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Un rettangolo di un metro per due sembrava pulsare sul resto del muro.
Lì, deve stare.
Con sopra una piccola luce alogena sarebbe stato la fine del mondo.
«Immaginate di regalarvi questo capolavoro… Immaginate di averlo, di possederlo, di poterne fare quello che volete e solo per settemilacinquecento euro!
Un investimento, signori miei, capace di rivalutarsi nel giro di cinque anni sette, otto volte, altro che bot e CCT… Se ve lo lasciate sfuggire, quasi quasi…»
Danilo tornò a fissare lo schermo, poi, come in trance, afferrò il telefono e compose il numero in sovraimpressione.
64.
Anche Quattro Formaggi aveva visto distrattamente Quel -pomeriggio di un giorno da cani, ma non aveva in nessun modo associato il film al colpo. Poi, annoiato, aveva acceso il videoregistratore e aveva fatto partire Le grandi labbra di Ramona.
Era andato avanti veloce, fino al punto in cui lei scopava con lo sceriffo baffone.
«Lo sai che solo le troie fanno l’autostop in questa contea?» recitò con la voce del rappresentante delle forze dell’ordine. E poi, in falsetto, imitando il tono femminile di Ramona: «Non lo sapevo, sceriffo. So solo che sono disposta a tutto pur di non finire dentro».
Mentre interpretava il dialogo si accucciò a terra e si mise a costruire con il Lego una nuova stazione ferroviaria.
La finestra, spinta dal vento, si spalancò di colpo e una folata di pioggia gli bagnò la faccia e buttò giù una grossa lampada da tavolo che come un’astronave in panne precipitò su un ponte di cartone pieno di macchinette, distruggendolo, e poi s’incuneò su una montagna di cartapesta su cui pascolavano branchi di rinoceronti e di Puffi azzurri e li sparpagliò tra le mandrie di pecorelle e Tiny Toons che avanzavano nella gola di un canyon.
Quattro Formaggi corse a chiudere la finestra.
Quando osservò meglio si accorse che il vento aveva fatto altri disastri. Le processioni di soldatini blu, di serpenti, di robot galattici erano a terra e alcuni di loro galleggiavano in un lago fatto con una scatola di metallo dei biscotti danesi.
Cominciò a infilarsi le dita tra i capelli e a fare strane smorfie con la bocca.
Bisognava rimettere subito in ordine. Non poteva fare niente sapendo che il presepe era in quello stato.
«Ma devo andare da Danilo. Come faccio?» disse a se stesso strizzandosi una guancia.
Un attimo. Ci metto un attimo.
E se Danilo mi chiama?
Spense il cellulare e cominciò a rimettere in ordine.
65.
«Fabi, ascolta, ho avuto un’idea geniale!» Esmeralda, improvvisamente, come se avessero schiacciato play sul suo telecomando, si ridestò e saltò giù dal tavolo.
«Cosa?»
«Facciamo uno scherzo alla Carraccio.»
«Che scherzo?»
Esmeralda e Fabiana erano sicure che Nuccia Carraccio, la loro professoressa di Matematica, le odiasse perché le rodeva che loro due erano belle e lei era un 92
mostro. E oltre a non dargli mai la sufficienza erano certe che facesse le messe nere insieme a Pozzolini, l’insegnante di Educazione fisica, contro di loro.
«Il ciccione! Hai presente il ciccione?»
«Quale ciccione?»
«Quello della seconda C.»
«Rinaldi?»
«Esatto.»
Matteo Rinaldi era un ragazzino sfortunato, affetto da un grave squilibrio ipofisario, pesava centodieci chili a dodici anni. In quinta elementare era stato un po’ famoso perché aveva fatto il testimonial per una campagna contro l’obesità infantile promossa dalla Provincia.
Fabiana si stiracchiò e sbadigliò un: «Be’?».
«Ravanelli mi ha raccontato che ha fatto lo scout con Rinaldi e che una volta Rinaldi ha cagato in un campo. E lui per curiosità è andato a vedere lo stronzo…»
Esmeralda scosse la testa. «Non sai… Ha detto che era grosso come…» Non le veniva. «Una confezione di polenta precotta. Hai presente?»
«No. Non l’ho mai vista. Di solito mia madre la fa.
Ma com’è? È buona?»
«Insomma. Si taglia e si riscalda al forno. Meglio quella fatta in casa. Comunque…» Esmeralda indicò la grandezza con le mani e poi aggiunse: «E dice che era bello compatto, tipo siluro».
«E allora?»
«Dobbiamo convincere Rinaldi a cagare sulla cattedra.
Il mercoledì prima di mate c’è ginnastica. In quell’ora lo portiamo in classe e lo facciamo salire in cattedra a cagare.»
Fabiana sghignazzò: «Che stronzata».
Esmeralda la fissò delusa. «Perché?»
«Come lo convinci Rinaldi a fare una cosa simile?»
In effetti a questo Esmeralda non aveva pensato.
La loro arma, la seduzione, che piegava praticamente tutti i maschi della scuola ai loro voleri, su quel ciccione asessuato non aveva effetto.
«E se gli offrissimo dei soldi? Del cibo?» buttò là Esmeralda.
«No, è ricco da fare schifo. Forse però se gli fai un pompino…»
Esmeralda con una faccia schifata: «Che vomito…
Nemmeno se mi uccidono».
Fabiana si toccò le reni con una smorfia di dolore.
«Quanto ti faresti pagare per fargli un pompino?»
«Non c’è cifra!»
«Mille euro?»
«Ma sei scema? Troppo poco.»
«Tremila?»
Sorrise. «Tremila, ci si può pensare…»
Era il loro gioco preferito. Passavano ore a immaginare di fare seghe, pompini, di farsi sodomizzare dagli esseri più orrendi che conoscevano per denaro.
«E se devi scegliere tra Rinaldi e…» Fabiana non riusciva a pensare a niente di più disgustoso, ma poi ebbe un’illuminazione: «… il tabaccaio del centro commerciale?».
«Quello con il parrucchino attaccato con il Vinavil?»
«Esatto!»
«Non lo so… A nessuno.»
«Se non lo fai, uccidono tuo fratello.»
«Bastarda! Non vale!»
«Vale! Vale!»
Esmeralda ci rifletté un po’. «Alla fine, pensandoci bene, al tabaccaio. Almeno potrei rimediare una stecca di sigarette.»
«Con l’ingoio, però.»