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216.

«Ma cos’è questo traffico? Non capisco» sbuffava Beppe Trecca alla guida della sua Puma. Cristiano, con il cappuccio della felpa calato sulla fronte e le braccia incrociate, sentiva appena l’assistente sociale.

Insonnolito, fissava attraverso il finestrino i capannoni, gli outlet e le lunghe cancellate ai lati della strada.

Facevano cinque metri e si piantavano. Uno strazio.

Erano sulla statale e in mezzora erano riusciti a fare sì e no mezzo chilometro.

Trecca diede un pugno stizzito contro il volante.

«Dev’essere successo qualcosa! Un incidente. Non è normale, questo traffico.»

Cristiano l’osservò con la coda dell’occhio. Non l’aveva mai visto così nervoso.

Chiuse le palpebre e poggiò la testa contro il finestrino.

Chissà perché non mi ha ancora mandato dal giudice?

Si sentiva troppo stanco per darsi una risposta.

Avrebbe voluto dormire altre dodici ore. E al pensiero di tornare da suo padre e vederlo su quel letto gli sembrava di morire.

L’idea che il sole sorgeva e scompariva, che la gente faceva la fila in macchina, che potevano buttare una bomba atomica, che Cristo poteva tornare in Terra, e che gli infermieri potevano prendere per il culo suo padre, ridere di lui, mentre se ne stava lì, steso come un pupazzo, gli faceva venire la nausea e una rabbia tale che le mani cominciavano a formicolargli.

Se scopro che qualcuno lo prende in giro lo ammazzo, giuro su Dio che lo ammazzo.

“Impara a dormire con un occhio solo, Cristiano. È nel sonno che t’inculano” gli aveva detto suo padre la notte che lo aveva mandato ad ammazzare il cane di Castardin.

Gli sembrava passato un secolo.

No, non ce la faceva ad andarlo a trovare.

Voleva tornare a casa e rimettersi a cercare l’anello, quel maledetto anello con il teschio. Dopo aver abbandonato il cadavere nel fiume, Cristiano era tornato a casa e mentre Trecca dormiva si era messo a cercarlo.

Aveva messo a soqquadro il garage, e nemmeno ripulendo il furgone l’aveva trovato.

Non c’era.

Aveva cercato nella giacca e nei pantaloni che suo padre aveva addosso.

Nemmeno lì.

Doveva essere ancora nel bosco!

Le impronte digitali di suo padre su quel maledetto anello erano l’unico indizio che poteva collegarlo alla morte di Fabiana.

«Senti, e se svoltassimo per via Borromeo? Forse…»

gli chiese Trecca.

Cristiano fece finta di dormire. Finché erano in fila non erano all’ospedale.

“Sta arrivando Trecca, veloce, tira fuori il Monopoli.”

L’immagine di lui e suo padre che disponevano in fretta e furia le casette e i soldi sul tabellone mentre Trecca posteggiava gli rimase impressa sullo schermo delle palpebre e un lieve sorriso gli increspò le labbra.

Una cosa che Cristiano non riusciva proprio a capire era perché quello lì si stava sbattendo in questo modo per lui.

Io per lui non farei nulla.

Era andato a prenderlo all’ospedale, l’aveva riportato a casa, si era rotto la schiena a dormire sul divano e ora lo riaccompagnava da suo padre.

“Nessuno fa niente per nessuno. Guarda dietro ai gesti, 217

Cristiano.” Questo gli aveva insegnato Rino.

Eppure aveva la sensazione che Beppe Trecca non avrebbe avuto lo straordinario a fine mese per essersi occupato di lui.

Forse gli sto simpatico.

In ogni caso, entro pochi giorni, se suo padre non si risvegliava, il giudice lo avrebbe sbattuto in un istituto o in affidamento da qualche stronzo.

Doveva trovare Danilo al più presto. Lo poteva adottare lui, almeno fino a quando papà non usciva dal coma.

Sempre che lo riesco a trovare.

E se non lo avessero lasciato andare da Danilo sarebbe scappato.

217.

Beppe Trecca aveva un bisogno disperato di caffè.

«Ma cos’è questo traffico? Non capisco» disse senza aspettarsi nessuna risposta da Cristiano.

Dopo circa un chilometro c’era un bar, ma con quella fila… Non riusciva neanche a capire quanto poteva metterci.

L’assistente sociale diede un pugno stizzito contro il volante. «Dev’essere successo qualcosa! Un incidente.

Non è normale, questo traffico.»

Oltre al caffè sarebbe stato perfetto un bel massaggio.

Le molle di quel divano sfondato gli avevano distrutto la schiena.

Che notte infernale aveva passato. Troppo, troppo freddo. E in più il boato dei camion sulla statale.

La sensazione, quando chiudevi gli occhi, era di essere sdraiato in una piazzola di sicurezza dell’autostrada.

Spiò Cristiano con la coda dell’occhio.

Si era nascosto dentro il cappuccio e sembrava dormire.

Adesso sarebbe stato il momento perfetto per dirgli tutto.

“Senti Cristiano, ti devo dire una cosa. Danilo è morto in un incidente stradale.” Vabbè, sai che faccio? Glielo dico dopo.

Quel giorno doveva anche chiamare il giudice minorile.

Forse riusciva a convincerlo ad aspettare un altro po’. Un paio di giorni.

Il tempo che Ida si fosse dimenticata di lui.

Ma a lui quanto tempo occorreva per dimenticarsi di lei?

Era passato solo un giorno senza vederla e sentirla, ma gli sembrava un anno. Prima si vedevano sempre.

Una volta a settimana andavano a fare la spesa ai Quattro Camini. E Ida gli impediva di comprarsi le schifezze congelate. E poi lui l’accompagnava a riprendere i bambini in piscina. E se capitava che non si vedevano per un paio di giorni si sentivano al telefono.

Era la sua migliore amica.

La compagna della mia vita.

Continuava ossessivamente a ripensare a loro due nel camper che facevano l’amore. All’odore buono della sua pelle. A quei capelli così lisci. A quando l’aveva sentita tremare fra le sue braccia. Era stata la cosa più bella della sua vita. E per la prima volta si era comportato da uomo. Aveva preso in mano le loro vite ed era pronto ad assumersi le proprie responsabilità.

Improvvisamente aveva capito cosa voleva dire vivere.

Ma ora, nello stato disperato in cui si trovava, 218

avrebbe cancellato quella notte e sarebbe tornato indietro ai tempi in cui erano solo amici. Ai tempi in cui mentiva a se stesso.

Si guardò intorno.

Sulla destra c’era Truffarelli, un grande rivenditore di sanitari.

In quel posto c’era andato con lei a scegliere le maioliche del cesso per la casa di montagna comprata da Mario.

Ogni cosa di quella maledetta pianura gli ricordava lei.

Basta!

Se ne doveva andare. Lontano. Nel Burkina Faso a scavare pozzi artesiani. Era l’unica cosa da fare. Una volta sistemato Cristiano, si sarebbe licenziato e sarebbe partito.

218.

Era stato facile arrivare fino alla farmacia.

Nessuno lo aveva degnato di uno sguardo. O, se lo avevano fatto, l’Uomo delle Carogne non lo aveva notato, perché aveva tenuto gli occhi a terra.

La vecchia farmacia Molinari, con la croce al neon che si accendeva e si spegneva, in vetrina il busto di un uomo marrone ricoperto di bende e i cartelli delle creme rassodanti, era lì di fronte.

Ora bastava entrare, chiedere l’Aspirina, pagare e scappare.

L’Uomo delle Carogne si grattava la guancia, strizzava la bocca e si dava pugni sulla coscia.

Era indeciso se entrare. Quel farmacista era pazzo, completamente fuori di testa. Si era convinto, chissà perché, che lui fosse un tifoso sfegatato della Juventus.

E l’Uomo delle Carogne detestava i pazzi, i tipi strani, gli anormali, insomma. E poi a lui il calcio faceva schifo.

Non gli capitava spesso di andare in farmacia, ma ogni volta quello lì, un tipo magrolino con pochi capelli in testa e il pizzetto, attaccava a parlargli di giocatori che lui non conosceva e della classifica e una volta lo aveva invitato ad andare a Torino a vedere una partita di Champions.

«Dai dai, vieni vieni, siamo un bel gruppo di scalmanati.

Ci divertiamo. Si va in pullman.»

L’Uomo delle Carogne aveva il problema che se qualcuno gli diceva qualcosa su di lui che non era vero, lui non riusciva a smentire. Si vergognava.

Anche quando aveva accettato di seguire un corso di yoga l’aveva fatto perché un collega dell’impresa edile gli aveva detto che era certo che gli sarebbe piaciuto.

E quindi si era ritrovato in un pullman stipato di tifosi bianconeri diretti allo stadio. Quando erano scesi dal pullman, l’Uomo delle Carogne aveva finto di andare in bagno e si era nascosto dietro un furgone dei celerini e soltanto dopo la fine della partita era risalito sul pullman.

E se adesso entrava nella farmacia e quello l’obbligava di nuovo ad andare allo stadio?

L’Uomo delle Carogne si sedette su una panchina senza sapere cosa fare. Aveva bisogno di quella Aspirina.

Poteva sempre andare alla farmacia della stazione.

Era lontana e doveva prendere il motorino, ma meglio che affrontare il folle.

Stava per tornare a casa quando dalla Boutique della Carne, dall’altra parte della strada, uscirono due donne che si fermarono davanti alla farmacia.

Come Dio Comanda
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