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(Dille che da domani smetterai di bere.) Danilo sapeva che lì sul soffitto non c’era nessun pagliaccio. Che quell’ombra era dovuta alla televisione in salotto. Eppure era proprio come se gli stesse parlando.
«Non diciamoci balle, non ce la farò mai.» Un’altra bolla di dolore si ruppe sotto il pomo d’Adamo.
(Ce la farai. Se lei tornerà da te e ti aiuterà ce la farai certamente… Dille della boutique. Vedrai come torna) Danilo sollevò un po’ la testa e strizzò gli occhi:
«Adesso? La chiamo adesso?».
(Sì, adesso.)
«E se si arrabbia?»
(E perché dovrebbe arrabbiarsi?)
«È troppo tardi. Le ho giurato che non la chiamavo la notte.»
(Non è mai troppo tardi per dire la verità. Per dire che si ama. Dille cosa stai facendo per lei. Che sfiderai la grande montagna solo per lei. Le donne questo vogliono sentirsi dire. Dille della boutique. Vedrai, vedrai…) Danilo sollevò la testa dal cuscino e tutto prese a girare. Respiró, cercò a tentoni l’interruttore e accese l’abat-jour. La luce gli pugnalò le retine. Si mise una mano sugli occhi e con l’altra afferrò il telefono sul comodino. «La chiamo sul cellulare, però.» Compose il numero di Teresa.
L’utente non era disponibile.
«Non risponde, visto?»
(Chiamala a casa.)
Quella sì che era una stronzata in piena regola. Soprattutto a quell’ora, quando c’era anche quel figlio di troia del gommista. Eppure doveva farlo, doveva sentire la voce di Teresa, l’unica cosa che gli avrebbe fatto bene in quel momento.
(Fallo. Se risponde lui riattacchi, no?) In effetti…
E poi questa volta era diverso. Era per dirle che avrebbe rimesso tutto a posto. Sul serio. Era in fondo al tunnel e se non cambiava ci lasciava le penne.
E lei avrebbe capito. Teresa avrebbe capito quanto soffriva e sarebbe tornata a casa e lui, la mattina dopo, si sarebbe svegliato e se la sarebbe trovata accanto, tutta accucciatella con la mascherina contro la luce.
(Che aspetti?)
L’indice gli scivolò sulla tastiera e con una velocità sorprendente per la sua condizione mentale compose il numero.
120.
Lo scambiò prima per un cane, poi per un cinghiale e infine per un gorilla.
Rino Zena fece tre passi indietro e istintivamente gli puntò contro la pistola, ma appena la torcia lo illuminò capì che era un essere umano.
Stava a quattro zampe in mezzo al bosco, accanto al casco. Tutto bagnato. I capelli neri appiccicati al cranio… Su una spalla un buco da cui usciva sangue.
Le mani affondate nel fango.
«Quattro Formaggi?! Cos’è successo?»
Sulle prime sembrò che nemmeno sentisse, ma poi lentamente sollevò la testa verso la luce.
Rino si mise istintivamente la mano sulla bocca.
Aveva gli occhi spalancati, due buchi scavati nelle orbite, e la mascella gli pendeva come a un povero idiota.
«Che ti hanno fatto?»