21 DICEMBRE, 10.55, ORA STANDARD DELLA COSTA DEL PACIFICO

Finalmente, il meritato e duro castigo

Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno

Gentili Tweeter,

i resti terreni della mia amata Tigrotta dovevano essere tumulati in un gabinetto del Beverly Wilshire Hotel, con una cerimonia elegante ma sobria secondo il modello già seguito per il mio pesciolino rosso, Mr Scodinzolo. Mentre il nostro staff privato formato da cameriere somale spalancava finestre e accendeva candele profumate, io portai i resti fragranti di morte e avvolti nel tovagliolo nel bagno padronale della suite. Il gruppo dei condolenti includeva mio padre, che stava accanto alla vasca dell’idromassaggio e batteva impaziente un piede a terra, la punta della sua scarpa cucita a mano che tamburellava sul pavimento di piastrelle. Il corteo funebre consisteva di una nube nera di mosche che mi seguiva. Eravamo, noi condolenti, letteralmente velati di ronzanti mosche nere.

«Buttala e tira l’acqua» ingiunse mio padre.

Mia madre, respirando attraverso un fazzoletto profumato, disse: «Amen, dài».

In piedi davanti al water sbadigliante, devastata nello spirito, ero incapace di staccarmi da qualcosa che avevo amato così profondamente. Mi sentivo così derelitta da pregare che Gesù mi telefonasse, dimenticando che mi ero inventata tutto. Gesù non esisteva veramente, e la dottoressa Angelou non sarebbe venuta a toccare quel puzzolente fagotto di ossa e di pelliccia in putrefazione per riportarlo alla vita.

Supplicai: «Non dovremmo recitare una preghiera?».

«A che scopo?» disse mio padre. «Maddy, dolcezza, le preghiere sono cose da idioti superstiziosi e da battisti.»

«Per l’anima immortale di Tigrotta!» piagnucolai.

«Una preghiera?» disse mia madre.

Li pregai di telefonare a Sir Bono o a Sir Sting affinché intercedessero.

«Non esiste nulla di simile a un’“anima”» disse mio padre. Esasperato, esalò un breve sospiro profumato di Binaca e Klonopin. «Piccolina mia, ne abbiamo già parlato. Non c’è una sola cosa che abbia un’anima, e quando moriamo le nostre spoglie marciscono per creare un sano compost organico in cui le forme di vita del sottosuolo possono riprodursi.»

«Aspetta» disse mia madre. Chiuse gli occhi e cominciò a recitare a memoria: «Va’ placido tra il clamore e la fretta…».

Un numero crescente di cameriere somale aveva cominciato a riunirsi nello spazio appena all’esterno della porta del bagno.

«Esercita la prudenza in ogni questione di affari» proseguì mia madre, la fronte infusa di Botox semicorrugata per la concentrazione. «Perché il mondo è pieno di imbrogli…»

«Non c’è alcun Dio. Non esiste l’anima. Nulla sopravvive alla morte» perorava mio padre. Ormai urlante, domandò: «Non ti hanno insegnato niente le suore di quella costosa scuola cattolica?».

Mia madre proseguì nella cantilena: «Esponi la tua verità con calma e chiarezza…».

«Tira l’acqua, Maddy» disse mio padre, Ctrl+Alt+Schioccando le dita a scandire le sue brevi frasi imperiose. «Tira. Tira. Tira l’acqua! Abbiamo una prenotazione per cenare al Patina alle otto!» Scostò il polsino della camicia e guardò l’orologio. Scacciò i fastidiosi parassiti. Cioè: le mosche, non le cameriere somale che si aggiravano in zona osservando quei curiosi riti funebri.

La voce mi uscì fioca. «Perdonami, gattina mia.» Strinsi quel viscido fagottino in un grande abbraccio contro la mia pancia flaccida. «Scusami. Sono stata io a ucciderti.» Cominciai a singhiozzare senza freno. «Mi spiace, sono stata una madre poco premurosa, e ti ho ucciso.» Mi ero dimostrata ancora più incapace di mia madre e di mio padre, come tutrice. Con questa terribile ammissione in mente, dondolavo avanti e indietro, scossa da rauchi singhiozzi, e spremevo gli ultimi e non freschi succhi cadaverici dall’amata bestiola. Eppure ancora non mi rassegnavo ad affidare la mia Tigrotta all’acqueo luogo del suo eterno riposo.

All’esortazione bisbigliata da mio padre, mia madre mi si avvicinò e disse, affabile: «Maddy, piccina…». Mormorò: «Non l’hai uccisa tu, la gatta. Nessuno l’ha uccisa». Mi diede un buffetto sulla nuca, appoggiò la mano sulla mia spalla e disse: «Tigrotta aveva una malattia genetica chiamata malattia policistica renale felina. Significa che i suoi reni sviluppavano delle cisti, tesoro. Non è colpa di nessuno. Si è riempita di cisti ed è morta».

Alzai gli occhi e la guardai, con gli occhiali annebbiati e grondanti lacrime, il naso livido e sgocciolante. «Ma un dottore dei gatti…»

Mia madre scosse la testa. Lo sguardo affranto, gli occhi espressivi di tutti gli avvocati d’ufficio nel braccio della morte e di tutte le infermiere al capezzale di defunti che aveva interpretato nella sua carriera. «Piccina mia, non c’è nessuna cura. La gattina era così dalla nascita.»

Domandai: «Ma come fai a saperlo, tu?». Subito mi vergognai del mio belato infantile, di quelle parole patetiche gorgogliate attraverso il muco e la sofferenza.

«Era scritto su quel cartellino» spiegò mia madre. «Maddy, ti ricordi che accanto alla gabbia, al gattile, c’era un foglio attaccato con lo scotch?» Disposti sul ripiano di marmo del bagno c’erano una boccetta arancione di Xanax, un piccolo portafiori con un tremante rametto di orchidee viola, un assortimento di saponi di Hermès in un cestino. «Secondo quel cartello, non c’era speranza che Tigrotta vivesse più di sei settimane.» Allungò una mano e prese la boccetta di Xanax, svitandone il tappo. «Perché tu e io non ci prendiamo una bella pillolina?» Disse: «Il tuo nuovo fratello arriverà oggi pomeriggio. Non sei emozionata?».

«Lascia andare la gatta» ordinò mio padre. Sollevò le mani sopra la testa e le batté gridando: «Molliamo il colpo e andiamo avanti, gente!».

Mi voltai verso di loro e con una voce che suonò come un ringhio strascicato, dissi: «Lo sapevate?». Le mie lacrime evaporarono all’istante. Il cadavere tra le mie tenere mani brulicava di vermi. Con voce di lontana valanga che li sovrastava minacciosa con milioni di tonnellate di ghiaccio e di pietra, dissi: «Voi sapevate sin dall’inizio di avermi dato una gatta che sarebbe morta?».

Si sentì il suono di un campanello smorzato. Era la porta della suite. Suonò di nuovo. Il branco delle cameriere somale indugiava e ci osservava dall’ingresso del bagno. Le telecamere di sicurezza ci osservavano.

«Voi sapevate che la mia gattina era spacciata e mi avete lasciato soffrire così?»

Il viso paonazzo, quasi viola, la mascella serrata, mio padre lanciò un’occhiata torva a mia madre.

Con voce da sirena, strillai: «Avreste dovuto dirmi che la mia piccolina sarebbe morta!». Cullando il mio dolore, protestai: «Non lo capite? Come avete potuto farmi affezionare a qualcosa che doveva morire?».

Mia madre riempì un bicchiere d’acqua e me lo porse. Nell’altra mano a coppa mi offrì le pillole. «Gocciolina di resina» disse, «noi volevamo solo vederti felice prima che tu compissi tredici anni.» Era talmente angosciata da non rendersi conto di avermi offerto acqua del rubinetto. Acqua del rubinetto di Los Angeles.

Senza guardarmi e fissando invece mia madre che si faceva piccola piccola, mio padre drizzò le spalle e si stagliò in tutta la sua altezza. «Credimi, signorinella» disse. Con voce fredda, controllata, rassegnata, disse: «Nessuno vuole sapere quando un figlio è destinato a morire». Per la prima volta, sentii nel respiro di mio padre una fiatata di Chivas invecchiato cinquant’anni. Mio padre era sbronzo.

Io sibilai, digrignante: «Magari potremmo sottoporre Tigrotta a liposuzione e tatuarla un po’ e agghindarla in modo da farla sembrare una versione alla Troy von Troyesky di Peggy Guggenheim!».

Prima ancora che io avessi assorbito appieno la realtà del loro complotto, mio padre attraversò il bagno e mi strappò di mano i fragili resti. Li lasciò cadere nella toilette spalancata e tirò sommariamente l’acqua. No, gentili Tweeter, non mi sfugge che molti dei miei recenti drammi si sono svolti in un bagno, che si trattasse dei pessimi gabinetti del Nord dello Stato o di quelli dorati del Beverly Wilshire. E con ciò la mia Tigrotta si congedò. L’acqua vorticava e sciabordava, e il suo cadaverino fu risucchiato via. Perduto.

Intanto, mormorante al mio orecchio, la voce di mia madre diceva: «Con tutte le sue imposture, il lavoro ingrato e i sogni infranti, il mondo è pur sempre bello».

Li guardai entrambi con muta indignazione.

Ma Tigrotta era davvero andata? Mentre la mia rabbia montava, mentre la bile si accumulava dentro di me alimentata dalla scioccante rivelazione cistica, anche le acque turbolente salirono all’interno del water. I miei amorevoli genitori ex incoraggianti, ex premurosi, ex adoranti mi avevano fregato. Mi avevano regalato un animale domestico che sapevano sarebbe morto presto. La turbinosa acqua del gabinetto continuava a salire mentre nella mia gola si arrampicavano agre emozioni. Tigrotta era scomparsa, ma il suo cadavere doveva essere incastrato da qualche parte nei meandri dei lussuosi scarichi dell’hotel, e ora dell’acqua non pulita risaliva a spirale dalla tazza fino al limite di quella tomba di ceramica per poi traboccare, schizzando sul pavimento di piastrelle in pietra.

Il campanello dell’ingresso suonò di nuovo, e quando mio padre si volse per andare a vedere io gli tagliai la strada. In piedi tra lui e la porta del bagno ruotai il tronco e – come avevo già fatto con il libro del Beagle per infierire su quel lurido batacchio di cane – con la mano aperta saltai abbastanza in alto da rifilare un ceffone sulla guancia di mio padre, rasata di fino.

Rimase Ctrl+Alt+Scioccato. Dal gabinetto usciva acqua. Ingorgato dal cadavere della mia gattina, vomitava ed eruttava accanto a noi. Non più un semplice water, bensì un calderone ribollente di brandelli di felino in decomposizione e magia maligna.

Nonostante il mio umore iroso, non mi sfuggì lo strano ragazzo che era entrato dalla porta del bagno, uno scugnizzo dall’aria scontrosa le cui sopracciglia irsute evocavano rovine romane e gotici travagli. Lupi. Streghe zingare dalla schiena curva. Alla vista di quel trovatello immusonito… mentre il gabinetto infuriava… e in risposta al mio attacco, mia madre lanciò un grido e, rapido come un’eco del mio colpo, mio padre mi restituì lo schiaffo.

Sventura
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