10

Sulla porta dell’appartamento aveva trovato ad aspettarlo la signora Arosio in camicia da notte di raso viola.

Era una pezzo di femmina, sui quaranta, con una permanente color leone, due enormi tette parzialmente nascoste dalla camicia da notte, i fianchi stretti e un culo che sembrava una portaerei. Aveva una faccia tonda come un Super Tele, un nasino piccolo, troppo perfetto per essere quello che le aveva dato sua madre, gli occhi pitturati con l’ombretto celeste e le labbra gonfie e luccicanti da cui facevano capolino gli incisivi leggermente separati.

Rino l’aveva vista passeggiare per il corso, in estate e in inverno, con delle scollature esagerate sulle fettone abbrustolite dalle lampade uva, ma non sapeva che quel puttanone fosse la moglie di Arosio.

Mentre lui si dava da fare con viti e bulloni, la donna si era seduta in modo che tutto il ben di Dio che aveva davanti fosse in bella mostra e continuava a dire che i muscoli fatti sul lavoro sono molto più belli di quelli pompati in palestra. E poi che cos’erano tutti quei tatuaggi? Cosa significavano? Anche lei ne voleva uno, uno scoiattolo…

A Rino gli era venuto duro e faticava a seguire le istruzioni sotto quello sguardo affamato.

Dopo la scrivaniola, la lavagnetta e l’armadio aveva montato il letto a castello.

«Lo ha stretto bene? Non vorrei che si aprisse… Sa, mio figlio Aldo è leggermente obeso. Mi faccia un favore, ci salga sopra. Lo provi.»

Rino era salito e aveva iniziato a saltarci. «Mi sembra che vada bene.»

La donna aveva scosso la testa. «Lei però è troppo leggero. Per essere sicura al cento per cento ci monto anch’io. Così siamo in una botte di ferro.»

Mezzora dopo il letto aveva ceduto di schianto e la signora Arosio precipitando si era rotta un polso e aveva fatto causa al mobilificio.

Rino aveva giurato a Castardin di non essersela scopata.

E in effetti, tecnicamente, aveva ragione. Non c’era ancora stata penetrazione quando il letto si era sfondato.

Lei stava carponi, con la faccia affondata nel cuscino, la sottana sollevata, e Rino l’afferrava per i capelli come gli indiani tengono i loro destrieri e le stampava delle gran manate rosse sulle chiappe proprio come sui cavalli apache.

In quel momento il letto aveva ceduto.

Rino Zena aveva perso il posto.

E aveva giurato di fargliela pagare, al vecchio Castardin.

8.

Cristiano Zena si stese e mirò alla testa. Prese un bel respiro e sparò. L’animale fece un sussulto leggero, un breve guaito e rimase immobile.

Sollevò il pugno. «Al primo colpo!»

Con un salto scese dalla pila di assi e, dopo aver guardato che non passassero macchine, si avvicinò lentamente tenendo la pistola puntata sulla bestia.

La bocca aperta. La bava. La lingua che pendeva da una parte come una lumaca bluastra. Gli occhi rivoltati e sul collo un buco rosso tra i peli neri e la neve che volteggiava pigra in aria e seppelliva il morto.

Un bastardo del cazzo in meno nel mondo.

Come Dio Comanda
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