21 DICEMBRE, 9.00, ORA STANDARD DEGLI STATI UNITI CENTRALI

L’ingresso nel labirinto di Minosse

Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno

Gentili Tweeter,

mentre sedevo nel cubicolo di quel vecchio bagno pubblico su nel Nord dello Stato, la mia peggiore paura non era di essere presa e maltrattata da qualche bavoso Pervy McPervert. No, la ragione per cui i miei polmoni erano contratti e il mio cuore si dibatteva come un fringuello delle Galápagos nella rete – nonostante la mia vescica stesse liberando il suo torrente di pipì bollente – era più legata al terrore di essere arrestata. La mia presenza nei bagni degli UOMINI violava più di un sacro tabù sociale. Una punizione severa mi pareva inevitabile… e a un certo livello me lo auguravo.

Non domandatemi perché, ma quel terrore era eccitante come la vigilia di Natale, e io pregustavo l’ignota punizione come fosse un pony di oro massiccio.

Anche se i miei genitori il Natale non l’hanno mai festeggiato.

Se mi avessero sorpreso lì dentro, potevo azzardarmi a sperare di essere messa alla berlina? Un qualche magistrato dalla faccia di pietra mi avrebbe forse fatto legare a un palo nella piazza di un villaggio su nel Nord dello Stato. Le mie tenere e acerbe forme di bambina sarebbero state spogliate della protezione degli abiti, e sarei stata fustigata. E non solo la frusta sarebbe caduta sulla mia pelle delicata. Bifolchi sbavanti avrebbero frugato il mio corpo inerme e prigioniero, toccandosi avidamente gli organi riproduttivi attraverso i buchi slabbrati delle logore braghe da contadini.

Gentili Tweeter, se posso essere sincera, trovavo questa prospettiva infinitamente eccitante. Sarebbe stato meraviglioso essere battuta e tornare al mio collegio in Svizzera con i segni delle scudisciate in rilievo e contusioni livide per dimostrare a quelle bambinette viziate fino a che punto qualcuno mi Ctrl+Alt+Amava. Ah, dar prova di un simile stoicismo!

Come naturalista in erba, ero alla prima spedizione nel continente nero della mascolinità. Il rumore di rubinetti sgocciolanti riecheggiava nella stanza con note brillanti e sotterranee, come se qualcuno stesse pizzicando un’arpa in una profonda caverna. Il mondo reale sembrava lontanissimo. Le cacche di cane simili a tuberi, i camion che avanzavano sbandando. La cruda e umiliante luce del sole. In quello spazio c’era qualcosa che andava molto al di là della mia esperienza di scolaretta.

Nessuna prigione turca sarebbe potuta apparire meno allettante. Scaglie arricciate di vernice color lerciume si staccavano dal soffitto. Pestiferi ghirigori di muffa, come una carta da parati a disegni neri, si spandevano a mo’ di arabesco sui blocchi di calcestruzzo. Tutto lì dentro era sudicio, corrotto, arrugginito. Brutalmente insozzato. Una fila di lavandini con i rubinetti che sgocciolavano lungo una parete strapiena di minacciosi graffiti e di numeri di telefono incisi.

Di fronte ai lavandini una serie di orinatoi schizzati di piscio. Accanto a questi, tre esili paratie di metallo delimitavano altrettanti cubicoli con water puzzolenti di mierda, e fu nell’ultimo dei tre che io mi ritirai per svuotare la vescica. Le suddette paratie non erano in alcun modo opache; dei vandali, forse dei picchi affamati del Nord dello Stato, avevano attaccato la lastra di metallo producendo buchi di diverse dimensioni. Attraverso quei sordidi squarci godevo di una vista limitata sui dintorni.

Seduta com’ero su una malconcia tazza orrendamente chiazzata, i miei polmoni si ritrassero dall’inalare quell’aria velenosa. Le mie mani evitarono qualsiasi contatto.

Una mia compagna di scuola del collegio svizzero, una certa signorina Scrofa von Scrofen, mi aveva spiegato, una volta, in che modo i cattolici dimenticano i loro peccati. Secondo lei, si siedono da soli dentro una piccola cabina semibuia e dicono oscenità a Dio attraverso un buco nella parete. Lì seduta, chiusa nel cubicolo del gabinetto, mi resi conto di come ciò potesse svolgersi. Più o meno a mezza altezza, nel divisorio metallico, c’era un buco attraverso cui potevo vedere una piccola porzione del cubicolo adiacente. Il buco era grande appena come un occhio, con i bordi frastagliati di metallo ritorto simili a denti di una minuscola bocca ringhiante. Avrei voluto sbirciare, ma avevo troppa paura di avvicinare l’occhio a quegli spuntoni metallici affilati come lame. Nonostante avessi gli occhiali.

Fingendo di chiedere l’indulgenza divina, avvicinai la bocca a quel buco spaventoso. Per mettere alla prova l’amore di Dio, così come con il mio diario avevo voluto mettere alla prova l’amore dei miei genitori, confessai con un filo di voce di aver commesso omicidi e taccheggi immaginari. Sempre bisbigliando resi una falsa testimonianza infarcita di dettagli inventati di sana pianta.

Ogni respiro puzzava, per citare la già menzionata signorina Scrofa von Scrofen, come un sacco di ascelle sudate.

La sessualità umana non si riduce certo alle funzioni riproduttive. Posso affermare con certezza che nella sfera dell’Erotismo rientra un ampio spettro di comportamenti che creano, gestiscono e infine risolvono una tensione accumulata. Mentre mi svuotavo della pipì compressa, quello zampillante piacere era già modello di quel che avrei provato un giorno durante l’orgasmo. Mia madre mi aveva parlato apertamente dell’orgasmo, così come mio padre, ma la mia conoscenza delle cose sessuali rimaneva frammentaria e teorica.

Con l’asse del water a incorniciare le mie natiche bambine, controllai che la porta del cubicolo fosse chiusa bene. Me ne restai con il libro del Beagle sulle ginocchia, a sfogliare pigramente le pagine in cerca di vecchi appunti dei miei predecessori. Annotate con inchiostro blu sul margine di una pagina rividi le parole: “… un giorno metterò al mondo una grande guerriera…”.

Un rumore interruppe la mia lettura. Uno stridio, il cigolio di cardini arrugginiti, annunciò che la porta del bagno si stava aprendo. Non ero più sola. Avendo finito di sgocciolare, tornai a strizzarmi nei miei pantaloni di denim e mi preparai alla fuga; tuttavia, paralizzata dal caldo e dalla paura, mi sedetti di nuovo sulla tazza, completamente vestita, espellendo sudore da ogni poro. Dai buchi nel divisorio riuscivo a distinguere ben poco, a parte un lampo di indumenti trasandati, delle nocche irsute. Lo sconosciuto entrò nel cubicolo accanto al mio e sbatté l’esile porta.

Quel bruto doveva essere enorme. Con un rumore umido di risucchio simile allo scarico di una vasca da bagno, produsse un massiccio bolo di saliva. Lo sentii arrivare dalla gola e dagli angoli della bocca fin sulla lingua e, subito dopo, uno spiaccichio di proietto catarroso sul pavimento. Schizzi picchiettati di resti marroni di tabacco masticato partirono nella mia direzione da sotto la parete divisoria, e io con le mie Bass Weejun arretrai il più possibile in quello spazio ridotto. Un grosso orco si era insediato nella toilette accanto alla mia. Questo pensiero mi infuse paura e, al contempo, una specie di fame, ma non di cibo. Così come il sole del tedioso Nord mi aveva messo addosso una gran sete, la sensazione della presenza di quel gigante peloso suscitò in me un tenue, nuovo bisogno fisico. Una vera scienziata dedita allo studio della natura, ragionai, sarebbe rimasta immobile e in silenzio. Il cubicolo offriva un utile “capanno” da cui spiare: il signor Darwin aveva sopportato di peggio. Udii il ronzio di una grossa cerniera che si apriva. Quel suono significativo fu seguito dal clangore della fibbia metallica di una cintura che urtò il pavimento di cemento.

Alla maniera discreta di un signor Darwin, restai ancorata al water, ma mi sporsi in avanti con il tronco, sempre più giù per sbirciare da sotto il bordo del divisorio. Quel che vidi mi lasciò perplessa: i piedi di quel mostro bestiale sfoggiavano quel tipo di calzatura poco raccomandabile noto come “stivali da cowboy”, e i pantaloni di gabardine prêt-à-porter di scarsa qualità erano raccolti all’altezza delle caviglie. Le due estremità della cintura pendevano dai passanti ai lati della cerniera sbadigliante, e la fibbia era un ovale cesellato di argento ossidato tempestato di falsi turchesi con incisa la scritta: IL PAPÀ MIGLIORE DEL MONDO. Ciò che suscitò la mia curiosità professionale fu il fatto che le scarpe non erano rivolte in avanti, come mi aspettavo. Erano rivolte verso di me, verso la parete divisoria di metallo.

L’esile lastra di metallo si piegò e rumoreggiò come se un qualche leviatano stesse esercitando pressione dall’altro lato.

Allarmata, mi rialzai pian piano a sedere. E trovai il vero orrore ad attendermi.

Dalla bocca ringhiante aperta nella parete spuntava ora una specie di tozzo dito senza osso. Quel corto e tozzo cilindro era di un marrone screziato che sfumava nel marrone rossastro verso la punta arrotondata, mentre tendeva a un beige sporco nella parte che scompariva oltre la parete. Un’infinità di minuscole rughe tappezzavano la superficie spugnosa del dito, da cui spuntavano alcuni peli corti e ricci. Il dito esalava un odore acre e per nulla sano.

Prima che potessi ispezionare più da vicino, fortunatamente, gli occhiali da vista decisero che era il momento di scivolare giù dalla mia faccia viscida di sudore. La montatura di corno cadde sul cemento con un netto acciottolio, slittò sul succo di tabacco espettorato e si allontanò, fuori dalla mia portata. Brancolai nel vuoto, ma non afferrai nulla. Tutte le cose del mondo mi si confusero davanti. Senza le mie lenti correttive nulla aveva più un contorno. Quel posto era già buio di suo, come ad avere davanti agli occhi dieci paia di Foster Grant sopra altre dieci paia di Ray-Ban, e ora tutto era ulteriormente annebbiato.

Strizzando gli occhi, mi avvicinai talmente a quel dito da sentirne il calore animale. Sbirciai così da presso che il mio respiro smosse la corta peluria riccia. Provai ad annusare. Mentre il cervello mi sussurrava che quel “dito” non era un vero dito, ero scioccata dalla vera natura di questo incontro. L’odore era inconfondibile. Questo probabile psicopatico… questo degenerato sessuale… voleva minacciarmi con un lungo pezzo di cacca di cane.

Ero seduta quasi a contatto con un molestatore squilibrato e armato di un escremento canino marrone di cane piuttosto lunghetto.

Un qualche fulminato signor Porco de Porcis, molto probabilmente evaso da un manicomio, aveva raggiunto quel luogo con il preciso obiettivo di raccogliere una merda di cane abbandonata. Con tutta probabilità aveva temporeggiato nella scelta, alla ricerca di una pepita di cacca secca abbastanza lunga e dotata di forza tensile da poterla tenere dritta, ma con un diametro non troppo grande da non poterla infilare nel buco della parete divisoria. Io ero semplicemente lo sfortunato bersaglio delle sue deviate attenzioni. A un respiro soltanto di distanza dal mio sguardo di muto orrore, il tronchetto di cacca sbucava dal metallo malconcio, penzolando quasi verticale.

Era la stessa angolazione verso il basso della sigaretta della nonna quando era afflitta da una grave depressione emotiva; tuttavia, mentre guardavo, l’umore del dito di cacca penzolante cominciò a migliorare. Come un orrido miracolo sfocato, cominciò a gonfiarsi. Quello schifoso salamotto di fango si sollevò fino a spuntare tutto dritto dal buco nella parete di metallo. Il suo colore generalmente rubizzo passò dal rosso-bruno al rosa a mano a mano che l’inclinazione tendeva verso l’alto. In meno di un batter d’occhio già puntava verso il soffitto. Era ormai così gonfio e così proteso verso l’alto da farmi dubitare che il mio aggressore potesse agevolmente ritrarre dal buco quella ostile sonda di cacca.

Benché vaga e sfocata ai miei occhi invalidi, la trasformazione fu sconvolgente. La naturalista in embrione, dentro di me, cominciò a formulare una strategia.

Con cautela sollevai il pesante tomo del signor Darwin. Da che avevo memoria, ero sempre stata vittima del bullismo, a scuola, di quelle signorine Bagash Bagasheimer che mi avevano fuorviato e tormentato. Mai più avrei tollerato l’umiliazione di simili forme di abuso. Tendendo gli esili muscoli delle mie giovani braccia, presi la mira. Il mio piano prevedeva di utilizzare il libro per colpire quella cacca minacciosa con tanta forza da farla volare dall’altra parte dello stanzone. Dopo di che me la sarei filata, a tutta velocità, per tornare al luminoso mondo esterno prima che il mio molestatore folle si accorgesse della distruzione del suo triste e assurdo giocattolo.

Sventura
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