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123.

«Ma che cazzo hai fatto? Brutto figlio di puttana psicopatico assassino che non sei altro!» Rino urlava e strattonava Quattro Formaggi per un braccio. «Hai ucciso una ragazzina! Hai dato fuori di testa, pezzo di deficiente…» Gli diede uno schiaffo così forte che sentì le ossa della mano incrinarsi.

Quattro Formaggi volò a terra e cominciò a singhiozzare disperato.

«Non piangere, stronzo. Non piangere che ti ammazzo.»

Rino sollevò il capo come un coyote che ulula verso la luna, digrignò i denti massaggiandosi la mano indolenzita e gli mollò un calcio sul costato.

Quattro Formaggi rotolò nel fango cominciando a tossire.

«Le hai sfondato la testa con una pietra.» E giù un altro calcio. «Hai capito, bastardo?» E un altro ancora.

«Non… vo…levo. Ti gi…uro che… non volevo. Mi disp…iace» frignava Quattro Formaggi scuotendo la testa disperato. «Non lo… so… nemmeno io…

perché.»

«Ah, non lo sai? Nemmeno io lo so. Schifoso stupratore pezzo di merda…» Lo afferrò per i capelli e gli cacciò la canna della pistola contro un occhio.

«Ora ti ammazzo.»

«Sì, ammazzami! Ammazzami. Me lo merito…»

prese a mugugnare Quattro Formaggi.

Una furia rossa, impetuosa, aveva acceso il cervello e gonfiato i muscoli e teso i tendini dell’indice di Rino Zena che stringeva il grilletto della pistola, e Rino sapeva che doveva calmarsi subito, immediatamente, se no andava a finire che faceva saltare quella testa di cazzo che aveva davanti.

Con la suola dell’anfibio colpì in bocca Quattro Formaggi che sputò un fiotto di sangue e poi si rannicchiò con le braccia sulla testa.

Rino, sbuffando, si cacciò la pistola sotto la cintola e prese con tutte e due le mani un enorme ramo e lo spezzò contro il tronco.

Non bastava. Aveva ancora troppa rabbia dentro.

Afferrò con entrambe le mani una roccia che doveva pesare almeno cinquanta chili per scagliarla chissà dove, la tirò su dal fango urlando, ma si ammutolì subito.

Il pietrone gli scivolò dalle mani.

Il mondo intorno a lui si scompose in centinaia di frammenti colorati come un vetro che esplode, e una morsa pesante come una massa di piombo incandescente gli stritolò il cranio. Due punteruoli gli affondarono nelle tempie e tutte le estremità del corpo iniziarono a formicolargli.

Rimase fermo, con le gambe piegate e il busto in avanti come un lottatore di sumo, strabuzzando gli occhi, e si rese conto che fino a quel momento non aveva avuto la più pallida idea di cosa fosse un malditesta.

Perse l’equilibrio e cadde rigido a terra.

124.

Erano passati dieci minuti da quando Teresa gli aveva dato la notizia di essere incinta, ma Danilo Aprea era ancora lì, seduto sul bordo del letto.

Sapeva che doveva come minimo mettersi a piangere, come massimo gettarsi dalla finestra e farla finita 131

per sempre.

Se solo avessi il coraggio di suicidarmi. Pensa come stai di merda, dopo, cara Teresa… Che goduria! Tutto il resto della vita vivresti nei rimorsi.

Il problema era che abitava al secondo piano. E con la sfiga che si ritrovava ci restava paraplegico.

Doveva fare qualcosa, comunque. Forse bastava partire. Scappare lontano. Andare a vivere in India.

Ma a lui l’India faceva schifo. Era zozza. E piena di mosche.

Però se continuava a pensare a cose del genere per tutta la notte fino al mattino, all’alba, alla luce, quella notte, la notte più schifosa di una vita schifosa, sarebbe passata. Perché Danilo sapeva che se avesse smesso di tenere il cervello occupato avrebbe potuto fare qualche stronzata di cui poi si sarebbe pentito amaramente.

Guardò il soffitto. Il clown era ancora là. Appeso in un angolo dove il bagliore della televisione non arrivava.

(Poverina, chissà, nelle sue fantasie, che si crede… Porse che questa bella novità ti sconvolga al punto che ti impicchi al lampadario? Tu pensi che lei vivrebbe nei rimorsi? E

invece sarebbe felice. Ti avrebbe tolto di mezzo. Questo spera.

Be’, si sbaglia. A te per farti fuori ti devono sparare con il bazooka.)

A Danilo sarebbe piaciuto sorridere, ma le labbra gli si erano incollate. Allora cominciò a scuotere il capo.

Che ingenua, Teresa. Non aveva capito un bel niente.

Lui lo sapeva benissimo che prima o poi sarebbe successo.

Si è dimenticata di Laura. Pensa di poterla rimpiazzare con un altro figlio.

«Brava.» Cominciò ad applaudire. «Brava, quanto sei brava!»

(Ma questo non cambia di un centimetro i tuoi piani.

Perché a Teresa, in verità, di quel rivenditore di pneumatici tutto tirato non importa proprio nulla. Diciamolo, le è stato utile perché ha i soldi e l’ha messa incinta. Punto. Ma appena arriverai con la boutique e con i soldi veri, tornerà da te.)

«Ma chi la vuole quella?» mormorò tirando su con il naso.

(Fai il colpo da solo. Non hai bisogno di nessuno. Fallo subito. Ora.)

Danilo guardò il pagliaccio. «Hai ragione. Certo, lo posso fare da solo, come ho fatto a non pensarci prima?»

Fuori, il temporale continuava a imperversare sul paese deserto. Non aveva nemmeno bisogno del trattore.

Bastava usare una macchina.

E lui la macchina ce l’aveva ancora. Era nel garage, ferma dal giorno del funerale di Laura. Aveva avuto diverse occasioni di venderla, eppure non lo aveva mai fatto. Come mai? Non perché pensava che un giorno avrebbe deciso di guidare di nuovo e nemmeno perché lì dentro era andato in paradiso l’angelo della sua vita. No. Non per quello. Ma perché gli sarebbe servita per fare il colpo da solo.

«Tutto torna.»

E quindi anche il fatto che Rino e Quattro Formaggi lo avessero mollato entrava in un progetto più grande organizzato da Dio apposta per lui.

(Tutti i soldi saranno tuoi. Non li dovrai dividere con nessuno.)

Sarebbe diventato veramente ricco, alla faccia di tutti. E Teresa sarebbe tornata da lui con la coda tra le gambe.

«Mi dispiace, Teresa. Ti sei dimenticata di Laura.

Come Dio Comanda
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