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Quando faceva così, lo odiava.
Non gli credeva. E non gli avrebbe mai creduto.
Nemmeno se gli fosse apparsa davanti la professoressa di Italiano e gli avesse detto che quel tema non lo aveva consegnato. Nemmeno se fossero scesi dal cielo Dio, la Madonna e tutti i santi. Avrebbe pensato che si erano messi d’accordo. Tutti contro di lui.
Ma che razza di padre ho?
Chiunque avesse un po’ di fegato gli aveva fatto capire che Rino era un coglione, e Cristiano come una furia cieca ci si era scagliato contro. Ne aveva prese un sacco, in vita sua, per difendere una testa di cazzo.
Ma avevano ragione loro. Mille volte avevano ragione.
Cristiano sentì una fitta di dolore proprio sotto lo sterno. «Non l’ho fatto leggere a nessuno.»
Rino scosse la testa e tirò fuori il suo sorrisetto del cazzo. «Dai, ammettilo. Lo hai fatto così, non ti sei reso conto, per fare lo stronzo con i tuoi amichetti… “Io sono un nazista, io sono qua, io sono là.” Cosa c’è di male? Dimmelo, su. E che sarà mai?»
Cristiano non ce la faceva più e” prese a gridare:
«No, non l’ho fatto! Vaffanculo! Non riuscirai a farmi dire cose che non ho fatto. E poi io non ho amici. E lo sai perché? Perché tutti pensano che sei un pazzo. Solo un povero pazzo…».
Gli veniva da piangere, ma piuttosto che piangere si sarebbe strappato gli occhi dalle orbite.
35.
Rino Zena non sentiva più niente. Un vortice di terrore lo aveva risucchiato nella tenebra. Già s’immaginava l’assistente sociale accompagnato da due carabinieri che gli sventolava davanti il tema di Cristiano.
E se lo sarebbero portato via. Per sempre.
E questo non poteva succedere, perché lui senza Cristiano non era più niente.
Rino ingoiò un groppo e si mise le mani davanti agli occhi. «Ma come cazzo ti vengono certe idee in testa?» Parlava a bassa voce, respirando con il naso.
«Quante volte ti ho detto che bisogna tenersi tutto dentro… Che non bisogna mostrare a nessuno quello che pensi, che te lo mettono nel culo. Io e te siamo attaccati a un filo, lo capisci o no? E tutti lo vogliono spezzare. Ma nessuno ci riuscirà. Io sarò sempre con te e tu sarai sempre con me. E io aiuterò te e tu aiuterai me. Con il cervelletto che ti ritrovi non capisci che non bisogna mai mostrare la gola? Pensa alle tartarughe, pensa alle loro corazze. Pensa che devi essere così forte che nessuno ti può fare male.» Diede un pugno sul cruscotto con tale violenza che il cassettino si aprì sputando cartacce.
«Perché fai così, papà? Perché non mi credi?» disse Cristiano con la voce rotta.
«Non fare quella voce del cazzo! Mi pare che nessuno ti abbia fatto del male. Cosa sei, una bambina?
Ti metti a frignare?»
Danilo fece segno a Cristiano di non prendersela e di stare zitto e cercò di mediare: «Dai, Rino, ti ha detto la verità. Tuo figlio non dice bugie. Lo conosci».
Rino per poco non se lo mangiò. «Tu stai zitto! Non ti devi intromettere. Io mi intrometto nei cazzi tra te e quella troia di tua moglie? Sto parlando con mio figlio.
Quindi fai silenzio.»
Danilo abbassò lo sguardo.
Cristiano si asciugò gli occhi con le mani. Nessuno osava più parlare. Stavano tutti in silenzio e si sentiva solo il sottofondo del fiume e le fronde che strisciavano 45
sulle fiancate del furgone.
36.
Si fermarono nel piazzale di un vecchio impianto che negli anni Settanta tirava rena dal fiume. Mucchi altissimi di sabbia formavano un semicerchio attorno ai macchinari mangiati dalla ruggine.
Cristiano schizzò fuori e si allontanò di corsa verso la torre di estrazione.
Si fermò di fronte a una baracca fatiscente con le finestre sfondate e coperta di scritte e disegni.
Voleva tornare a casa a piedi. Era lontano, ma non importava. Anche se faceva freddo, non avrebbe dovuto piovere per un po’. Il tempo stava cambiando. A sud la volta grigia si era stracciata e dagli squarci appariva il blu cristallino del cielo. Sulla testa gli sfrecciò una coppia di cormorani. In lontananza si sentiva il tumulto del fiume gonfio di pioggia.
S’infilò in testa il cappuccio.
Davanti alla baracca c’erano i resti carbonizzati di un rogo. Lo scheletro metallico di una poltrona. Pneumatici contorti dal fuoco. Delle ciabatte. Una cucina a gas.
Cristiano tirò fuori dalla tasca il tema e un accendino.
Avvicinò la fiammella al foglio quando sentì alle sue spalle: «Cristiano! Cristiano!».
Suo padre lo stava raggiungendo. Indossava una giacca scozzese di lana con il peluche all’interno. La teneva aperta e sotto aveva solo la canottiera.
Come fa a non avere mai freddo?
Cominciò a bruciare un angolo del foglio.
«Aspetta!» Rino glielo prese di mano e ci soffiò sopra spegnendo il fuoco.
Cristiano gli si avventò contro cercando di strapparglielo.
«Dammelo. È mio.»
Suo padre fece due passi indietro. «Sei scemo? Perché lo vuoi bruciare?»
«Così non ci saranno più prove. E sarai contento.
Potrebbero sempre venire di notte i ladri e rubarcelo, no? Oppure la polizia… O gli extraterrestri.»
«No, non bruciarlo.»
«Che ti frega? Tanto non ti è nemmeno piaciuto.»
Cristiano cominciò a correre verso il fiume.
«Fermati!»
«Lasciami in pace! Voglio stare da solo.»
«Aspetta!» Suo padre lo raggiunse e lo afferrò per un braccio.
Cristiano cercò di liberarsi urlando: «Lasciami!
Vattene! Vaffanculo!».
Rino lo strinse forte a sé e gli spinse la faccia contro il proprio petto. «Ascoltami un attimo. Poi se vuoi te ne vai.»
«Cosa vuoi?»
Rino lo lasciò e cominciò ad accarezzarsi il cranio rasato. «È solo che… Ecco…» Faceva fatica a trovare le parole. Alla fine si accese una sigaretta. «… Devi capire che se mi arrabbio c’è una ragione… Se lo consegnavi, quella stronza della tua professoressa lo dava subito a quel bastardo dell’assistente sociale e domani ce lo trovavamo a casa con il tuo compito.»
«Non sono coglione e infatti non l’ho consegnato.
Te l’ho detto, ma tu non mi credi. E inutile.»
«No, è che… che volevo essere sicuro.» Rino diede un calcetto a un sasso e poi sospirando osservò il cielo.
«Ho paura, Cristiano… Ho paura che ci possano dividere. Vogliono solo quello. Se ci dividono io…»
Poi non disse più niente. Si accucciò e continuò a fumare 46
tenendo la sigaretta tra pollice e indice.
Tutta la rabbia che Cristiano aveva dentro si sciolse come la neve che era caduta quella notte. Ed ebbe una voglia terribile di abbracciare suo padre, ma disse solo con un groppo in gola: «Io non ti tradirò mai. Tu mi devi credere, papà, quando ti dico le cose».
Rino guardò suo figlio e poi strizzò gli occhi con la cicca tra le labbra e fece serio: «Ti crederò se mi batti».
«Come?» Cristiano non capiva.
«Ti crederò se arrivi prima di me là sopra», e indicò la collinetta di sabbia di fronte a loro.
«E che cazzo c’entra?»
«Come, che cazzo c’entra? Ti rendi conto dell’incredibile opportunità che hai? Se mi batti dovrò crederti per il resto della vita.»
Cristiano cercava di non ridere. «Che stronzata…
Sei il solito…»
«Qual è il problema? Sei giovane. Atletico. Io sono un vecchietto. Perché non dovresti vincere? Pensa, se mi batti mi potrai dire che hai sentito Quattro Formaggi ripetere Trentatré trentini e io dovr… Bastardo!»
Cristiano, di colpo, era scattato verso la collina di sabbia.
«Cazzo, questa volta ti batto» ringhiò Cristiano lanciandosi sul fianco scosceso della montagnola.
Fece i primi tre passi e dovette infilare le mani nella sabbia per non scivolare giù. Franava tutto. Suo padre era sotto, staccato di un paio di metri.
Ce la doveva fare. Perdeva sempre con suo padre.
A tiro al bersaglio. A braccio di ferro. A tutto. Anche a ping-pong, dove Cristiano sapeva di essere una spada e suo padre una pippa. Arrivava fino a diciotto, diciannove a sei, roba così, e gli mancavano solo due punti per mandarlo a casa umiliato, e quello stronzo cominciava a dirgli che era cotto, che aveva paura di vincere, lo rimbambiva di parole e lui non faceva più un punto e Rino vinceva.
Questa volta no, però. Ti fotto.
Si immaginò di essere un enorme ragno scalatore.
Il segreto era puntare bene i piedi e le mani. La sabbia era fredda e bagnata. Più saliva e più la pendenza cresceva e tutto gli franava sotto le scarpe.
Si voltò a controllare dov’era suo padre. Si stava avvicinando. Aveva la faccia contorta dalla fatica, ma non mollava.
Il problema era che ogni tre passi Cristiano scivolava indietro di due. La cima non era lontana, ma sembrava irraggiungibile.
«Dai, Cristiano! Dai, cazzo… Ce la puoi fare! Battilo!»
lo incitavano Danilo e Quattro Formaggi da sotto.
Diede tutto, urlando per la fatica, ed era quasi lì, mancava un metro e mezzo alla cima, era fatta, lo aveva fottuto, quando una morsa gli strinse la caviglia.
Fu tirato giù insieme a una frana di sabbia.
«Non vale!» urlò mentre suo padre gli passava sopra come una ruspa. Cristiano provò ad acchiapparlo per il fondo dei pantaloni, ma la mano gli scivolò e rischiò di prendersi una pedata in faccia.
E suo padre affondò le mani sulla cima della collina, si mise in ginocchio e sollevò le braccia verso il cielo come se avesse scalato il K2 urlando: «Vittoria!
Vittoria!».
Cristiano rimase lì boccheggiando, spalmato contro la sabbia a mezzo metro dalla sommità, mentre intorno a lui tutto si sfaldava.
«Dai… Sali… Ce l’avevi quasi fatta. Dai, in fondo, sei arrivato secondo… non sei arrivato ultimo» ansimò suo padre piegato dalla fatica.