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Quando si era svegliato, dalla finestra della stanza aveva visto, nella pallida luce dell’alba, una distesa di morbide colline e valli bianche, come se fosse stato in una baita in montagna. Evitando di guardare i muri del palazzo di fronte si poteva anche pensare di essere in Alaska.
Era rimasto accoccolato a letto, sotto le coperte, a fissare i fiocchi di neve che scendevano leggeri come piume.
Era tantissimo tempo che non nevicava così.
Quasi tutti gli inverni, prima o poi, arrivava giù una spruzzatina, ma Quattro Formaggi non aveva neanche il tempo di fare una passeggiata in campagna che si era sciolta.
E invece quella notte dovevano esser scesi almeno venti centimetri.
Quando Quattro Formaggi era piccolo e stava nell’istituto delle suore nevicava ogni inverno. Le macchine si fermavano, alcuni si mettevano pure gli sci da fondo e i bambini si divertivano a fare i pupazzi con i rami al posto delle braccia, a scivolare dalla rampa dei garage sopra le camere d’aria. Che battaglie incredibili di palle con suor Anna e suor Margherita e le slitte trainate dai cavalli con i campanelli…
Almeno, così gli sembrava.
Ultimamente si accorgeva di ricordare spesso cose che non esistevano. Oppure scambiava cose che aveva visto alla televisione con i suoi ricordi.
Certo, qualcosa al mondo doveva essere cambiato se non nevicava più come allora.
Alla tele avevano spiegato che il mondo si stava scaldando come una polpetta al forno e che era tutta colpa dell’uomo e dei suoi gas.
Quattro Formaggi, steso nel letto, si era detto che se si sbrigava poteva andare da Rino e Cristiano e quando Cristiano sarebbe andato a scuola lo avrebbe assaltato a colpi di palle di neve.
Ma come se il Tempo lo avesse ascoltato e gli avesse voluto fare un dispetto, i fiocchi di neve si erano fatti sempre più pesanti e liquidi fino a trasformarsi in pioggia e le colline avevano cominciato prima a butterarsi e poi a ridursi in chiazze di pappa ghiacciata, e da sotto era apparso l’ammasso di roba vecchia stipata nel piccolo cortile. Letti, mobili, pneumatici, bidoni arrugginiti, lo scheletro di un’Ape 125 arancione, un divano di cui era rimasta solo la carcassa.
Quattro Formaggi si finì il tazzone di latte in un unico sorso, il puntuto pomo d’Adamo che andava su e giù. Sbadigliò e si alzò in tutto il suo metro e ottantasette.
Era così magro e alto che assomigliava a un giocatore di basket uscito da Auschwitz. Braccia e gambe sproporzionate, mani e piedi immensi. Sul palmo destro aveva un’escrescenza callosa e sul polpaccio sinistro una cicatrice dura e marroncina. Sopra il collo ossuto poggiava una testa piccola e tonda come quella di un gibbone cinerino. Una barba stenta macchiava le guance scavate e il mento. I capelli, al contrario della barba, erano neri e lucidi e gli calavano sulla fronte bassa come la frangetta di un indio.
Mise la tazza nel lavello, scosso da tremori e spasmi come se al suo corpo fossero collegati centinaia di elettrostimolatori.
Continuò a fissare il cortile piegando la testa da un lato e storcendo la bocca e poi si diede un paio di pugni su una coscia e uno schiaffo in fronte.
I bambini, al parco, quando lo vedevano camminare rimanevano a fissarlo inebetiti e poi improvvisamente sgambettavano dalle babysitter e le strattonavano indicandoglielo:
«Ma perché quel signore cammina così 13
strano?».
E di solito si sentivano rispondere (se la babysitter era beneducata) che è una cosa brutta puntare il dito sulla gente e che quel povero disgraziato era una persona sfortunata affetta da qualche malattia mentale.
Ma poi gli stessi bambini, parlando a scuola con i più grandi, imparavano che quel signore strano, che stava sempre ai giardinetti e si fregava i giocattoli se non lo controllavi, si chiamava l’Uomo Elettrico come un nemico dell’Uomo Ragno o di Superman.
Sarebbe stato un soprannome più azzeccato, per Quattro Formaggi. Quando aveva trent’anni Corrado Rumitz aveva avuto una brutta avventura che per poco non gli era costata la vita.
La storia era cominciata con un fucile a piombini che aveva scambiato con una lunga canna da pesca.
Un vero affare, il fucile aveva le guarnizioni consumate e quando sparava sembrava che scorreggiasse.
Alle nutrie del fiume faceva le carezze. Invece la canna era pressoché nuova ed era lunghissima e quindi con il lancio giusto poteva arrivare fino al centro del fiume.
Tutto soddisfatto, Quattro Formaggi con la sua canna in una mano e il secchio nell’altra se n’era andato a pescare sul fiume. Gli avevano detto che in un punto speciale, proprio sotto la chiusa, arrivavano i pesci portati dalla corrente.
Quattro Formaggi, dopo essersi dato un’occhiata intorno, aveva scavalcato la recinzione e si era piazzato proprio sopra la chiusa che quel giorno era abbassata.
Non era mai stato troppo sveglio, quando era in orfanotrofio aveva avuto una forma particolarmente acuta di meningite e quindi, come diceva lui, “pensava piano”.
Ma quel giorno, anche se piano, l’aveva pensata giusta. Aveva fatto qualche lancio e aveva sentito che i pesci toccavano l’esca. Dovevano essere centinaia, ammassati sotto le paratie. Ma erano parecchio furbi.
Si pappavano il verme e gli lasciavano solo un amo da innescare.
Forse doveva provare più lontano.
Aveva fatto un lancio deciso disegnando nell’aria una parabola perfetta, con la punta aveva superato le fronde degli alberi ma non i cavi elettrici che gli passavano proprio sopra la testa.
Se la canna fosse stata di plastica non gli sarebbe successo niente, ma, sfortunaccia sua, era in carbonio, che nella scala della conducibilità elettrica è secondo solo all’argento.
La corrente gli era entrata nella mano e lo aveva attraversato uscendogli dalla gamba sinistra.
Lo avevano trovato gli operai della chiusa, steso a terra, mezzo carbonizzato.
Per parecchi anni non aveva più parlato e si muoveva a scatti come un ramarro. Poi lentamente si era ripreso, ma gli erano rimasti spasmi al collo e alla bocca e una gamba matta a cui ogni tanto doveva mollare un pugno per risvegliarla.
Quattro Formaggi prese dal frigo un po’ di carne macinata e la diede a Uno e Due, le tartarughe acquatiche che vivevano in cinque centimetri d’acqua in un’enorme bacinella da bucato sul tavolo accanto alla finestra.
Qualcuno le aveva buttate nella fontana di piazza Bologna e lui se le era portate a casa. Quando le aveva prese erano grandi quanto una moneta da due euro, ora, dopo cinque anni, erano poco più piccole di una forma di pane casereccio.