135

Poggiò una mano sul cofano. Al contatto un brivido gli risalì lungo gli avambracci facendogli accapponare la pelle.

Non ci pensare.

Fece un respiro e sollevò il telo.

Per un attimo s’immaginò sua figlia seduta sul seggiolino verde che rideva. Scacciò la visione dalla mente.

Era colpa di quel seggiolino se Laura Aprea era morta.

«Quella maledetta fibbia non si è aperta. Si è incastrata»

aveva ripetuto a tutti fino allo sfinimento. A Teresa, ai poliziotti, al mondo intero.

Il 9 luglio 2001 Danilo aveva chiesto il permesso al lavoro e aveva portato sua figlia a una visita di controllo.

Di solito di queste cose si occupava Teresa, ma quel giorno doveva sbrigare degli affari con la madre dal notaio.

«Tutto a posto» aveva detto il medico dando una pacca affettuosa sul sedere di Laura che sghignazzava e si agitava tutta nuda sul lettino. «Questo pasticcino sta benissimo.»

«Questo non è un pasticcino. Questa è una pippotella, vero?» Danilo si era rivolto alla figlia con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. E mentre il medico si lavava le mani aveva affondato la faccia nella pancia della piccoletta facendo un sacco di pernacchie.

Laura aveva cominciato a ridere. «Ma dove sono le mozzaaaaarelliiiiine? Eccole qui!» E le aveva dato un morsetto affettuoso sulle gambotte cicciottelle che lo facevano diventare matto.

Dopo la visita medica si erano fermati al discount.

Era un’impresa riuscire a fare la spesa con Laura seduta nel carrello che cominciava a cantare: «Viva la pappa con il po-po-po-po-pomodoro…».

Poi erano rientrati in macchina. Danilo aveva poggiato i sacchetti sul sedile posteriore e imbracato la bambina nel seggiolino e le aveva detto: «Adesso andiamo dalla mamma».

Erano partiti.

Danilo Aprea a quel tempo lavorava in una ditta di trasporti come guardiano notturno e sapeva che prima o poi ci sarebbe stata una riduzione del personale.

E c’erano buone possibilità che facessero fuori anche lui.

Guidava sulla statale insolitamente sgombra per quell’ora e continuava a pensare a un altro impiego da trovare subito, anche momentaneo, tipo all’Euroedil, una ditta di costruzioni dove avevano spesso bisogno di manovali.

E a un tratto si era reso conto che in macchina c’era odore di mele verdi. Non quello delle mele vere, ma l’odore sintetico delle mele verdi dello shampoo antiforfora.

«L’ho scambiato per l’odore dell’Arbre Magique»

aveva spiegato dopo a sua moglie.

«Come hai fatto? Il deodorante è al pino silvestre e lo shampoo alla mela verde. Non sono la stessa cosa!»

aveva urlato disperata sua moglie con gli occhi gonfi.

«Hai ragione. Ma non l’ho capito subito. Non lo so perché…»

Danilo si era girato e aveva visto che la magliettina rossa e i pantaloncini blu di Laura erano tutti impiastricciati di un liquido verde.

«Laura, cos’hai combinato?» Danilo aveva visto la busta della spesa rovesciata e il barattolo dello shampoo senza tappo sul sedile sporco di sapone.

Poi, se lo ricordava come fosse oggi, aveva sentito 136

un risucchio, un rantolo soffocato, e aveva guardato sua figlia.

La bambina aveva la bocca spalancata e gli occhi azzurri, fuori dalle orbite, erano rossi. Si agitava disperata, ma le cinture di sicurezza del seggiolino facevano il loro dovere e la tenevano appiccicata al sedile come un condannato a morte alla sedia elettrica.

Non respira. Il tappo! Ha ingoiato il tappo!

Danilo aveva stretto il volante e senza guardare aveva sterzato e si era lanciato, in uno stridio di pneumatici, verso il bordo della strada, sfiorando il muso di un camion che aveva cominciato a strombazzare impazzito.

L’Alfa Romeo si era fermata sulla corsia di emergenza della statale in una nuvola di fumo bianco. Danilo si era catapultato fuori ed era inciampato, si era tirato su e con il cuore che gli menava cazzotti contro il petto si era attaccato con tutte e due le mani alla maniglia della portiera posteriore.

«Eccomi! Eccomi! Arriva papà…» aveva ansimato infilandosi in macchina e si era attaccato alla fibbia di sicurezza del seggiolino per liberare sua figlia che sbatteva le manine e le gambe colpendolo sul volto e sul petto.

E la cosa incredibile era che quella maledetta fibbia non si apriva, aveva due pulsanti enormi, colorati di arancione, che bastava semplicemente spingere insieme, cosa che aveva fatto cento volte, aprendola sempre perfettamente, una fibbia tedesca studiata dai migliori ingegneri al mondo, perché si sa che i tedeschi sono i migliori ingegneri al mondo, che aveva passato i test di sicurezza più improbabili, che era stata certificata da una commissione internazionale e che aveva ricevuto la registrazione C €, eppure quella maledetta fibbia non si apriva.

Non si apriva in nessun modo.

Danilo si era detto che doveva stare calmo, che non doveva farsi prendere dal panico, che adesso si sarebbe aperta, ma lo sguardo disperato di Laura e i singulti strozzati gli facevano perdere la testa, avrebbe voluto strappare quelle cinghie a morsi, ma doveva stare calmo. Allora aveva chiuso gli occhi per non vedere la sua bambina che se ne andava e aveva continuato a spingere, ad armeggiare, a tirare mentre sua figlia soffocava, ma niente. Aveva tentato di sfilarla dal seggiolino senza riuscirci e poi si era attaccato a quel maledetto coso urlando, ma c’erano le cinture della macchina che avvolgevano lo scheletro di plastica.

Devo prenderla per i piedi. Devo prenderla per i piedi e agitarla…

Ma come, se non riusciva a fare nulla?

Allora, inspirando l’odore delle mele verdi, aveva infilato le sue grosse dita nella bocca di sua figlia che ora si dibatteva meno, improvvisamente più debole e stanca, e aveva cercato il tappo incastrato nelle profondità della trachea. Con i polpastrelli aveva sentito la sua piccola lingua, l’epiglottide, le tonsille, ma non il tappo.

Ora Laura non si muoveva più. La testolina le ciondolava sul petto e le braccia le pendevano ai lati del seggiolino.

Sì, sapeva cosa doveva fare. Come aveva fatto a non pensarci prima? Doveva bucarle la gola, così l’aria…

Ma con cosa?

Aveva urlato e implorato «Aiuto, aiutatemi, una bambina, mia figlia, sta morendo…» e si era infilato tra le due poltrone davanti, lui, un bestione di cento e passa chili incastrato tra le due poltrone, con la leva del cambio poggiata sullo sterno e le braccia allungate 137

verso il cassetto del cruscotto. Il medio della mano destra era riuscito a raggiungere il pulsante e lo sportello si era aperto e aveva vomitato fogli, libretti, mappe e una penna Bic che era rotolata sotto la poltrona.

Aveva tastato, ansimando, il tappetino e finalmente aveva afferrato la penna e impugnandola come un punteruolo si era girato, aveva alzato il braccio destro pronto a…

È morta.

La Bic gli era caduta dalle mani.

Laura Aprea, senza vita, era adagiata sul seggiolino, con gli occhi azzurri sbarrati e le braccine allargate, la bocca spalancata…

Un anno dopo l’incidente, quando la sua esistenza se n’era andata allegramente a puttane, su un giornale Danilo aveva trovato questo breve trafiletto: In occasione dei test sui seggiolini del 2002 è stato constatato che le fibbie della ditta Rausberg prodotte dal 2000 al 2001 e usate da alcuni produttori di seggiolini non chiudono sempre correttamente, nonostante il click ben accentuato. Se le due linguette metalliche vengono inserite obliquamente, la cintura potrebbe non essere più ben fissata da un lato o dall’altro e la fibbia potrebbe non aprirsi, a discapito della sicurezza del bambino. Ai seguenti seggiolini è stata montata una fibbia difettosa: Boulgom, Chicco, Fair/Wavo, Kiddy e Storchenmühle. Quindi si consiglia di controllare la data di fabbricazione del seggiolino in vostro possesso e nel caso fosse stato prodotto nel 2000 2001 rispedirlo ai fabbricanti che si sono impegnati a sostituirlo prontamente.

129.

Il furgone di Rino era parcheggiato al centro della piazzola di sosta.

Quattro Formaggi superò il guardrail e lo osservò per un po’ grattandosi la barba e tenendosi una mano sulla spalla ferita.

Doveva fare in modo che chi passava lo notasse.

Poteva chiamare la polizia e dire che aveva scoperto un omicidio e così sarebbe diventato famoso. Sarebbe finito in televisione.

No, non si può.

Era amico di Rino e avrebbero subito pensato che in mezzo c’era anche lui.

Cominciò a darsi delle manate in fronte ripetendosi a denti stretti: «Pensa! Pensa! Pensa, cervello marcio».

Se accendeva i fari tutti avrebbero visto il Ducato.

Ma la batteria sarebbe morta in meno di un’ora.

Aprì lo sportello e accese la radio al massimo e lasciò la portiera aperta, così la lampadina interna rimaneva illuminata.

Mentre andava a riprendersi il Boxer la radio attaccò con So Lonely dei Police.

Prese a dondolare la testa e poi, girando su se stesso, allargò le braccia alla pioggia sentendo una gioia euforica che gli gonfiava il petto.

Vivo! Vivo! Sono vivo!

Aveva ucciso ed era vivo. E nessuno lo avrebbe mai scoperto.

Tirò fuori il Boxer, ci montò sopra e si mise il casco.

Non riusciva a muovere il braccio sinistro e dovette faticare per mettere in moto. Dopo un paio di pernacchie il motore cominciò a girare e a produrre un fumo bianco.

«Bravo, piccolo.» Accarezzò il faro e cantando «So lonely, so lonely…» si avviò verso casa spinto dal vento 138

e dalla pioggia.

130.

Mentre Beppe Trecca e Ida Lo Vino erano chiusi nel camper la tempesta infuriava sul camping Bahamas.

Sopra il cancello la grande insegna a forma di banana sbatteva come uno spinnaker. Uno dei quattro tiranti d’acciaio saltò con uno stock che si perse nella bufera.

131.

Danilo Aprea appallottolò il telo e lo poggiò a terra.

Si avvicinò alla portiera e gli venne naturale mettere le mani in tasca.

Dove sono le chiavi?

Quando si ricordò dov’erano dovette poggiarsi contro il finestrino per non cadere a terra.

«No, non è possibile. Non è possibile» cominciò a ripetere scuotendo la testa. Poi si mise le mani sulla faccia. «Che stronzata… Che stronzata…»

Le aveva gettate nel canale il giorno in cui era stata sotterrata Laura, giurando che non avrebbe mai più guidato quella macchina in vita sua.

E ora?

Non poteva mollare per colpa di un merdoso mazzo di chiavi. Non sarebbe stato un problema così idiota a fermarlo.

«Per fermare Danilo Aprea gli devono sparare con il bazooka» esclamò constatando quanto fosse ferma e risoluta la propria voce. «E poi basta salire e prendere la copia delle chiavi.»

Tornò su e cominciò ad aprire tutti i cassetti, a cercare in ogni armadio, a rovistare in ogni scatola, in ogni maledetto angolo.

Erano scomparse. Volatilizzate. Disintegrate.

Lui era un uomo ordinato. Non perdeva mai niente.

“Ogni cosa ha il suo posto e ogni posto ha la sua cosa” era il suo motto.

E quindi quelle chiavi ci dovevano essere, nascoste da qualche parte. Solo che non sapeva più dove cercarle.

Era stanco, accaldato e aveva un malditesta atroce.

Si trascinò attraverso l’appartamento in cui sembravano esser passati i lanzichenecchi e si accasciò sfinito, a gambe larghe, sulla poltrona.

A meno che…

Schizzò in piedi come se il cuscino avesse preso fuoco.

E se quella puttana di Teresa, dietro consiglio del gommista, gliele avesse fregate?

Ma perché?

Il gommista aveva una Lexus, che diavolo se ne faceva della sua vecchia Alfa?

Così. Per farmi un dispetto. O forse è stata Teresa che aveva paura che guidassi di nuovo.

Ma poteva benissimo avergliele fregate anche Rino quando veniva a farsi il bucato. O quel diavolo di Cristiano. E perché escludere quello scemo di Quattro Formaggi?

La sua macchina faceva gola a tutti. Figuriamoci quando avrebbe avuto in salotto il quadro del pagliaccio scalatore, un oggetto di quel valore tutti avrebbero cercato di rubarglielo…

La prima cosa che devo fare domani è montare una porta blindata con un mucchio di serrature.

Come Dio Comanda
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