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Cominciò a saltare per risvegliare i piedi insensibili come pezzi di legno. «Ti odio! Perché mi fai questo?»
E si morse una mano per non mettersi a urlare dalla rabbia. Un grumo di odio gli si era piantato dentro la gola come una scheggia affilata.
Basta! Fa un freddo fottuto… Io me ne torno a casa. Fece tre passi tirando calci alla neve, ma subito ci ripensò.
Non poteva tornare a casa.
Cominciò a percorrere il perimetro della rete cercando il punto migliore dove arrampicarsi.
Il cane, intanto, abbaiava con lo stesso tono monocorde.
C’era un palo a cui era attaccata la rete e dove il filo spinato era un po’ più basso.
Si attaccò al palo e infilando la punta degli stivali nelle maglie arrivò in cima senza difficoltà. Ora doveva riuscire a non rimanere appeso al filo spinato.
Con calma fece passare prima una gamba e poi l’altra, e trattenendo il respiro si gettò di sotto. Atterrò nella falegnameria.
Tirò fuori la pistola. Tolse la sicura e la caricò.
Sapeva usarla bene, la pistola.
Suo padre gli aveva insegnato a sparare allo sfascio delle macchine. All’inizio non riusciva a prendere la mira, il braccio gli tremava come se avesse il Parkinson.
Ma a furia di sparare a vetri, specchietti retrovisori, pantegane e gabbiani aveva capito che era solo una questione di posizione e di respiro.
«Come sul cesso alla turca» gli aveva detto Rino.
Gambe larghe, sedere un po’ in fuori, le braccia distese ma non troppo rigide. La pistola parallela agli occhi. E il respiro era importantissimo. Bisognava appoggiare la punta della lingua contro i denti di sotto e buttare fuori l’aria attraverso il naso e sgonfiando la pancia contare fino a quattro e poi sparare.
Si guardò in giro. Niente. Il bastardo si sgolava dall’altro lato del capannone.
Se si fosse avvicinato lentamente aveva buone possibilità di arrivargli abbastanza vicino da mirarlo, la neve avrebbe coperto il rumore dei passi e quell’idiota era troppo preso ad abbaiare per accorgersi che stava per finire nel paradiso dei cani.
Se invece il cane gli veniva addosso avrebbe dovuto avere il sangue freddo di fermarsi, mettersi in posizione e mirare mentre quello gli correva incontro.
Avanzò accucciato, trattenendo la voglia di correre, fino a un blocco di tavole impilate una sull’altra. Formavano un lungo parallelepipedo alto più di quattro metri che arrivava in fondo al cortile, a pochi metri dalla statale. Cristiano ci salì su, infilando i piedi tra le assi e afferrandosi ai bordi ghiacciati con le mani.
Quando fu sopra si accorse che tra una pila e l’altra c’era un salto di un metro. Come tra i vagoni di un treno.
Da dove si trovava riusciva a vedere uno spicchio del parcheggio deserto e l’area bambini con la giostra con i nani e le altalene imbiancate e i lampioni con le palle di vetro che spandevano una sfera lattiginosa.
Del cane nessuna traccia.
A quattro zampe, bagnandosi ginocchia e mani, arrivò in fondo alla prima pila. Prese coraggio e saltò.
Le assi si sollevarono e ricaddero facendo un rumore d’inferno. Da quella posizione si vedeva anche l’altro lato del parcheggio, dove erano posteggiati tre furgoni con scritto sulle fiancate:
MOBILIFICIO FRATELLI CASTARDIN