il tempo di dir dieci parole di una mia buffa storiella su Toni Morrison, il telefono ricominciava a suonare.
La nonna andava a rispondere e dal salotto la sentivo che diceva: «Babette, vero? Sì, rispondo volentieri a qualche domanda…».
Come a pranzo, gettavo quella carne offensiva fuori dalla finestra della cucina, facendo un regalo a qualche mammifero rurale con meno scrupoli di me. Il mondo era pieno di bellissimi bambini affamati che i miei genitori potevano adottare, e io non sarei rimasta a girarmi i pollici su nel Nord dello Stato, a ingozzarmi di intingoli e a diventare troppo grassa per non essere altro che un handicap per l’immagine pubblica di mia madre.
Questo era il canovaccio dei nostri pasti. Mia nonna Minnie mi serviva una qualche crema di cereali di origini politicamente dubbie – chiaramente zeppa di burro contenente acido linoleico coniugato – e io raccontavo una lunga e insulsa storia sul conto di Tina Brown finché non arrivava la telefonata di qualche addetto al telemarketing o qualche sondaggista. L’ora di cena passava con mia nonna seduta sul divano del salotto a dire la parola “radiazione”, a dire “chemioterapia” e “quarto stadio” e “Leonard” al telefono. Al riparo dal suo sguardo, in cucina, io facevo decollare il mio pasto ingrassante, una polpetta alla volta, un fungo alla volta, fuori dalla finestra aperta. Intanto pensavo: “Leonard?”.
Il nonno Ben era a casa di rado, sempre in giro per commissioni che richiedevano più tempo del previsto. A volte pensavo che mia nonna corresse al telefono nella speranza che fosse lui. O che fosse mia madre. Ma a chiamare erano sempre i soliti sconosciuti: Leonard o Patterson o Liberace, ricercatori di mercato schiavizzati che telefonavano da Dio sa dove.
Solo una volta riuscii a precedere la nonna Minnie al telefono. Anzi, lei stava lavando i piatti, con le braccia immerse fino al gomito nell’acqua schiumosa, e mi chiese di andare a rispondere. Con un laborioso sospiro lasciai il mio piatto con torta di pecan non equosolidale e non ecosostenibile e mi recai in salotto. Mi portai la cornetta all’orecchio e sentii che puzzava di fumo di sigaretta, come la tosse di mia nonna, e dissi: «Ciao!».* All’altro capo, silenzio. Per un attimo pensai che fosse mia madre, per sapere come me la passavo, ma una voce domandò: «Madison?».
Era una voce maschile. Un giovane, forse addirittura un adolescente. Di certo, non il nonno Ben. Con una mezza risata, disse: «Maddy? Sono io, Archer!».
Non conoscevo nessuno con quel nome e lo gelai. Mentre la nonna entrava in salotto, asciugandosi le mani in uno strofinaccio liso che si gettò poi su una spalla, io domandai al telefono: «Ci conosciamo?».
«Aspetta un altro paio d’anni, killer» disse il ragazzo, per poi aggiungere, in un tono sommesso da cospiratore: «Hai strappato il cazzo a qualcuno, oggi?». E poi scoppiò a ridere sfacciatamente. E andò avanti a ridere a lungo.
E io, lenta come il tai chi, passai alla nonna la cornetta che odorava di fumo.
* In italiano nel testo. (NdT)