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Sentì un brivido alla base della nuca, le ascelle che si gelavano e le guance che prendevano fuoco.

Chiuse e riaprì gli occhi. Spalancò la bocca. Provò ad ascoltare quello che si stavano dicendo Beppe e il camionista, ma un rombo nelle orecchie gli impediva di sentire.

Riuscì solo ad afferrare una frase del camionista:

«In questi casi bloccano tutto fino all’arrivo del magistrato».

E così avevano ritrovato il corpo di Fabiana.

Subito.

Secondo le sue previsioni doveva arrivare al mare e lì essere mangiato dai pesci e invece, dopo nemmeno quattro ore, era stato ritrovato a uno sputo da casa sua.

Provò a deglutire, senza riuscirci. Doveva vomitare.

Uscì dalla macchina e poggiò le mani sul cofano caldo e lasciò penzolare il capo.

(Pensavi veramente che, per magia, il corpo sarebbe scomparso?)

Dovevo sotterrarla.

(Pensavi veramente che Dio o la fatina buona ti avrebbero aiutato perché stai salvando tuo padre?) Dovevo metterla nel cemento.

(Da quando sei entrato in quel bosco e hai deciso di…) Dovevo scioglierla con l’acido. Dovevo carbonizzarla.

(Sei diventato…)

Conosceva la parola.

COMPLICE.

Dovevo tagliarla in mille pezzi e darla da mangiare ai maiali, ai cani.

(Tu sei colpevole più di lui.)

«Cristiano?» Beppe Trecca lo stava chiamando.

(Tu sei peggio di lui.)

«Cristiano?»

(E adesso ti beccheranno. Ci metteranno un attimo a beccarti. Sei finito.)

«Cristiano, mi rispondi? Cos’hai?»

Sollevò il labbro superiore e ringhiò: «Che cazzo vuoi tu, eh?». Strinse i pugni sentendo improvvisamente una voglia incontenibile di ridurre la faccia di quel pezzo di merda a una palla di macinato.

L’assistente sociale fece un passo indietro spaventato e incassò la testa tra le scapole. «Niente. Sei pallido come un lenzuolo. C’è qualcosa che non va? Ti senti male?»

Dal profondo della gola gli uscì un gorgoglio e poi sputacchiando riuscì a dire: «Non mi rompere il cazzo!

Che cazzo te ne frega come mi sento? Ma chi cazzo sei? E che cazzo vuoi da me?». Mentre diceva tutto questo si accorse che intorno a loro si era formato un gruppetto di automobilisti curiosi, che erano scesi dalle macchine incolonnate convinti di osservare la classica scena di un padre che litiga con il figlio adolescente.

Chissà, forse speravano che si prendessero a botte, che scoppiasse un casino.

Quanto avrebbe voluto avere una spranga bella pesante per sfondare a tutti le loro teste di cazzo. Almeno prima di finire il resto della vita in galera faceva una strage.

E questi li ho ammazzati io. Io con queste mani. Così quando ti svegli - se mai ti sveglierai, stronzo - vediamo chi ne ha ammazzati di più, figlio di puttana bastardo.

Trecca gli si avvicinò. «Cristiano! Ascolta…»

Ma Cristiano Zena non ascoltava. Guardava verso il cielo, verso quelle nuvole marroni così basse che avrebbe potuto toccarle con la punta delle dita, verso quelle nuvole che tra poco avrebbero sparso altra acqua su questo mondo di merda, e si sentì levitare, come 221

se improvvisamente gli alieni lo avessero risucchiato nello spazio. Barcollò provando una vertigine, sollevò le braccia verso le nuvole, gettò la testa indietro e s’immaginò di cacciare fuori tutto quello che teneva dentro, tutto quel nero che aveva dentro, quella rabbia nera, quella paura, quella sensazione di non contare un cazzo, di essere il più sfigato del pianeta, il più solo e disperato essere del mondo. Fuori. Sì, fuori. Doveva sputare fuori dalla bocca tutti i pensieri, tutte le angosce, tutto. E trasformarsi in un cane nero. Un cane nero, un cane senza cervello, che correva allungando le zampe, curvando la schiena, rizzando la coda. Toccava appena terra e si distendeva perfetto come un angelo.

«Come un angelo…» gli uscì, poi guardò con uno strano sorriso Beppe, il camionista con il gilè di pelle, gli automobilisti che sembravano manichini e dietro di loro, oltre la statale, una striscia verde di erbacce che divideva due campi arati e su cui avrebbe potuto correre per sempre fino ad arrivare dove sarebbe stato libero. Libero.

Guardò ancora Trecca e poi si lanciò verso i campi e con un salto incredibile superò il guardrail e per un infinito istante gli sembrò di volare.

220.

La pioggia scrosciava sugli ombrelli di centinaia di curiosi che si affacciavano dal ponte e dai terrapieni, scrosciava sui fari argentati che spargevano fasci di luce asettica sui flutti neri del fiume e sul cellophane che nascondeva il cadavere, scrosciava sugli impermeabili degli agenti della polizia stradale, scrosciava su un tendone, tirato alla meno peggio, proprio dove Rita Baldi aveva visto per prima il cadavere, scrosciava sulle volanti e sui camion dei pompieri, scrosciava sul fuoristrada dei sommozzatori e sui pullmini delle televisioni locali e sulla cerata gialla dell’Uomo delle Carogne.

Era lì, schiacciato nella folla, affacciato al ponte.

Cinquanta metri più sotto, un gommone rosso combatteva con rapide e mulinelli cercando di raggiungere il corpo avvolto nella plastica.

Lo sguardo dell’Uomo delle Carogne si spostò dal fiume nero ai terrapieni gremiti di ombrelli, da lì scivolò sulla statale completamente ricoperta di macchine ferme e sui poliziotti bagnati, si sollevò verso il cielo dove un elicottero ronzava e infine si posò sulle sue mani tremanti.

Le mani che avevano prodotto tutto quello…

Quando una formica trova il cadavere di un topo non si tiene la scoperta per sé. La prima cosa che fa è correre come una pazza nel formicaio e avvertire tutti: “Correte! Correte!

Non sapete cosa ho trovato!”.

Mezzora dopo la carcassa è completamente rivestita di formiche.

Uguale identico per gli uomini.

Se lui non avesse ucciso la ragazza, ora tutte quelle persone sarebbero state a casa loro. E non affacciate lì, a gelarsi sotto la pioggia per vedere quello che lui aveva fatto.

Anche quella fila di macchine lunga dieci chilometri l’aveva fatta lui. Quei fari li aveva fatti mettere lui.

E quei carabinieri li aveva fatti venire lui. E lui avrebbe fatto sedere delle persone a un tavolo per scrivere di lui.

E la cosa incredibile era che nessuno poteva immaginare che in mezzo a loro c’era colui a cui Dio aveva 222

ordinato di farlo.

Lo vedete quello lì? Quel povero sciancato che voi considerate una merdina? Signore e signori, è stato lui. A lui Dio ha affidato la missione.

E tutti ad applaudire.

“Bravo! Bravo! Beato te!”

Questa cosa era molto bella. Molto bella davvero.

L’Uomo delle Carogne si ricordò che una volta Duccio Pinelli, un saldatore che aveva lavorato all’Euroedil nella loro squadra, aveva raccontato a lui e a Rino che all’età di diciotto anni, dopo una sbornia al pub, aveva investito un ciclista sulla strada che portava a Bogognano. Sul luogo dell’incidente erano arrivate le ambulanze e la polizia e la strada, proprio come in quel momento, era stata chiusa per un sacco di tempo e si era formata una coda lunga dieci chilometri.

«Quella è stata la cosa più importante che ho fatto in tutta la mia vita» aveva spiegato. «Sai quanta gente c’è in una fila di dieci chilometri di macchine? Migliaia di persone. Vi rendete conto che migliaia di persone hanno perso quattro ore della loro vita per colpa mia? Hanno mancato appuntamenti, sono arrivate tardi al lavoro e chissà che possibilità incredibili hanno perso. Io gli ho cambiato il destino. Cominciando dal ciclista e dalla sua famiglia. No, “importante”

non è la parola giusta. “Importante” sembra che sia una cosa bella. C’è un’altra parola, più giusta, che non mi viene. Ce l’ho sulla punta della lingua…»

«Rilevante?» gli aveva suggerito Rino, mezzo ubriaco.

«Bravo! Rilevante! Io nella mia vita avrò cambiato il destino di due, tre persone al massimo. Ma il giorno dell’incidente l’ho cambiato a migliaia di persone.»

Era stato in silenzio a lungo con gli occhi puntati nel nulla. E poi d’improvviso aveva aggiunto: «Forse a qualcuno pure in meglio, chi può saperlo. Forse per quelle quattro ore di ritardo due hanno avuto la possibilità di incontrarsi, di conoscersi e di amarsi». Poi si era stiracchiato e aveva concluso: «Sì, quello è stato il momento più rilevante della mia vita».

E ora anche l’Uomo delle Carogne aveva fatto una cosa importante. Mille volte più importante di quella di Duccio Pinelli.

Questa sarebbe finita in prima pagina, forse anche in televisione.

221.

Cristiano Zena era seduto sulla carcassa di una 127

bruciata e guardava nella pioggia centinaia di gabbiani, ad ali spiegate, avvitarsi in larghe spirali sopra un cratere ricolmo d’immondizia.

Migliaia di tonnellate di rifiuti fumanti su cui banchettavano corvi e gabbiani, su cui si arrampicavano ruspe e camion.

Se l’era trovata davanti. All’improvviso.

Dopo che si era buttato giù dalla statale, aveva corso a perdifiato tra i campi, aveva costeggiato capannoni, seguito recinzioni, si era fatto abbaiare dietro da cani alla catena, a un tratto aveva guardato il cielo e aveva visto i gabbiani volteggiare come avvoltoi che hanno puntato una bestia morta. Era andato avanti, premendosi una mano sulla milza, a testa bassa e seguendo il terreno ricoperto di erbacce e sassi, e gli era apparso di fronte quel cratere circolare largo quasi un chilometro.

Tutta la merda finisce qua dentro.

Come Dio Comanda
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