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Il volto, segnato dalle ombre, era ridotto a un teschio.
Sembrava che qualcosa, dentro la mente di Quattro Formaggi, fosse andato in cortocircuito come a certi malati di mente dopo un intervento di lobotomia.
Non pareva nemmeno lui.
«Dove sono? Dove cazzo sono?» Rino prese a puntare la pistola intorno, sicuro che fossero lì, nascosti da qualche parte, nel buio. «Uscite fuori, figli di puttana.
Prendetevela con me!» Poi si piegò, sempre con la pistola puntata in avanti, e afferrò Quattro Formaggi per un braccio e provò a tirarlo su, ma sembrava piantato nella terra. «Forza! Alzati. Dobbiamo andare via di qua.» Alla fine, facendo una fatica terribile, lo mise in piedi. «Ci sono io. Non ti preoccupare.» Lo stava per trascinare quando si accorse che aveva l’uccello fuori dai pantaloni.
«Ma che caz…?»
«Non volevo. Non volevo. Non l’ho fatto apposta»
balbettò Quattro Formaggi e cominciò a piangere.
«Scusami.»
Rino provò la sensazione che qualcuno gli avesse aperto la pancia con una coltellata e nello stesso tempo gli avesse spinto un calzino giù per la trachea.
Mollò Quattro Formaggi che si afflosciò a terra, fece due passi indietro e capì di essersi sbagliato. Terribilmente sbagliato.
Lo Scarabeo è di quella ragazzina… La compagna di scuola di Cristiano… L’adesivo con la faccia.
Fu sopraffatto dalla consapevolezza agghiacciante che Quattro Formaggi alla fine era esploso. E aveva fatto qualcosa di molto brutto.
Perché Rino sapeva che la favola che si diceva in giro che Quattro Formaggi non avrebbe mai fatto male a una mosca era una stronzata grossa quanto quella che avrebbero abbassato le tasse.
Ogni giorno c’era qualcuno che in un modo o nell’altro si pigliava la briga di prenderlo per il culo, che lo imitava, che gli dava meno zuppa alla mensa, che lo faceva sentire un idiota, e lui non se la prendeva, sorrideva, e tutti a dire che Quattro Formaggi era superiore.
Superiore un cazzo!
Quel sorriso a mezza bocca che gli usciva dopo che qualcuno gli aveva fatto il verso e lo aveva chiamato spastico non era il segno che Quattro Formaggi era un santo, ma che l’insulto aveva fatto centro, aveva bucato una parte sensibile e il dolore andava a ingrossare una parte del suo cervello dove pulsava qualcosa di infetto, di storto. E un giorno o l’altro, presto o tardi, quella roba cattiva si sarebbe risvegliata.
Un milione di volte Rino lo aveva pensato e un milione di volte si era detto che sperava di sbagliarsi.
Dovette farsi forza per riuscire a parlargli. Era come se avesse preso un cazzotto in pieno stomaco.
«Che hai fatto? Che cazzo hai fatto?» Si girò sul sentiero coperto di foglie e fece pochi passi e la luce gialla della torcia che aveva sulla fronte scivolò sul cadavere di Fabiana allungato in mezzo al sentiero. La testa fracassata da una pietra.
«Una ragazzina… Hai ammazzato una ragazzina.»
121.
Il telefono continuava a squillare.
Metto giù…
(No. Aspetta almeno altri…)
«Pronto?»
Danilo Aprea fece uno sbuffo e respirò di nuovo.
Aveva la bocca asciutta e la lingua intorpidita. «Teresa, 129
sono io.»
Un infinito istante di silenzio.
«Danilo, che cosa vuoi?» Nel tono della voce non c’era rabbia, ma qualcosa di peggiore, che fece immediatamente maledire a Danilo di aver chiamato. C’erano avvilimento e rassegnazione. Come un contadino che ha accettato la sciagurata sorte che di tanto in tanto una volpe gli entri nel pollaio e divori le galline.
«Ascolta. Ti devo parlare…»
«Sei ubriaco.»
Cercò di sembrare offeso, quasi oltraggiato, da quella bassa insinuazione: «Perché dici così?».
«Basta sentirti.»
«Ti sbagli. Non ho bevuto un goccio. Non è giusto che ogni volta pensi…»
«Mi avevi giurato che non mi avresti chiamato…
Sai che ore sono?»
«È tardi, lo so, ma è importante, non sono matto, se no non ti avrei mai chiamato. È molto importante.
Asco…»
Teresa lo interruppe: «No, Danilo, ascoltami tu. Io non posso staccare il telefono, la madre di Piero è grave all’ospedale e tu lo sai».
Cazzo, me n’ero dimenticato.
«Lo sai benissimo, Danilo. Ogni volta che il telefono suona ci prende un colpo. Piero è di là. E avrà già capito che sei tu. Tu mi devi lasciare in pace. Che cosa devo fare per…»
Riuscì a interromperla: «Scusami, Teresa. Scusami.
Hai ragione. Perdonami. Ma ho una sorpresa incredibile per il nostro futuro. Una cosa che devi assolutamente sentire…».
Ora fu lei a interromperlo: «Ma di quale futuro stai parlando? Sei tu che mi devi ascoltare. Ed è meglio che mi ascolti molto bene. Quindi sturati le orecchie». La donna prese un respiro: «Sono incinta, Danilo. Aspetto un figlio da Piero. Da tre mesi. Te ne devi fare una ragione. Io non voglio tornare con te, io non ti amo. Io amo Piero. Laura è morta, Danilo.
Dobbiamo farcene una ragione. Io voglio essere felice e Piero mi rende felice. Voglio ricostruirmi una famiglia.
E tu continui a tormentarmi, a chiamarmi la notte! Sarò costretta ad andare alla polizia. E se non basta partirò, sparirò. Se mi ami, come ripeti sempre, mi devi lasciare in pace. Quindi ti imploro, ti scongiuro di lasciarci in pace. Se non lo vuoi fare per me, fallo per te. Dimenticami. Ricomincia a vivere.
Addio».
Click.
122.
È morta.
Erano passati almeno cinque minuti da quando Ida si era chiusa nel gabinetto.
Poteva anche essere svenuta per la puzza.
Beppe Trecca, preoccupato, avvicinò l’orecchio alla porta. Non si sentiva niente, colpa del fracasso della pioggia e dell’ululare del vento che scuoteva il camper.
Si era preparato un discorso chiaro, semplice, per farle capire che quella storia era sbagliata.
Si schiarì la voce. «Ida…? Ida, ci sei?»
La porta si aprì e Ida Lo Vino uscì pallida come un fantasma.
Lui deglutì. «C’era un po’ di puzza?»
Lei fece segno di sì e aggiunse: «Beppe, ti amo. Ti amo da morire». E gli infilò la lingua in bocca.