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E se è là dentro?

Si avvicinò al guardrail. C’era uno spazio tra le lamiere da cui partiva un viottolo che si insinuava tra le erbacce e i rovi. Buste di plastica, bottiglie, un preservativo, un vecchio sedile di macchina tra i massi coperti di muschio. Puntò la torcia in avanti. Tronchi neri e un intrico di rami da cui colava l’acqua.

Fece un passo, si fermò e poi prese a saltare cercando di scrollarsi di dosso la paura.

«Perché mi fai questo? Bastardo! Io ero a letto… Se per caso è uno scherzo…» disse tra i denti.

Rimase lì, piantato all’inizio del sentiero a spostare il peso del corpo da un piede all’altro. Poi inspirò profondamente e sollevando il martello fece un passo e il fango gli risucchiò la scarpa, ne fece un altro e gli avvolse le caviglie. Si avviò per il sentiero e gli alberi sembravano aspettarlo allungando i rami verso di lui (Vieni! Vieni!) e nel buio avrebbe potuto esserci chiunque pronto a sbucare da dietro un tronco e a colpirlo a tradimento.

Aveva fatto solo pochi metri, ma già gli sembrava di essere a mille chilometri dalla strada. La pioggia che grondava dalle foglie e che scorreva sui tronchi.

Il muschio zuppo d’acqua. L’aria satura d’acqua, di terra e legno marcio.

Immaginò che un branco di lupi con gli occhi rossi come lapilli apparisse nel buio.

Teneva con la destra il martello sollevato, pronto a colpire chiunque gli si fosse parato davanti, e con la sinistra muoveva la torcia freneticamente.

Sciabolate di luce guizzavano sui grossi sassi appuntiti, sui legni e sui rivoli d’acqua che scavavano fiumiciattoli sul fango e su un paio di anfibi neri.

Cristiano urlò, fece due passi indietro, inciampò in un ramo e cadde di spalle. Si rialzò e puntò, con la mano che non la smetteva di tremare, il fascio della torcia sugli anfibi, anfibi sporchi di vernice, sulla cerata grigia con la striscia catarifrangente arancione che usava suo padre quando lavorava, sulla sua testa pelata immersa nella fanghiglia, sulla mano e sul cellulare abbandonato in una pozzanghera.

170.

Beppe Trecca era ancora in ginocchio sotto la pioggia, accanto al cadavere, e continuava a domandarsi: Che aspetti?

Quello sull’Audi gli aveva fatto capire che lui al posto suo avrebbe tirato dritto.

Ma quello non era lui. Lui non era un pirata della strada. Lui gli altri li aiutava e non li abbandonava.

(Devi chiamare la polizia e un’ambulanza. Semplice.) Perché? Per rovinarmi la vita? Se questo poveraccio fosse stato ferito, in punto di morte, lo avrei portato all’ospedale di corsa. Ma così?

S’asciugò la faccia con il palmo della mano, stava tremando e non riusciva a smettere di battere i denti.

Scosse di nuovo l’africano. Nulla.

È morto. Basta. Dillo. È morto.

E quindi… E quindi non c’era più niente da fare.

Perché non poteva tornare indietro nel tempo? Di poco, solo mezzora, all’istante prima di prendere il cd di Rod Stewart?

L’idea agghiacciante che non c’era alcun modo di rimettere le cose a posto, che non c’era una persona in grado di esaudire questo semplice desiderio, lo gettò nel terrore.

(Basta! Prenditi la responsabilità di quello che hai fatto.) 165

Ma dopo cosa cambia? Nulla. Mica lo farà tornare in vita.

E io finirò nella merda fino al collo.

Così una vita sfortunata si era spenta e un’altra sarebbe stata rovinata per sempre.

«Non ha nessun senso. Nessuno» piagnucolò con le mani sulla faccia. «Non è giusto. Io non mi merito questo. Io non posso, proprio adesso…»

Basta. Muoviti. Sali in macchina e fila via prima che passi qualcuno. Il tipo te l’ha detto: “Che aspetti?”.

Beppe Trecca si alzò e a testa bassa tornò nella Puma.

171.

Cristiano Zena aveva immaginato mille modi diversi in cui suo padre sarebbe potuto morire (accoltellato in una rissa o accartocciato tra le lamiere del Ducato o precipitato dalle impalcature di un palazzo in costruzione).

E si era sempre immaginato che glielo avrebbero detto a scuola. Il preside che lo chiamava: “È successa una disgrazia… Mi dispiace tanto…”.

“A te non te ne frega niente, figlio di puttana” gli avrebbe risposto lui, e non avrebbe pianto. Poi avrebbe dato fuoco alla casa e si sarebbe imbarcato su una nave mercantile e in quel posto del cazzo non ci sarebbe mai più tornato.

Mai aveva pensato che sarebbe morto nel fango, come un animale.

E non così presto.

Ma è giusto.

Tutto tornava. Aveva cominciato portandosi via sua madre e ora si prendeva pure suo padre.

Non devo piangere, però.

Avrebbe voluto tirarlo fuori dal fango. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma era come paralizzato. Come se fosse stato morso da un cobra. Spalancò la bocca e cercò di sputare fuori quella cosa che gli impediva di respirare.

Continuava a guardarlo perché non ci poteva credere, non ci poteva proprio credere, che quel morto lì fosse Rino Zena, suo padre.

Cristiano finalmente fece un passo in avanti. Il cono di luce della torcia illuminò uno spicchio di fronte immerso nella melma grigia, il naso, gli occhi schizzati di terra. La schiuma al lato della bocca.

Strinse la torcia tra i denti e con tutte e due le mani afferrò il polso di suo padre cercando di tirarlo su.

Il corpo inerme di Rino Zena si piegò lentamente da un lato e si poggiò di fianco su una grossa roccia ricoperta di muschio. La testa gli si piegò sul petto e le braccia gli si spalancarono come le ali di un piccione morto. La pioggia gli grondava sulla fronte e sulle sopracciglia incrostate di terra.

Cristiano avvicinò l’orecchio al petto del padre.

Non riusciva a sentire niente. Il sangue che gli pulsava nei timpani e il rumore della pioggia che cadeva sugli alberi coprivano tutto.

Rimase lì inginocchiato continuando ad asciugarsi la faccia con la mano, non sapendo cosa fare, poi, dopo un attimo di esitazione, tirò su la testa di suo padre e con l’indice gli sollevò una palpebra schiudendo un occhio vitreo come quello di un animale impagliato.

Raccolse il telefonino da dentro la pozzanghera.

Provò ad accenderlo. Fottuto. Se lo mise in tasca.

Così, tutto storto, suo padre non poteva stare.

Lo afferrò per le spalle e cercò di metterlo seduto.

Ma non ci voleva rimanere. Cristiano lo metteva dritto, ma appena lo lasciava quello piano piano si 166

riaccasciava giù.

Alla fine piantò un bastone a terra e glielo infilò sotto un’ascella.

Ma che cosa ci è venuto a fare qua? Perché ha abbandonato il furgone ed è entrato nel bosco?

Doveva essersi sentito male. Aveva avuto il malditesta tutto il giorno. Doveva aver preso il furgone e forse voleva andare all’ospedale.

Per questa strada si va all’ospedale?

Non ne aveva idea.

Ma poi stava troppo male e non ce l’aveva fatta ed era sceso dal furgone ed era andato a morire nel bosco.

Come un lupo.

I lupi quando stanno male lasciano il branco e se ne vanno per conto loro a morire.

«Perché non mi hai svegliato, bastardo?» gli chiese e diede un calcio al bastone e suo padre ricadde nel fango.

Doveva portarlo via. L’unico modo era prenderlo per i piedi e trascinarlo fino alla strada.

Lo acchiappò per le caviglie e cominciò a tirarlo, ma lo mollò di colpo, come se si fosse preso una scossa.

Per un istante gli era sembrato che un fremito avesse attraversato le gambe di suo padre.

Cristiano lasciò cadere la torcia, si buttò a terra e prese a tastargli freneticamente le cosce, le braccia e il petto, a scrollargli la testa che ciondolava a destra e a sinistra.

Me lo sono immaginato?

Gli poggiò le mani sul torace provando a spingere e a ripetere «Uno, due, tre» come aveva visto fare nelle puntate di ER.

Non sapeva come si facesse e a cosa servisse esattamente, ma continuò per un sacco di tempo non ottenendo nessuna reazione se non quella di sentire i muscoli delle proprie braccia indurirsi come marmo.

Cristiano non ce la faceva più, era bagnato e mezzo assiderato. Improvvisamente tutta la stanchezza e l’angoscia accumulata lo annientarono e crollò sul petto di suo padre.

Doveva dormire. Bastava poco. Cinque minuti.

E poi l’avrebbe portato fino al furgone.

Si accucciò a terra accanto al cadavere. Il freddo non passava. Cominciò ad abbracciarsi, a stringere le braccia al petto per far cessare il tremito, a strofinarsi le spalle cercando di scaldarsi.

Prese dalla tasca il cellulare, ma non si accendeva.

Forse posso lasciarlo qui.

Meglio in un bosco che in un cimitero di merda, accanto a una manica di sconosciuti…

Si sarebbe decomposto in concime. Niente preti, chiese, funerali.

La torcia, a terra, disegnava un ovale luminoso su un tappeto di foglie morte, di ramoscelli, sul moncone di un tronco su cui cresceva un gruppo di funghi con lo stelo allungato e sulla mano di suo padre.

Cristiano si ricordò di una volta che Rino in mezzo a un ponte aveva accostato la macchina ed era salito in piedi sul parapetto. Sotto scorreva il fiume, ingolfandosi tra le rocce che spuntavano tra i gorghi.

Poi si era messo a camminare tenendo le braccia larghe come fanno gli acrobati al circo.

Cristiano era sceso dalla macchina e aveva cominciato a seguire suo padre sul marciapiede. Non sapeva che fare. L’unica cosa che riusciva a fare era camminargli accanto.

Le macchine passavano sulla strada, ma nessuno si fermava.

Rino senza guardarlo gli aveva detto: «Se speri che 167

qualcuno si fermi e mi faccia scendere stai fresco. Solo nei film succedono queste cose». Aveva guardato Cristiano. «Non mi dire che hai paura che casco?»

Cristiano aveva fatto segno di sì con la testa. Avrebbe voluto afferrargli un piede e tirarlo giù, ma se invece lo faceva cadere di sotto?

«Io non posso cadere.»

«Perché?»

«Perché so il segreto per non cadere.»

«E qual è?»

«E lo vado a dire a un moccioso come te? Devi scoprirlo da solo. Io l’ho scoperto da solo.»

«Dai, papà, ti prego, dimmelo!» si era lagnato Cristiano.

Gli faceva male la pancia come se avesse mangiato troppo gelato.

«Dimmi una cosa, invece. Se cado e muoio ci vai sulla mia tomba a pregare per tuo padre?»

«Sì. Tutti i giorni.»

«E i fiori me li porti?»

«Certo.»

«E chi te li dà i soldi per comprarli?»

Cristiano ci aveva pensato un po’ su. «Quattro Formaggi.»

«Stai a posto… Quello è un morto di fame…»

«Allora li prendo dalle altre tombe.»

Rino era scoppiato a ridere ed era saltato giù dal parapetto. Cristiano aveva sentito che il dolore alla pancia spariva. Poi suo padre lo aveva preso in braccio e se l’era caricato su una spalla a mo’ di sacco.

«Non ci provare. Io dal cielo ti vedo, da lassù non mi scappa niente…»

Tornando a casa Cristiano aveva cominciato a chiedere un milione di cose sulla vita e sulla morte.

Scoprire il segreto per non cadere dal ponte era diventata improvvisamente la cosa più importante per lui. E con l’ostinazione di un bambino di otto anni aveva continuato a martellare il padre fino a quando una mattina, mentre erano stesi sul divano, Rino non ce l’aveva fatta più. «Vuoi sapere il segreto?

Te lo dico ma tu non lo devi dire a nessuno. Promesso?»

«Promesso.»

«Semplice: io non ho paura di morire. Solo chi ha paura muore facendo stronzate come camminare su un ponte. Se a te di morire non te ne frega niente puoi stare tranquillo che non cadi. La morte se la piglia con i paurosi. E poi io non posso morire. Almeno fino a quando non lo deciderà il Signore. Non ti preoccupare, il Signore non vuole che ti lascio solo.

Io e te siamo una cosa sola. Io ho te e tu hai me.

Non c’è nessun altro. E quindi Dio non ci dividerà mai.»

Cristiano, accucciato nel fango, prese la mano di suo padre e sospirò: «Perché allora te lo sei preso?

Spiegami, perché?».

172.

Beppe Trecca, seduto nella Puma, era ancora fermo al lato della strada e guardava i tergicristalli che si affaticavano ad asciugare il vetro.

Non riusciva ad andarsene.

Pensava a sua madre.

“Non ti preoccupare per me, Giuseppe. Vai. Vai…” Così gli aveva detto Evelina Trecca dal letto di una corsia del Gemelli di Roma.

Lui le era seduto accanto e non la riconosceva più, era così rinsecchita… Il cancro se la stava succhiando.

Come Dio Comanda
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