73

Le ghiandole surrenali di Cristiano stavano producendo milioni di molecole di adrenalina che gli impedivano, almeno per il momento, di provare dolore.

Si rimise in piedi di scatto cercando di scappare verso la strada, ma riuscì a fare appena qualche passo e ricadde a terra.

Tekken con un calcio gli aveva falciato le gambe.

Ora Cristiano annaspava nel fango ghiacciato e provava ancora a tirarsi su, ma le gambe non ubbidivano.

Giurò a se stesso che dalla bocca non gli sarebbe uscito un lamento.

Tekken gli poggiò un tacco della scarpa sulla mano e spinse e Cristiano cacciò un urlo stridulo con quel poco d’aria che gli era rimasta nei polmoni.

«Perché l’hai fatto, eh?! Perché?» continuava a ripetergli Tekken. «Dimmelo!» Aveva la voce rotta e incredula, come se stesse per mettersi a piangere.

Cristiano non poteva rispondere perché non aveva risposte da dare, se non quella che per cinque minuti era uscito fuori di zucca.

Tekken spinse di più e Cristiano sentì un’esplosione di dolore avvolgergli l’avambraccio e le dita.

«Perché?! Parla!»

Da una parte Cristiano voleva implorare pietà, pregarlo di smettere, dire che non era stato lui, che si sbagliavano, che lui non c’entrava niente, dall’altra aveva dentro una massa dura come pietra che glielo impediva. Si sarebbe fatto uccidere ma non avrebbe mai implorato pietà.

Tekken si tirò indietro e Cristiano cominciò a strisciare verso la pensilina. Intorno tutto si era confuso in un arcobaleno di colori, di fumi di scarico, di ruote e gambe. Le orecchie gli ronzavano e non riusciva a capire che cosa si dicevano gli altri a cavallo delle loro moto.

Gli sembrò di sentire delle voci femminili.

Esmeralda e Fabiana.

C’erano anche loro. Ragione in più per non mollare.

Cristiano si trascinò sotto la panca della fermata dell’autobus.

Forse riesco ad arrivare un po’ in là e non mi troveranno.

Ma fu una vana speranza. Tekken lo afferrò per una caviglia e lo trascinò indietro. «Allora, cosa ti devo fare?» Gli mollò una pedata. «Avete capito? Questo stronzetto mi ha distrutto la moto.» Era disperato come se avessero sparato a sua mamma. «E ora cosa gli devo fare?»

Cristiano si rannicchiò con le ginocchia contro il petto. Non riusciva a smettere di tremare. Doveva reagire, alzarsi, combattere.

«Buttiamolo di sotto» suggerì una voce.

Un attimo di silenzio, poi Tekken decretò: «Giusto».

Nonostante il dolore che lo trascinava in abissi oscuri, Cristiano trovò l’idea di morire così, gettato da un ponte, quasi bella, una liberazione.

«Prendilo per i piedi.»

Gli afferrarono le caviglie. Una mano d’acciaio lo tirava per un braccio. Non oppose resistenza.

Lo avrebbe notato il giorno dopo una vecchia che aspettava l’autobus, schiantato come uno scarafaggio sul cemento degli argini del canale. Gli dispiaceva per suo padre.

Morirà di dolore.

Ma quando sentì sotto di sé un baratro buio che lo risucchiava e il rumore dell’acqua e il vento gelato, si rese conto che l’avevano sollevato e qualcosa dentro di lui scattò all’improvviso. Spalancò gli occhi e cominciò 74

a dimenarsi come un ossesso e a urlare: «Bastardi!

Bastardi! Figli di puttana! La pagherete! Vi uccido.

Vi uccido a tutti!».

Ma non riuscì a liberarsi. Dovevano essere almeno in tre a tenerlo.

Il sangue gli finì in testa. Sotto di lui c’era un rivo nero che risplendeva d’argento ogni volta che passava una macchina.

«Allora stronzetto, vuoi morire?»

«Fanculo!»

«Ah, sei un duro?»

Lo spinsero più fuori.

«fanculo, bastardi!»

Si beccò uno schiaffo che gli fece spruzzare dal naso uno schizzo di sangue.

La voce di Tekken: «Ascoltami bene. Se lunedì non mi dai mille euro uno sull’altro, ti giuro sulla testa di mia madre che ti ammazzo! E non credere di scappare, perché tanto ti becco». E poi agli altri: «E ora lasciatelo».

Lo misero a terra.

L’impressione fu che il mondo intero fosse un vortice di luci e facce senza volti.

Lì, buttato contro il guardrail, Cristiano li vide partire, fare inversione e allontanarsi verso il paese.

Passarono cinque minuti prima che provasse a muovere un muscolo, e in quel momento scoprì di essersi pisciato addosso.

53.

Quando Cristiano Zena arrivò a casa vide che le finestre erano illuminate.

Non gliene andava bene una.

Se suo padre lo vedeva così, con i pantaloni zuppi di piscio e sporchi di terra, la giacca macchiata di sangue e strappata…

Vabè, lasciamo perdere.

Cristiano attraversò zoppicando il cortile, superò il furgone e passò intorno alla casa. Sul retro c’era una rampa di cemento che portava a un garage seminterrato, chiuso da una saracinesca di alluminio. Sollevò un vaso, sotto c’era una chiave. La infilò nella serratura e soffocando un gemito di dolore alzò la saracinesca quel tanto che bastava per infilarcisi sotto.

Nel garage faceva freddo. Accese la luce e apparve un locale che odorava di umido e della vernice nei barattoli poggiati sui lunghi scaffali. Le pareti dipinte di verde pisello e il neon giallo lo facevano assomigliare a una camera mortuaria. In mezzo c’era un vecchio tavolo da ping-pong che era ricoperto di cataste di giornali, copertoni e roba inutile accumulata lì negli anni come in una discarica. Contro un muro un vecchio pianoforte verticale tutto impolverato e consumato dai tarli. Sulla sua origine e sul perché fosse lì Rino aveva sempre cercato di sorvolare. Quel coso non c’entrava niente con la loro vita. E suo padre era la persona più stonata che Cristiano conoscesse.

Alla milionesima volta che glielo chiedeva, era riuscito a tirarglielo fuori.

«Era di tua madre.»

«E che ci faceva?»

«Lo suonava. Voleva fare la cantante.»

«Ma era brava?»

Suo padre aveva faticato ad ammetterlo. «Una bella voce. Ma alla fine quello che le piaceva non era cantare, ma vestirsi come una troia e andare nei pianobar a farsi rimorchiare. Ho provato a venderlo, ma non ho 75

mai trovato nessuno che se lo volesse prendere.»

E così per qualche tempo Cristiano era sceso nel garage e aveva provato a suonarlo. Ma era più negato di suo papà.

Dentro le scatole ammonticchiate contro una parete Cristiano trovò dei vecchi vestiti. Si tolse la giaccavento e s’infilò un golf tarmato e un paio di jeans. Si lavò la faccia nel lavello e si rimise a posto i capelli.

Avrebbe voluto uno specchio per vedere com’era ridotto, ma non c’era.

Chiuse il garage e andò alla porta di casa.

Il problema era il labbro gonfio. Aveva anche la schiena scorticata, le mani sbucciate, la gamba dolorante, ma quelle avrebbe potuto nasconderle.

Il secondo problema, che non era un problema ma una tragedia, erano i mille euro. Be’, di quello era meglio occuparsi dopo, con calma, perché non aveva nessunissima idea su come risolverlo.

Ora doveva solo sperare che suo padre dormisse o che fosse già cotto dall’alcol, entrare in casa e passare silenzioso come una pantera, salire le scale e sgattaiolare in camera sua.

Fece un bel respiro. Si diede di nuovo una controllata ai vestiti, aprì la porta di casa e la chiuse cercando di non fare rumore.

In soggiorno era accesa solo la lampada vicino alla televisione. Il resto della stanza era in penombra.

Suo padre stava, come al solito, sulla sdraio. Dalla posizione in cui si trovava, Cristiano vedeva il cranio rasato. Sul divano c’era anche Quattro Formaggi, di spalle. Dormivano? Aspettò un po’ per sentire se parlavano.

Niente.

Bene.

Si avviò verso le scale in punta di piedi. Mise, trattenendo il fiato, un piede sul primo gradino e l’altro sul secondo, ma non si accorse che c’erano un martello e una pinza, che caddero facendo rumore.

Cristiano strinse i denti e sollevò la testa e nello stesso istante sentì la voce impastata di suo padre:

«Chi è?! Cristiano, sei tu?».

Trattenne una bestemmia e rispose tentando un tono rilassato: «Sì, sono io».

«Ciao!» Quattro Formaggi sollevò un braccio.

«Ciao.»

Suo padre voltò la testa lentamente, una maschera dipinta di azzurro dallo schermo della televisione.

«Ma eri in casa?»

Cristiano, rigido come una statua, strinse la ringhiera.

«Sì.»

«Non ho visto la luce in camera tua.»

«Stavo dormendo» buttò lì.

«Ah!»

Passata. Era abbastanza ubriaco da non interessarsi a quello che lui faceva. Fece un altro gradino.

«Dovrebbe essere rimasta della mortadella. Me la porti con un po’ di pane?» continuò Rino.

«Non te la puoi andare a prendere da solo?»

«No.»

«E dai. Cosa ti costa?»

«Te la vado a prendere io» si offrì Quattro Formaggi.

«No, tu stai là. Se un padre chiede a un figlio della mortadella, il figlio va e gli porta la mortadella. Funziona così. Se no uno i figli che ce li ha a fare?» Aveva alzato il tono della voce. E quindi o era di cattivo umore o aveva malditesta.

Cristiano scese sbuffando e andò a prendergli la mortadella. Ne era rimasta una fetta solitaria nel frigo deserto.

Prese anche il pane. Si avvicinò rimanendo nascosto 76

nell’ombra.

Ma nel momento in cui gliela allungava la sfortuna si accanì ancora una volta su di lui. In televisione un tipo azzeccò la risposta da ventimila euro e duemila lampadine da milioni di volt si accesero contemporaneamente inondando il salotto di luce.

Cristiano abbassò le palpebre e quando le sollevò l’espressione di suo padre era cambiata.

«Cosa ti sei fatto al labbro?»

«Niente. Che mi sono fatto?» Se lo coprì con le mani.

«E sulle mani?»

«Sono caduto.»

«Come?»

Dal vuoto della mente di Cristiano uscì la prima, sciocca, bugia. «Sulle scale. Non è niente» minimizzò.

Suo padre lo guardò sospettoso. «Sulle scale? E

ti sei rovinato così? Te le sei fatte dalla prima all’ultima?»

«Sì… Sono inciampato nei lacci…»

«Ma come cazzo hai fatto? Sembra che ti abbiano dato un pugno…»

«No… Sono solo caduto…»

«Mi stai raccontando una stronzata.»

Era impossibile mentire a suo padre. Aveva un’abilità speciale nel beccare le bugie. Diceva che le balle puzzavano e lui ne sentiva subito il tanfo a cento metri di distanza. E ti scopriva sempre. Come facesse Cristiano non lo sapeva, ma sospettava che fosse per quel fremito della mascella che lui non riusciva a controllare mentre gli mentiva.

Strano, con tutto il resto del mondo era un vero artista della balla. Ne sparava di stratosferiche con una tale sicurezza che nessuno dubitava di lui. Ma con suo padre era tutta un’altra storia, non ce la faceva proprio, sentiva i suoi occhi neri che scavavano alla ricerca della verità.

E in quel momento, poi, Cristiano non aveva proprio lo spirito necessario a sostenere un interrogatorio.

Le gambe gli tremavano ancora e aveva lo stomaco in subbuglio. Una vocina sensata gli suggeriva che per uscire dal casino dei mille euro l’unico che poteva aiutarlo era suo padre.

E, sbagliando, abbassò la testa e con un filo di voce glielo disse: «Non è vero. Non sono caduto. Ho fatto a botte…».

Rino rimase in silenzio per un’infinità di tempo, respirando con il naso, poi spense la televisione. Ingoiò la saliva. «E da quello che posso intuire, le hai prese.»

Cristiano fece sì con la testa.

Non doveva parlare perché sentiva che tutto l’impegno che aveva messo per non piangere fino a quel momento si era esaurito. Gli sembrava che la sua trachea fosse avvolta da spire di filo spinato.

Sollevò la felpa e mostrò la schiena scorticata.

Suo padre la osservò senza nessuna espressione e poi cominciò a passarsi le mani sulla faccia come qualcuno a cui hanno appena comunicato che tutta la sua famiglia è morta in un incidente stradale.

Cristiano rimpianse di aver detto la verità.

Rino Zena sollevò la testa e guardò il soffitto e chiese gentilmente: «Quattro Formaggi, per favore, puoi andartene?». Sbuffò. «Devo stare solo con mio figlio.»

Ora mi picchia… pensò Cristiano,

Quattro Formaggi muto come un pesce si alzò, s’infilò il vecchio cappotto, fece una smorfia incomprensibile a Cristiano e se ne andò.

Quando la porta fu chiusa Rino si alzò e accese tutte 77

le luci del soggiorno, poi si avvicinò a Cristiano ed esaminò le sue ferite e la sua bocca come fosse un cavallo,

«Ti fa male la schiena?»

«Un po’…»

«Riesci a piegarti?»

Cristiano piegò la schiena. «Sì.»

«Non è niente di grave. E la gamba?»

«Anche.»

«Le mani?»

«Non è niente.»

Rino prese a girare in tondo per la stanza senza dire nulla, e finalmente si sedette su una sedia. Si accese una sigaretta e lo fissò. «E tu?»

«Cosa?»

«Gli hai fatto male?» Gli bastò guardare suo figlio negli occhi per capire. «Non gli hai fatto un cazzo!»

Scosse la testa disperato. «Tu… tu non sai fare a botte.»

Fu una rivelazione. «Non sei capace di fare a botte.»

Lo disse con un tono tra lo scandalizzato e il colpevole.

Come se non gli avesse insegnato a parlare, a camminare. Come se avesse avuto un figlio con un’allergia mortale ai farinacei e lo avesse obbligato ad abboffarsi di pane.

«Ma…» Cristiano provò a interromperlo per spiegare chi cazzo era Tekken. Ma suo padre era partito.

«È colpa mia. È colpa mia.» Ora girava afferrandosi la testa con le mani come un penitente a Lourdes.

«Non sa difendersi. È colpa mia. Ma che imbecille…»

Chissà quanto sarebbe andato avanti così se Cristiano non avesse urlato. «Papà! Papà!»

Rino si fermò. «Che c’è?»

«Quello è maggiorenne… ed è un campione di boxe thailandese. Ha vinto i regionali.»

Suo padre lo guardò senza capire. «Chi?»

«Tekken!»

«Chi minchia è Tekken?»

«Quello che mi ha menato.»

Rino lo afferrò per il bavero. Aveva la faccia tutta contratta, le narici gonfie e la bocca serrata. Sollevò un pugno. Cristiano istintivamente si riparò la testa con le braccia. Rino lo tenne così, indeciso, poi gli diede una spinta che lo fece finire sul divano.

«Sei un coglione completo. Ancora credi alla stronzata che chi sa fare le arti marziali sa fare a botte. Ma tu che minchia hai imparato della vita? Come cazzo ragioni… Ah, ecco! Ho capito! Tu credi a quello che si vede in televisione: è così che impari a vivere. Dillo!

È così, no? Vedi i cartoni animati dove la gente fa kung fu e le altre stronzate e credi che bisogna essere Bruce Lee o qualche altro coglione cinese che invece di menare fa le acrobazie e gli urletti. Non hai veramente capito un cazzo. Sai cosa ci vuole per menare?

Lo sai o no?»

Cristiano scosse la testa.

«È tanto semplice. La cattiveria! La cattiveria, Cristiano! Basta essere figli di mignotta e non guardare in faccia a nessuno. Può pure essere Gesù Cristo nel tempio che si fa rodere il culo, ma se sai farci lo butti giù come un birillo. Gli vai dietro, gli dici

“scusa?”, quello si volta e tu gli dai una sprangata in faccia e quello va giù dritto e se ti va quando è a terra gli dai un calcio in bocca ed è finita. Amen. Se invece è uno che ti caga il cazzo, che incomincia a darti le spinte, ad aprire la bocca e darle fiato, a cercare di farti paura facendo i balletti tu sai cosa devi fare? Niente. Te ne stai fermo. Poi» puntò un piede in avanti «metti il piede così. E quando si avvicina gli colpisci il naso con una capocciata. Come se fosse 78

un pallone, caricando con il collo e le spalle. E lo devi colpire con questa parte qui, se no ti fai male.»

Si toccò la parte alta della fronte. «Se gliela dai precisa non ti fai niente. Al massimo un po’ di rosso il giorno dopo. Quello cade a terra e poi la solita storia, calcio in bocca ed è finita. Sfido chiunque a rialzarsi, pure quello stronzo di come cazzo si chiama…

Ma devi essere deciso e cattivo, capito? Ora vieni qua.»

Cristiano lo guardò. «Perché?»

«Vieni qua e basta.»

Cristiano, titubante, obbedì.

«Dammi una capocciata. Fammi vedere.»

«Come?»

«Ho detto dammi una capocciata.»

Cristiano era incredulo. «Io? Io ti devo dare una capocciata?»

Suo padre gli afferrò un polso. «E chi? Dammi sta cazzo di capocciata.»

Cristiano cercò di divincolarsi. «No… Ti prego…

Non voglio… Non mi va.»

Rino gli strinse più forte il braccio. «Adesso, però, tu mi devi ascoltare attentamente. Nessuno ti deve picchiare. Mai più. Nessuno al mondo deve permettersi di farlo. Tu non sei un finocchio che si fa menare dal primo stronzo che gli si mette davanti.

Io vorrei, non sai quanto vorrei aiutarti, ma non posso. Sei tu che devi sbrigarti i tuoi casini. E per fare questo esiste solo un modo: devi diventare cattivo.»

Gli prese un braccio. «Tu sei troppo buono.

Sei molliccio. Non sei abbastanza incazzato. Sei fatto di roba morbida. Dove stanno i coglioni?» Lo scosse come fosse una bambola. «Quindi dammi questa capocciata. Non pensare che sono tuo padre, non pensare a niente, pensa solo che mi devi fare male e che devo rimpiangere per il resto della vita l’idea del cazzo di voler fare a botte con te. Lo capisci che dopo che ne hai massacrati un paio si sparge la voce che sei un figlio di puttana e nessuno ti romperà più il cazzo? Lo faccio per te. Se non riesci a darmela a me non sarai mai buono a dargliela agli altri.» Gli fece segno con le dita e disse: «Quindi mena!».

Non c’era niente da fare. Cristiano lo sapeva. Doveva dargli quella capocciata.

Puntò il piede e tirò indietro la testa, chiuse gli occhi e fece scattare in avanti la fronte. Colpì suo padre sul setto nasale e sentì un rumore sgradevole, come quando si rompono gli ossicini del pollo. Avvertì solamente un leggero formicolio in mezzo alla fronte.

Rino fece un passo indietro come un pugile che ha preso una sveglia, si mise le mani sul naso, inghiottì un urlo e divenne tutto paonazzo. Quando se le tolse aveva due rivoli di sangue che gli uscivano dalle narici.

Cristiano lo abbracciò. «Scusami, papà, mi dispiace…»

Rino lo strinse a sé, gli carezzò i capelli e con una voce gutturale disse: «Bravo! Credo che mi hai rotto il naso».

54.

Mentre Rino Zena si infilava due pezzi di cotone nelle narici, seduto sul cesso Cristiano lo osservava e rifletteva che il problema, alla fine, era rimasto tale e quale.

D’accordo, aveva imparato a dare le capocciate, 79

ma se dopo avergli distrutto la moto a Tekken gli dava pure una capocciata, quelli della sua banda lo avrebbero preso e si sarebbero divertiti a trascinarlo sulla statale.

Ma la cosa che lo stupiva di più era che suo padre non gli aveva neanche chiesto la ragione per cui aveva fatto a botte. Non gli era nemmeno passato per la testa.

A lui frega solo che suo figlio non si faccia menare da nessuno.

Quelle botte, a essere giusti, se le meritava. Anche Cristiano avrebbe reagito così se qualcuno gli avesse distrutto la moto.

Si mise una mano sulla fronte.

E se gli dico dei mille euro?

Avrebbe dovuto spiegargli tutto. Non sapeva proprio che fare.

«Sei pronto?» gli disse suo padre con la voce di Paperino asciugandosi la faccia.

«Per cosa?»

Rino si cambiò la maglietta. «Come per cosa? Andiamo a beccare il campioncino di boxe e gli facciamo capire che gran cazzata ha fatto a picchiarti.»

A Cristiano venne da vomitare. Non era possibile.

«Stai scherzando, vero?»

«Per niente. Queste cose non bisogna lasciarle passare così. Bisogna rispondere subito a chi ti colpisce.

E, come dice la Bibbia, sette volte più forte.»

«Adesso, dobbiamo farlo?»

«Non mi dire che vuoi passare per uno che becca e sta zitto… Queste questioni vanno risolte subito.»

Cristiano con voce avvilita obbiettò: «Ma starà con gli altri…».

Rino cominciò a saltellare come un pugile che debba andare sul ring. «Meglio. Così vedranno tutti che non bisogna scherzare con Cristiano Zena.»

«E se gli altri lo difendono?»

«Tu non ti preoccupare… Ci sono io.» Negli occhi di suo padre brillava un’eccitazione febbrile.

«E se poi quello mi denuncia…? Finisco nei casini…»

Suo padre si avviò in salotto senza rispondergli.

Cristiano lo seguì implorandolo. «Papà, per favore.

Conosci Trecca… Questa è la volta buona che mi manda in istituto.»

Rino andò vicino alla stufa dove era ammonticchiata la legna da ardere. Scelse un ciocco lungo una settantina di centimetri e lo agitò soddisfatto nell’aria come fosse una mazza da baseball.

«Bene! Ora gli farai assaggiare questo pezzo di faggio sulle gengive.»

«Io non vengo, papà.» Cristiano scosse la testa affranto e poi si gettò sul divano. «Lo dici sempre che non dobbiamo fare stronzate. Io resto a casa… Non me ne importa niente. Vai tu se vuoi… Hai detto che i casini me li devo risolvere da solo… Me li risolvo io.

Per favore, ti prego, lascia quel bastone. È una figura di merda…»

«Stammi a sentire. Pensi che tuo padre è un coglione?

Tuo padre non sembra, ma pensa.» Si toccò con un dito la tempia. «Questo cervello funziona ancora benino, quindi tu devi solo fare quello che ti dico.

Devi stare sereno. Tranquillo. Lascia fare a me.» Gli strinse le braccia. «Lui ha diciotto anni e tu tredici.

Lui è maggiorenne e tu minorenne. Chi finisce nei casini è lui. È lui che ha cominciato… Per come la vedo io, tu ti stai solo facendo rispettare. E se dopo ha qualche problema, qualsiasi…» tirò fuori dal cassetto della credenza la pistola «gli facciamo fare la conoscenza con questa signorina qua. Basterà mettergliela 80

sotto il naso.»

«Ma…»

«Niente ma!»

Rino prese dal tavolo la bottiglia di grappa, se ne scolò un quarto e poi fece una specie di ruggito. «Bevi, forza. Questa ti dà coraggio.»

Cristiano si attaccò anche lui. Sentì l’alcol bruciargli le viscere e capì che erano cazzi amari per Tekken.

55.

Per tre volte Cristiano, andando verso Varrano, sentì l’impulso di spiattellare tutto, e per tre volte si limitò a immaginarsi di confessare.

Papà, ti devo dire una cosa… Guarda che io gli ho distrutto la moto… Per questo mi ha picchiato. Gli ho fatto un danno da mille euro senza che lui mi avesse fatto niente.

Verissimo. Tekken non gli aveva fatto proprio niente.

Mai. Davanti a scuola aveva rotto i coglioni a un sacco di gente, ma mai a lui. Nemmeno una parola.

Probabilmente prima di quella sera Tekken non sapeva nemmeno che lui esisteva.

Quando lo avrebbero beccato, Tekken avrebbe detto che Cristiano gli aveva distrutto la moto e suo padre lo avrebbe scoperto…

Che storia di merda.

Ma quando arrivarono al centro commerciale era chiuso. I cancelli sprangati. Le luminarie spente. Le torri nere. La distesa d’asfalto battuta dalla pioggia che aveva ripreso a rimbalzare sotto i fasci di luce dei lampioni. Tekken si era anche portato via la moto.

Cristiano tirò un sospiro di sollievo: «Non c’è. Torniamocene a casa».

E per tutta risposta: «Tranquillo. Lo becco io».

Cominciarono a girare per il paese. Il bar. Il corso.

Le vie centrali. Erano solo le nove e un quarto, ma in giro non c’era anima viva.

Suo padre guidava a scatti, tirava le marce, faceva mille infrazioni. «Ma dove cazzo è finito?»

«Sarà tornato a casa. Lasciamo perdere. È tardi.»

Le strade si erano svuotate e la pioggia tamburellava sul tetto del furgone.

Si fermarono sul bordo della statale. Rino si accese l’ennesima sigaretta. «Che facciamo?» chiese.

«Non lo so.»

Suo padre rimase in silenzio toccandosi il naso gonfio.

«Dai, torniamo a casa» gli consigliò Cristiano.

E così si avviarono, ma Rino, per sicurezza, volle fare di nuovo il giro del paese. Superò la chiesa e s’infilò nelle vie residenziali con le schiere di villette illuminate e con i giardinetti curati e le station wagon e i fuoristrada parcheggiati di fronte e poi, finalmente, imboccò di nuovo la statale deserta. Ogni cento metri i lampioni disegnavano dei cerchi gialli sull’asfalto e i tergicristalli lavoravano al massimo per tenere asciutto il vetro.

Cristiano stava per dirgli di passare in rosticceria quando vide, sull’altro lato della statale, una figura nera che spingeva una moto sotto la pioggia.

Tekken.

La giaccavento zuppa. Le gomme bucate. Che fatica doveva fare. Era tutto solo, lungo la statale… Nemmeno il rischio di figure di merda, né tantomeno della polizia.

Si sarebbe talmente cagato addosso che non gli avrebbe chiesto più i soldi. Però bisognava agire in 81

fretta, scendere dal furgone e stenderlo con il bastone senza dargli il tempo di dire niente.

Cristiano contò fino a tre e poi urlò saltando sul sedile:

«L’ho visto! Papà, l’ho visto!».

«Dove?! Dove?!» Rino si scosse dal letargo.

«Dall’altra parte della strada. L’abbiamo superato.

È a piedi. Gira! Gira!»

«E vai così! Figlio di una troia, alla fine ti abbiamo beccato!» urlò Rino e senza guardare fece inversione in uno stridore di pneumatici. «È solo?»

«Sì. Sta spingendo una moto.»

«Una moto?»

«Sì.»

Rino registrò l’informazione senza fare commenti.

Cristiano sentiva l’eccitazione che gli montava dentro e il respiro che si accorciava. Afferrò il ciocco di legno.

Era bello pesante. Non aveva più saliva in bocca.

«Come facciamo, papà?»

«Intanto spegniamo le luci così non si accorge che gli stiamo dietro. Quando arriviamo a cinquanta metri tu scendi, ti avvicini senza farti sentire e poi lo chiami per nome e quando si gira gli dai giusto il tempo di riconoscerti e lo colpisci. Una volta sola.

Se lo becchi bene è sufficiente. Io poi passo a prenderti.»

«E dove lo colpisco?»

Rino ci pensò un attimo, poi si toccò la mascella.

«Qui.»

Una macchina li superò e illuminò il catarifrangente posteriore della moto.

«Eccolo. Vai.» Rino fermò il Ducato.

Cristiano scese stringendo forte il bastone. Adesso quel figlio di puttana avrebbe imparato cosa vuol dire prendersela con Cristiano Zena.

Ti rompo la testa, bastardo.

Si guardò alle spalle. Macchine non ne passavano.

Cominciò a correre con il bastone in mano. La macchia nera di Tekken che spingeva la moto diventava più grande a ogni passo. Il rumore delle gomme flosce sull’asfalto. A circa dieci metri rallentò di botto e cominciò a camminare in punta di piedi fino ad arrivargli vicino, a meno di un metro.

Preciso, si raccomandò a se stesso.

Sollevò il bastone e urlò: «Tekken! Vaffanculo!».

Tekken girò la testa e non ebbe nemmeno il tempo di capire cosa stava succedendo che Cristiano gli sferrò una mazzata dritta sulla tempia che lo avrebbe ammazzato o mandato in coma, se lui, all’ultimo istante, per un istinto o per l’abitudine al combattimento, non avesse spostato la testa di quel poco sufficiente al bastone per lisciargli lo zigomo e abbattersi tra collo e clavicola.

Senza emettere un lamento Tekken lasciò andare la moto, che finì a terra frantumando lo specchietto, rimase un attimo in equilibrio sulle gambe vacillanti e come al rallentatore si poggiò una mano dove era stato colpito e poi scioccato e muto crollò indietro e finì a zampe all’aria addosso alla moto.

«Stronzo bastardo! Lasciami in pace, capito? Tu non mi conosci, mi devi lasciar stare.» Cristiano sollevò di nuovo il bastone. «Se non mi lasci in pace ti uccido.» Aveva una voglia terribile di colpirlo, di sfondare la testa a quel bastardo. «Ti credi chissà chi e non sei nessuno.» Deglutì. «Proprio nessuno.»

E poi vide negli occhi terrorizzati di Tekken la certezza di morire e si accorse che tutta la rabbia che aveva in corpo così come aveva acceso ogni fibra del suo essere si era spenta, era bastato guardarlo negli occhi e…

Come Dio Comanda
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