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98.
Fabiana Ponticelli non ebbe nemmeno il tempo di premere il tasto dell’accensione del suo cellulare che sentì la terra sparirle sotto i piedi e si ritrovò a cadere a bocca aperta e finì giù colpendo l’asfalto con il mento, un’anca e un ginocchio.
Non capì neanche che cosa le fosse successo e pensò di essere scivolata da sola e fece per rimettersi in piedi, ma si accorse che qualcosa le impediva di alzarsi.
Quando vide una mano scura intorno alla sua caviglia, il cuore, come un idrante, le esplose nel petto e le uscì un gridolino strozzato.
È una trappola! Non si è fatto niente!
Fabiana provò a liberarsi, ma la paura le aveva strappato via il fiato per respirare. Boccheggiando cercò di sollevarsi sulle braccia, di allontanarsi in qualche modo, ma l’unica cosa che ottenne fu di spellarsi i palmi delle mani e i gomiti sull’asfalto. Allora cominciò a scalciare con la gamba libera. Colpì l’uomo sulle spalle e sul casco senza ottenere nulla, quello se ne stava steso a terra avvinghiato alla sua caviglia: incassava i calci come un sacco di patate e non mollava, il bastardo, non mollava.
Colpiscilo sulla mano.
E così fece.
Una, due, tre volte, e alla fine sentì la morsa che si allentava. Un altro colpo proprio su quelle grosse dita e fu libera.
Scattò in piedi, ma l’uomo le arrivò addosso con tutto il proprio peso, afferrandole le cosce come un giocatore di rugby e facendola crollare di nuovo.
Fabiana, a quel punto, cominciò ad agitarsi come se avesse una crisi epilettica, a strillare, a tirare pugni scomposti, ma la gran parte dei colpi finivano a vuoto o sul casco senza fargli niente. «Lasciami! Bastardo, lasciami!»
«No, non urlare! Non urlare, ti prego! Non voglio farti niente!» Le sembrava di sentire la voce soffocata dell’uomo nel casco.
«Lasciami, pezzo di merda!» Fabiana si guardò intorno.
Se solo avesse avuto un bastone, una pietra, qualcosa, ma era circondata da asfalto e nient’altro, allora si piegò e con tutte le forze che aveva allungò il braccio verso il Boxer sdraiato in mezzo alla strada.
Trascinandosi a forza sui gomiti riuscì ad attaccarsi allo specchietto retrovisore e cominciò a tirare per liberarsi dalla stretta dell’uomo, ma lo specchietto con tutta l’asta si spezzò.
Fabiana si girò e urlando glielo piantò nella spalla.
L’uomo guaendo le mollò una gomitata che la colpì in pieno sul naso. La cartilagine del setto nasale le si schiantò con un rumore secco e lei sul momento non sentì niente, satura com’era d’adrenalina, ma il collo le si piegò indietro con un brutto stock e poi un liquido denso cominciò a colarle dalle narici mischiandosi con le lacrime e la pioggia.
Spalancò la bocca e prese a sputare fiotti di sangue e a tentare di ingoiare aria.
99.
(Cos’hai fatto?)
Giuro che non volevo farle male…
Quattro Formaggi in ginocchio si strappò dalla 114
spalla lo specchietto retrovisore e lo buttò a terra.
Il dolore gli aveva annebbiato la vista, quando ci vide di nuovo si accorse che Ramona rantolava a bocca aperta e che sputava sangue con una maschera di terrore dipinta in faccia.
Stava per sfilarsi il casco ma poi…
(Non ti deve vedere.)
… ci ripensò. Tirò fuori dalla tasca la torcia e l’accese.
Gliela puntò addosso.
Sta male. Non respira.
«Aspetta… Aspetta che ti aiuto…»
Ramona era piegata su se stessa, ma quando provò a toccarla si rialzò e cominciò a ciondolare, piegata in due, cercando di respirare. Dalla bocca le usciva un suono orribile.
Quattro Formaggi si infilò le mani nel casco e prese a mordersi le dita.
100.
Era finita nelle tenebre e stava morendo.
Se i suoi polmoni non si decidevano a funzionare sarebbe morta soffocata, di questo era sicura.
Fabiana Ponticelli riusciva ancora a pensare e sapeva che doveva calmarsi, perché più si agitava e più ossigeno consumava. Si fermò, a bocca aperta, aspettando che un miracolo le rimettesse in moto i polmoni. E il miracolo, che non era un miracolo ma solo il suo diaframma paralizzato che si rilassava, avvenne, e la gabbia toracica riprese a espandersi e a contrarsi per conto suo, senza che se ne dovesse più occupare.
Un sottile filo d’aria gelata fu risucchiato all’interno della trachea e da lì attraverso i bronchi nei polmoni compressi, come quando si apre una confezione di caffè sottovuoto.
Cominciò a sputare e a ingoiare aria e a tossire tremando, senza curarsi della luce che l’accecava e dell’uomo che ci stava dietro.
I suoni, intorno a lei, si erano amalgamati e le sembrava di avere nella testa il reattore di un aereo che pulsava, ma nonostante questo frastuono sentiva l’uomo che ripeteva come un disco rotto: «Scusami, ti prego! Non ti volevo fare male! Scusami, fammi vedere».
Si sta avvicinando.
Fabiana si rialzò e provò a scappare, ma appena mosse la testa fu sopraffatta dal dolore, era come se le avessero infilato una lama tra la clavicola e il collo.
A occhi chiusi zoppicò verso il centro della strada, sollevando un braccio e sperando che qualcuno passasse.
Ora! Ora doveva arrivare il suo salvatore. Ora era perfetto. Doveva scendere da una macchina e sparare nello stomaco a quel figlio di puttana, così poi lei sarebbe potuta svenire in pace.
101.
Quattro Formaggi osservava Ramona che muoveva qualche passo, tutta storta e con quel braccio sollevato come se volesse chiamare un taxi, e poi la vide inciampare sullo Scarabeo e cadere giù a braccia e gambe larghe come Willy il Coyote.
Poverina, doveva essersi fatta male.
Ma lui non riusciva più a raccapezzarsi. Da una parte gli faceva tanta pena, gli dispiaceva, ma dall’altra 115
provava piacere nel vederla soffrire. Era una bella sensazione. Si sentiva un leone e avrebbe potuto battersi con chiunque. L’uccello gli si stava indurendo e gli premeva contro la pancia.
Con la mano sulla spalla ferita si avvicinò alla ragazza che era ancora a terra e muoveva le gambe e la testa come un pallido drago d’acqua.
102.
Fabiana Ponticelli non aveva visto il suo motorino e ci aveva sbattuto contro ed era caduta.
Il braccio doveva esserle uscito dalla spalla. Quel braccio lussato in settimana bianca ad Andalo, che un milione di volte suo padre le aveva detto che bisognava operare, «se no cosa pago a fare l’assicurazione contro gli infortuni? È una operazione semplicissima, in due giorni sei di nuovo a posto. Se non la fai ti può uscire di nuovo in situazioni spiacevoli».
Situ…azio… spiacevo…li, ripeteva il suo cervello mentre lei provava a rimettersi in piedi.
Era un dolore che superava di gran lunga quello al naso. Una corrente elettrica le scorreva nei muscoli del braccio e della spalla arrotolandoglieli come una corda.
Perché non svengo?
(Perché te lo devi rimettere dentro.) Impedendosi di vomitare si afferrò con la mano sinistra il braccio destro, proprio sotto l’ascella, e tirò.
Non successe niente.
Ancora.
Tirò di nuovo il braccio, ma più forte e verso il basso, e come per magia la corrente elettrica si spense e, incredibile, per la prima volta da quando aveva deciso di fermarsi ad aiutare il figlio di puttana una sensazione di benessere le invase il corpo.
Brava. Brava. Adesso stai bene. Puoi farcela. Aspetta che si avvicini.
Attraverso le palpebre chiuse percepiva la luce che la illuminava.
Aspetta.
103.
Quattro Formaggi si avvicinò e l’afferrò per una gamba e la trascinò verso il bordo della strada. Sembrava svenuta, ma ogni tanto schiudeva le palpebre per capire cosa stava succedendo.
La tirò a fatica fino al guardrail e prese fiato quando lei, con uno scatto improvviso, fece partire un calcio che lo colpì tra le gambe.
Quattro Formaggi spiccò un salto indietro come se un essere invisibile lo avesse spinto via e cominciò a stringersi il ventre, poi uno spruzzo giallo di bile gli uscì dal casco e mentre vomitava si accorse che la stronza si era rialzata e stava scappando.
104.
L’uomo con il casco la raggiunse e la colpì in faccia con il rovescio della mano, facendole fare una mezza piroetta sgraziata, e Fabiana Ponticelli volò indietro, rigida come un manichino, e sbatté con l’anca sinistra contro il guardrail, atterrò su uno zigomo e poi con il resto del corpo sopra un tappeto di sacchetti di plastica, carta e foglie bagnate, mentre le caviglie le sbattevano 116
contro la base di cemento della barriera metallica.
Sapeva che doveva rialzarsi subito, immediatamente, e che doveva mettersi a correre e scappare perché era chiaro che l’uomo con il casco stava per farle qualcosa, qualcosa di molto brutto, eppure il suo corpo si rifiutava di ubbidirle. Di sua volontà si era arrotolato su se stesso. Le mani le avevano stretto le ginocchia e la testa le si era adagiata contro una spalla.
(Almeno apri gli occhi, guarda dov’è.) La voce di suo padre.
Non posso.
(Lascialo fare! Meglio stuprata che stuprata e ammazzata di botte) le suggerì Esmeralda, che come al solito non usava mezzi termini.
Ha ragione Esme, papà. Mi violenterà e mi lascerà qui.
Eppure dentro di lei c’era una parte più resistente e caparbia che le diceva di non mollare. Perché non era giusto.
Cominciò a piangere, in silenzio, scossa dai singhiozzi, maledicendosi per essersi fermata. Se avesse saputo che razza di bastardo era, gli sarebbe passata sopra con il motorino.
Un rumore metallico la riportò alla realtà.
Che sta facendo?
Ma aveva gli occhi pesti e anche se li apriva era sommersa dal buio e non vedeva niente, ma ci sentiva ancora e quello che sentì le diede un po’ di speranza.
Il tipo stava armeggiando con il suo motorino.
Vuole solo prendermi lo Scarabeo.
L’aveva picchiata per rubarle uno stupido motorino.
Bastava che glielo chiedesse.
Prendilo. È tutto tuo. Basta che non mi fai male.
Doveva solo aspettare. Buona buona. E tutto sarebbe passato.
105.
Quattro Formaggi prese lo Scarabeo e lo spinse verso la cabina dell’elettricità.
Quando aveva visto Ramona girare su se stessa e sbattere contro il guardrail e cadere a terra di testa si era preso uno spavento terribile.
L’aveva ammazzata con uno schiaffo? Possibile?
L’aveva osservata attentamente e aveva visto che respirava ancora, accoccolata sotto la pioggia. Indifesa e bagnata come un girino quando lo tiri fuori dall’acqua.
(Ora è tua. Puoi farci quello che vuoi. Però devi portarla nel bosco così se passa qualcuno…) Nascose lo Scarabeo e il Boxer dietro la cabina dell’Enel, poi andò a controllare se qualcuno, passando in macchina, li poteva vedere.
106.
Che strano, nonostante il sangue che le otturava le narici a Fabiana Ponticelli sembrava di sentire odore di funghi.
Non di funghi cotti. Ma di quelli freschi che tiri fuori dalla terra umida con due dita, attenta a non spezzarli.
Questo è il posto dei funghi.
Si ricordò che proprio da lì, da quello spiazzo, quando era piccola si partiva per la passeggiata dei 117
finferli. Lasciavano la vecchia Saab con il tettuccio rattoppato accanto alla casetta dell’Enel e s’inoltravano nel bosco alla ricerca dei finferli, i piccoli funghi gialli che nel risotto…
Si rivedeva bambina, con suo fratello Vincenzo sul passeggino, sua mamma con i capelli lunghi tenuti insieme in una coda di cavallo come in quella fotografia appesa nell’ingresso, con suo padre che aveva ancora i baffi e lei con il piumino rosso e il cappello di lana… Tutti insieme uscivano dalla macchina con i cestini per i funghi e papà l’afferrava sotto le ascelle e opplà le faceva saltare il guardrail e lei diceva: «Io lo so fare da sola» e si arrampicava su quella lunga fascia di ferro e le sembrò di vederli tutti e quattro che le passavano accanto quasi senza guardarla, come si fa con la carcassa di un cane investito e poi entravano nel bosco e suo padre li fermava: «Chi ne prende di più è il vincitore».
Nel risotto i finferli sono meglio dei porcini.
Qualche giorno fa mamma ha fatto il risotto. Ma era con i porcini. No, era…
Un rumore.
Allora non se ne andato.
Fabiana schiuse un occhio tumefatto. Una luce.
L’uomo con il casco era in mezzo alla strada con la torcia in mano e correva da una parte all’altra.
(Fabi, devi scappare.)
Doveva solo trovare la forza di mettersi in piedi, ma ora non credeva proprio di potercela fare. Era come se il dolore le circolasse da una parte all’altra del corpo, attraverso le ossa, i muscoli e le viscere, e ogni tanto si fermava e affondava gli artigli.
// bosco è grande e buio e ti puoi nascondere.
Se fosse stata bene, se quel figlio di puttana fosse stato leale e non le avesse preparato una trappola, non avrebbe mai potuto prenderla.
Ho vinto per tre anni la maratona.
Fabiana, la scheggia. Così mi chiamavano… La scheggia.
(Se ora ti alzi ed entri nel bosco diventi invisibile.) (ALZATI!)
(ALZATI!)
Strinse i denti e i pugni e lentamente si mise in ginocchio, il braccio destro tutto indolenzito. Nell’osso della caviglia le sembrava di avere dei cocci di vetro.
(ALZATI!)
A occhi chiusi si rimise in piedi senza nemmeno guardare dov’era il bastardo e si avviò verso il bosco, verso le tenebre che l’avrebbero nascosta e protetta. Il dolore intanto le si era spostato in faccia, non la lasciava nemmeno per un passo e…
Basta stringere i denti.
… ogni volta che inspirava l’aria fredda era come ricevere un altro schiaffo…
Sarò un mostro. Ma poi passa. Torni normale. Ho visto alla tele una dopo un’operazione…
Non vedeva niente, ma non c’era pericolo perché Dio l’avrebbe aiutata a trovare la strada e a non inciampare e a non cadere e a trovare un buco dove sparire.
Era salva, era nel bosco. I rami le frustavano la giacca e le spine cercavano di fermarla, ma oramai era lontana, sola, nel buio, camminava sopra un sacco di sassi, di rocce, di tronchi e non cadeva e questo era Dio.
107.
Danilo Aprea dormiva seduto davanti alla televisione 118
accesa. Assomigliava alla statua del faraone Chefren. In una mano la bottiglia di Cynar vuota e nell’altra il cellulare.
108.
A circa otto chilometri dalla casa di Danilo, Rino Zena si risvegliò nel vecchio sacco a pelo mimetico. Una bomba atomica gli era esplosa nel cranio. Schiuse le palpebre, la tv sembrava la tavolozza di un pittore e una manica di teste di cazzo blateravano di pensioni e diritti dei lavoratori.
Era tardissimo. Quei due non sarebbero più venuti.
Rino si tirò il sacco a pelo sopra il naso e pensò che il vecchio Quattro Formaggi era un grande. Aveva staccato il cellulare e chi si è visto si è visto.
«Grazie, Quattro.» Sbadigliò, si mise su un fianco e chiuse gli occhi.
109.
Perfetto. Così i motorini non si vedono.
Quattro Formaggi si girò contento verso Ramona e…
Dov’è?
… non c’era più.
Doveva essere solo un’impressione, era troppo buio. Cominciò a camminare sempre più veloce, a correre fino al punto dove era caduta.
«Dove sei?» mugolò disperato.
Correva avanti e indietro per lo spiazzo e poi continuava a tornare incredulo accanto al guardrail, dove Ramona stava fino a un trenta secondi prima.
Guardò a lungo la massa nera del bosco che incombeva sulla strada. No, non poteva essere entrata in quell’intrico di rovi.
(Vai a vedere. Che aspetti? Dove altro può essere andata?) Scavalcò il guardrail e si inoltrò nel bosco facendosi luce con la torcia.
Fatti nemmeno dieci metri la vide. Si poggiò contro un tronco e tirò un sospiro di sollievo.
Era lì, che avanzava a braccia tese e a occhi chiusi tra gli alberi come se giocasse a mosca cieca.
Quattro Formaggi le si avvicinò attento a non far rumore, la torcia puntata a terra. Allungò una mano, stava per toccarle una spalla, ma poi si fermò a guardarla.
Era coraggiosa. Qualsiasi altra scemetta non sarebbe mai entrata da sola nel bosco. Sarebbe rimasta per terra a piangere. Era una che non mollava.
“Dai, buttiamolo nel fiume!”
Quattro Formaggi aveva dodici anni, e si trascinava lungo il greto del fiume su un letto di pietre appuntite.
Gli stavano addosso. Gli avevano spento una sigaretta sul collo e l’avevano preso a calci e a sassate. Poi in due lo avevano afferrato per le gambe e lo tiravano verso l’acqua, ma lui non mollava e si aggrappava ai sassi, ai rami sbiancati dal fiume, alle canne. In silenzio, stringendo i denti, non si arrendeva.
Anche lui teneva gli occhi chiusi e non mollava, ma a occhi chiusi era stato preso e buttato in acqua e trascinato via dalla corrente.
Siamo uguali.
Quattro Formaggi la spinse a terra.
110.