60

Il sabato non c’era scuola e ci si poteva svegliare tardi.

Erano le undici e mezzo quando Cristiano Zena tirò fuori la testa da sotto le coperte.

Verso l’una sarebbe arrivato Trecca. C’era appena il tempo per lavarsi e fare colazione.

Aveva una fame da lupo. Si sarebbe divorato un pollo con tutte le ossa. Al pensiero la pancia cominciò a fargli un sacco di rumori.

Ma doveva accontentarsi di pane e marmellata.

Si stropicciò gli occhi e sbadigliando guardò dalla finestra e gli venne da ridere a immaginare quella poveretta che era uscita di casa tutta nuda con una pedata stampata sulla chiappa.

Quel pomeriggio gli sarebbe piaciuto andare a vedere le moto al concessionario. Poteva chiedere a Quattro Formaggi di accompagnarlo.

Si vestì e scese di sotto. La televisione era su mtv.

Rino era in cucina ed era già pronto per l’incontro con l’assistente sociale. Ogni volta che lo vedeva acchittato come se dovesse andare a un matrimonio a Cristiano veniva da ridere. Sembrava un manichino.

Camicia azzurra. Cravatta. Pantaloni blu. Scarpe basse con i lacci.

«Guarda qua!» Suo padre gli indicò il ripiano di formica.

C’era un foglio di carta oleata con sopra una decina di fette di mortadella e su un piatto un bel tocco di stracchino fresco e un filone di pane. Nell’aria c’era odore di caffè. E dallo sportello del forno usciva un bel calduccio.

Il panino con la mortadella e lo stracchino era secondo Cristiano il miglior panino del mondo (seguito da quello con la mozzarella e il prosciutto crudo) e non c’era niente di più gustoso che mangiarselo la mattina insieme al caffellatte.

Che cosa era successo? Non era Natale e nemmeno il suo compleanno.

«Mi sono svegliato presto e ho fatto un po’ di spesa.

Mangia.»

Cristiano non se lo fece ripetere due volte. Si sfamarono in silenzio gustando ogni boccone. Rino tenendo il panino lontano per paura di macchiarsi la camicia.

49.

Beppe Trecca guidava la sua Puma per le strade di Varrano e ascoltava un cd con i suoni dei delfini mixati con note di un pianoforte. Lo aveva comprato in offerta all’autogrill perché sulla copertina diceva che era musica studiata per fare yoga o rilassarsi dopo un’intensa giornata di lavoro, ma i versi striduli di quei pesci non lo rilassavano per niente, soprattutto dopo una notte insonne.

Spense l’autoradio, si fermò al semaforo e aspettando il verde aprì la ventiquattrore. Dentro c’era una bottiglia di Ballantine’s. Si guardò intorno e ci si attaccò, ne bevve un sorso e la richiuse nella valigetta.

Ripartì e impostando la voce recitò: «Certi uomini vedono le cose come sono e dicono: “Perché?”. Io sogno cose mai esistite e dico: “Perché no?”».

Quella frase di George Bernard Shaw che aveva trovato nel Grande libro degli aforismi era perfetta per dare inizio alla tavola rotonda su “I giovani come motore di cambiamento della società” che aveva organizzato quel pomeriggio per i volontari della parrocchia.

Non sapeva esattamente cosa c’entrasse con il tema 61

del seminario, ma gli suonava bene.

Beppe Trecca aveva trentacinque anni ed era nato ad Ariccia, una cittadina sui castelli romani, e si era trasferito a Varrano dopo aver vinto un concorso per assistente sociale.

Era alto un metro e settanta. Negli ultimi giorni era dimagrito, ed essendo già magro di costituzione con quei due chili in meno si era fatto secco e appuntito come un cavalluccio marino. Sulla testa gli cresceva una palla di ricci biondastri che si ribellavano anche ai gel più tenaci.

Indossava un completo blu, una camicia bianca e una cravatta a righe. Aveva anche un paio di bretelle gialle per reggere i pantaloni troppo larghi.

Si vestiva così da quando aveva letto un libro intitolato Gesù come manager.

Era un saggio di un certo Bob Briner, un geniale uomo d’affari statunitense che aveva studiato a lungo i Vangeli per cercare di capire come Cristo, oltre a essere il figlio di Nostro Signore, sia stato un eccezionale manager. La costruzione di un progetto importante, la scelta dei collaboratori (i dodici apostoli), il rifiuto di ogni forma di corruzione e le buone relazioni con il popolo di Palestina erano state tutte armi vincenti per renderlo il più grande imprenditore di tutti i tempi.

Da lì a Trecca era venuta l’idea che il suo lavoro non dovesse essere affrontato con un approccio assistenziale ma manageriale, e di conseguenza si vestiva come un manager.

Si tolse gli occhiali da sole e si osservò le occhiaie nello specchietto. Sembrava un procione.

Sapeva che le donne si mettevano una roba, una crema per nasconderle, forse era il caso di comprarla.

Ida non doveva vederlo in quelle condizioni. Anche se era certo che quel pomeriggio alla tavola rotonda non sarebbe venuta, dopo quello che era successo tra loro.

Ida Montanari era la moglie di Mario Lo Vino, il direttore della asl di Varrano e forse il migliore amico di Beppe Trecca.

Forse, perché dopo quello che aveva fatto a quel disgraziato Beppe non era certo di potersi definire ancora tale.

Si era innamorato di sua moglie. Ma innamorato non era la parola giusta, era completamente uscito di testa per quella donna.

Non era da lui. Lui era uno che credeva a valori come lealtà, correttezza, amicizia.

Eppure non era colpa sua se nel triste mondo del volontariato Ida, ventisette anni, spiccava come un uccello del paradiso in un pollaio infestato dall’aviaria.

Tutto era nato da un’innocente amicizia. Si erano conosciuti grazie a Mario. Quando era arrivato da Ariccia depresso e demotivato, Beppe era stato accolto a casa Lo Vino come un amico. Aveva scoperto il piacere di stare in famiglia, di giocare a carte la sera bevendo un bicchiere di vino. Era diventato quasi uno zio per Michele e Daria, i loro figli. L’estate prima era persino andato in vacanza in montagna con loro. E lì aveva scoperto l’anima di Ida. Una donna che lo faceva stare bene e gli mostrava la vita nei suoi lati migliori. E soprattutto lo faceva sentire leggero.

C’erano giornate in cui non smettevano mai di ridere.

Ed era stata lei a chiedergli di aiutarla a coordinare il gruppo dei volontari della parrocchia.

Tutto, insomma, andava per il meglio. Fino a quando, circa tre giorni prima, Dio e Satana in persona si 62

erano messi d’accordo per complottare contro di lui.

Quella sera, senza una ragione precisa, la riunione con i disagiati era saltata e Beppe si era ritrovato solo con Ida nella sala video-internet. Pure padre Marcello, che non si scrostava dalla parrocchia da quindici anni, era fuori per una pizzata con il gruppo alcolisti.

E qui era intervenuto il Maligno, che si era impossessato della sua lingua e delle sue mandibole e aveva parlato al posto suo. «Ida, ho un video molto interessante sulle opere di volontariato in Etiopia.

Te lo vorrei far vedere. Vale veramente la pena. I ragazzi, laggiù, mi sembra stiano facendo un ottimo lavoro.»

Beppe Trecca, fermo al semaforo, prese a darsi pugni sulla fronte. «Davanti» pugno «al» pugno «video»

pugno «dei bambini africani. Vergognati!»

Dovette smettere perché accanto a lui due ragazzi su uno scooterone lo osservavano sconcertati.

Sorrise imbarazzato, abbassò il finestrino e disse:

«Ragazzi… Non è niente… Pensieri… Solo pensieri…».

Ida aveva dato un’occhiata all’orologio e aveva sorriso. «Mario e i bambini sono a cena da nonna Eva. Perché no?»

«Maledetta nonnina!» E Beppe s’infilò sulla statale sgommando.

Beppe aveva inserito la cassetta nel videoregistratore che di solito non funzionava mai, ma quella sera, chissà perché, funzionava perfettamente ed era partita la visione.

Da una parte loro due, uno accanto all’altro, nel buio, seduti su un divano di finta pelle. Dall’altra i bambini con gli stomaci dilatati dalla fame e dalla dissenteria.

Lei era seduta composta con le gambe accavallate e le braccia incrociate, ma a un tratto si era tirata indietro e aveva poggiato, senza darci peso, la mano a qualche centimetro dalla coscia di lui. E lui, continuando a fissare la televisione, lentamente, impercettibilmente, ma ostinato come le radici di un fico selvatico, aveva divaricato un po’ le gambe fino a sentire le nocche della mano che strusciavano contro il tessuto dei pantaloni.

Si era girato e con la determinazione di un kamikaze islamico l’aveva baciata.

Dimenticandosi di Mario Lo Vino, degli innocenti Michele e Daria, dimenticandosi di tutte le serate in cui era stato sfamato, accolto, ospitato come un amico, di più, un fratello.

E lei? E lei che aveva fatto? Si era fatta baciare. Almeno sulle prime. Beppe sentiva ancora impresse sulle labbra le labbra di lei. Il sapore della gomma allo xilitolo. Quell’effimero eppure innegabile contatto con la lingua morbida e liquida.

Ma poi Ida si era scostata, lo aveva respinto e gli aveva detto paonazza: «Ma sei impazzito?! Che stai facendo?!». E se n’era andata via scappando stizzita come una donnina di un romanzo d’appendice.

Il giorno dopo non si era fatta vedere in parrocchia, e neppure quello successivo.

E in questo tempo Beppe aveva patito disperatamente, come non gli era mai capitato in tutta la vita.

Ed erano dolori fisici. Soprattutto all’intestino. Gli era anche tornata la colite spastica.

Aveva scoperto di essersi nascosto la passione per Ida come se fosse una malattia venerea.

Aveva pensato di sfogarsi con sua cugina Luisa. Di chiederle aiuto. Ma si vergognava troppo. E quindi, solo, confuso, senza nemmeno il conforto di una voce amica aveva sopportato in silenzio sperando che 63

quella malattia passasse da sola, che il suo organismo si immunizzasse a quel virus diabolico.

Non c’era riuscito. Aveva smesso di dormire e aveva cominciato a bere per cercare di dimenticare. Impossibile.

Si era maledetto per essersi comportato così, ma aveva anche continuato a dirsi che il contatto di lingua c’era stato. Era così. Indiscutibile. Vero come era vero che lui era nato ad Ariccia. Se lei veramente non avesse voluto non gli avrebbe permesso di infilarle la lingua in bocca. Giusto?

Alle cinque e quarantatre di quella mattina le aveva mandato un sms. Il testo a cui aveva pensato tutta una notte era:

PERDONAMI. ©

E basta. Semplice. Preciso. Lei, chiaramente, non aveva risposto.

L’assistente sociale si fermò davanti a casa di Rino Zena, prese la ventiquattrore, scese dalla Puma.

Adesso basta però, i problemi personali non devono entrare nel lavoro, si disse saltellando tra le pozzanghere per non sporcarsi le scarpe, e si stava per attaccare al campanello quando gli vibrò due volte il telefonino.

Il corpo di Trecca fu attraversato da una scossa, come se gli avessero poggiato le piastre di un elettrostimolatore sul cuore.

S’irrigidì e tirò fuori il cellulare dalla tasca in apnea.

Accanto al disegno della bustina c’era scritto ida.

Chiuse gli occhi, spinse il tasto e li riaprì.

DI COSA? È STATO BELLISSIMO.

TI VA DI VEDERCI DOMANI?

ORGANIZZA TU. ©

Che zoccola! Allora le era piaciuto!

Strinse i denti, si piegò sulle ginocchia e sollevando i pugni disse: «E vai!!!».

E suonò il campanello.

50.

«Avete visto che tempaccio, ragazzi? Allora, che si dice?»

Beppe Trecca si sedette accanto a Rino e si poggiò la valigetta sulle gambe e si sfregò le mani tutto contento.

«Tutto bene. Sto vincendo» rispose Cristiano lanciando i dadi e osservandolo.

Era strano. Era eccitato, eppure dall’ultima volta che era venuto sembrava smagrito, come se avesse avuto una malattia, e poi aveva gli occhi infossati nel cranio e cerchiati come se non avesse dormito.

«Ottimo! Ottimo! Vi piace proprio il Monopoli, allora?»

Da quando Beppe li aveva rimproverati perché non giocavano abbastanza insieme (il gioco favorisce la costruzione di un rapporto padre-figlio più stretto e confidenziale) tutte le volte che veniva a trovarli facevano questa commedia.

Anche Rino tirò i dadi e fece un sorrisino beffardo.

«Sì, un sacco. È bello maneggiare tutti questi soldi.»

Cristiano ogni volta rimaneva scioccato da come suo padre riuscisse a rimanere calmo durante le visite di Trecca. Era irriconoscibile. Lo odiava, lo avrebbe volentieri investito con la macchina, eppure s’incollava sulle labbra un sorrisetto falso e rispondeva con la gentilezza di un lord. Che sforzo sovrumano doveva fare per non esplodere e non afferrarlo per la cravatta e rompergli il grugno a capocciate…

Dopo un po’ però Cristiano si preoccupava perché lo vedeva cianotico, che ingoiava aria e stringeva il bordo del tavolo come se volesse spezzarlo, allora 64

doveva inventarsi il modo di mandare via l’assistente sociale.

Beppe aprì la valigetta e tirò fuori dei fogli stampati.

«Rino, qui c’è un questionario che vorrei che tu riempissi.»

«Che cos’è?» fece sospettoso Rino.

«Il dramma con l’alcol è che chi ha problemi con questa piaga sociale lo nega. Viene naturale all’alcolista mentire e fare di tutto per nasconderlo, anche a se stesso. E lo sai perché, Rino? È a causa del marchio d’infamia con il quale vengono etichettati i problemi relativi all’abuso di sostanze alcoliche. È questo che contribuisce alla negazione. È inutile che ti ripeta i gravi danni che l’alcol arreca al tuo organismo.

E quali conseguenze negative può avere questa abitudine sui rapporti familiari, lavorativi e sociali.»

Cristiano era nervoso. Quello lì cercava solo un’occasione per metterlo in istituto. E dividerlo da suo padre. Due giorni prima lo aveva incrociato per il corso e Trecca lo aveva salutato appena, come se nascondesse qualche cosa. E adesso aveva tirato fuori quel questionario. Sembrava tramare qualcosa.

L’assistente sociale sorrise. «Rino, ascoltami, sto seriamente valutando la possibilità che tu partecipi a un seminario tenuto da me sui danni dell’alcolismo nella società, quindi compila con grande sincerità questo questionario. So che bevi pesante, non devi nascondermelo. Anzi, oggi dobbiamo fare una cosa. Un gesto simbolico davanti a tuo figlio.» Aprì la ventiquattrore e tirò fuori una bottiglia di Ballantine’s mezza vuota. «Cristiano, porta due bicchieri, per favore.»

Cristiano corse in cucina e tornò con i bicchieri.

«Grazie.» Beppe versò in un bicchiere due dita e lo diede a Rino, poi riempì l’altro per una buona metà e lo tenne per sé. «Questo è l’ultimo bicchiere di superalcolico che bevi fino al nostro prossimo incontro. Va bene? È una promessa. Capito?»

«D’accordo» rispose Rino come un soldatino.

L’assistente sociale sollevò il bicchiere al cielo e lo buttò giù tutto in un sorso. Rino lo imitò.

«Aaahhh…» Trecca storse la bocca e se la pulì con il dorso della mano. Poi si aggiustò la cravatta. «Ragazzi, posso andare un istante in bagno?»

«Certo» fecero sollevati Cristiano e Rino.

L’assistente sociale si chiuse nel gabinetto.

«Ma cos’ha? L’hai visto? Si è fatto fuori un bicchiere di whisky…» sussurrò Rino.

Cristiano sollevò le spalle. «Ma che ne so…»

51.

Beppe Trecca si chiuse a chiave nel gabinetto e si lavò la faccia.

Aveva parlato con gli Zena senza nemmeno capire quello che stava dicendo. Non riusciva che a pensare alle labbra scure come amarene mature di Ida, a quella v tra i seni che lasciava sempre apparire dai vestitini e a quegli occhioni da cerbiatta che la facevano assomigliare a Meg Ryan. E soprattutto a dove cavolo si potevano incontrare.

Si guardò allo specchio e scosse la testa.

Sono troppo pallido, forse mi devo fare una lampada.

A casa sua non si poteva. Troppo rischioso. In un hotel, nemmeno. Troppo squallido. Ci voleva un luogo speciale, romantico…

Fu colto da un’illuminazione.

Certo! Il camper del marito di mia cugina.

Tirò fuori il cellulare e scrisse rapido: perfetto!

Come Dio Comanda
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