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La prima pagina del quotidiano locale era occupata da una foto dei campi coperti dalle acque presa dall’elicottero. Il Forgese aveva rotto gli argini qualche chilometro più su di Murelle ed era straripato allagando capannoni e cascine. In un’azienda vinicola un gruppo di albanesi che dormivano dentro una cantina avevano rischiato di morire affogati. Un ragazzo su una canoa aveva salvato un’intera famiglia.
Fortunatamente non c’erano state vittime tranne un certo Danilo Aprea di quarantacinque anni che, in stato di ebbrezza o per un improvviso malore, aveva perso il controllo della vettura ed era andato a sbattere a tutta velocità contro un muro di via Enrico Fermi a Varrano ed era deceduto.
183.
Il professor Brolli era piegato su un tavolino del bar dell’ospedale del Sacro Cuore e si beveva in silenzio un cappuccino, osservando il sole stinto che si scioglieva come un tocco di burro al centro del cielo grigio.
Era un uomo con il busto corto, un collo sproporzionato e degli arti lunghi dei quali sembrava non sapesse bene cosa fare.
La sua strana conformazione fisica gli era valsa una sfilza di soprannomi: il fenicottero, grissino, tiraemolla, l’avvoltoio (certamente il più azzeccato per via di quei quattro peli che aveva in testa e perché operava spesso mezzi cadaveri). Ma l’unico soprannome che amava era “Carla”. Da Carla Fracci. Lo chiamavano così per la grazia e la precisione quasi coreografiche che aveva quando teneva un bisturi in mano.
Enrico Brolli era nato a Siracusa nel 1950, e ora, a cinquantasei anni, era il primario di Neurochirurgia del Sacro Cuore.
Era stanco. Aveva tenuto per quattro ore le mani nel cranio di un povero cristo che era arrivato con un’emorragia cerebrale. Lo avevano acciuffato per i capelli. Mezzora in più e grazie e arrivederci.
Mentre finiva il cappuccino pensò a sua moglie Marilena che probabilmente lo stava già aspettando fuori dall’ospedale.
Aveva il resto della giornata libero e si erano dati appuntamento per andare a comprare un frigorifero nuovo per la casa in montagna.
Brolli era distrutto, ma l’idea di passeggiare per il centro commerciale con sua moglie e poi andare a mangiare un panino in campagna, con i cani, non gli dispiaceva affatto.
Lui e Marilena amavano gli stessi piccoli piaceri.
Passeggiare con Totò e Camilla, i loro due Labrador, dormire il pomeriggio, mangiare presto e starsene a casa, sul divano, a guardare i film in dvd. Con gli anni Enrico aveva smussato i propri angoli per incastrarsi con Marilena come un pignone su una ruota.
Al centro commerciale voleva anche comprare gli ossibuchi per farli insieme al risotto allo zafferano, e poi passare al videonoleggio e affittare Taxi Driver.
Prima dell’operazione, vedendo la faccia scavata del paziente, la testa rasata e tutti quei tatuaggi, gli era venuto in mente Robert De Niro in Taxi Driver, e avrebbe messo la mano sul fuoco che quel disgraziato era conciato a quel modo per una rissa. Ma poi, aprendogli il cranio, aveva scoperto che c’era un’emorragia subaracnoidea dovuta alla rottura di un aneurisma, probabilmente di origine congenita.