120

(Ok, ci siamo. Tranquilla. Non è niente. Rimani immobile.) Era la voce di sua madre. Come quella volta che le avevano messo i punti in fronte dopo la caduta dalla bicicletta e all’ospedale…

(Devi solo lasciarlo fare e poi sarà tutto finito.) Lo sentì che le annaspava tra le gambe, e poi l’afferrava per i capelli urlando.

Via. Pensa a qualcosa. A qualcosa di bello, di lontano.

Via. Pensa a Milano. A quando sarai a Milano all’università.

Alla casetta che hai affittato. È piccola.

Una stanza per me. Un’altra per Esme. Sì, anche Esme.

I poster. I libri sul tavolo. Il computer. Ci sarà il solito disordine. Bisogna tenere in ordine una casa piccola. Nel frigo, chiaramente, non ci sarà nulla. Tra me ed Esme, figurati.

Ma dalla porta si va su un ballatoio pieno di sole e fio…

113.

Il telefonino, a terra, s’illuminò e prese a vibrare e partì la versione polifonica di Va’ pensiero di Giuseppe Verdi.

Rino Zena aprì gli occhi lentamente e ci mise qualche secondo a capire che il cellulare stava squillando sul pavimento.

Sbadigliò e con un gesto stanco afferrò l’apparecchio, sicuro che fosse ancora quello scassacazzi di Danilo, invece sullo schermo c’era la scritta: 4 form.

Rispose sbadigliando: «Sei rimasto a casa?».

Ma come risposta gli arrivò solo un pianto a dirotto.

«Quattro Formaggi?»

Lo sentì tirare su con il naso e riprendere a frignare.

Non poteva essere in casa perché si sentiva il rumore della pioggia.

«Cosa succede?»

Dall’altra parte Quattro Formaggi continuava a piangere disperato.

«Parla! Che c’è?!»

Dopo un po’ lo sentì biascicare, tra i singhiozzi, delle parole confuse. «Oddio… Oddio… Vieni qui…

Subito.»

Rino si mise in piedi. «Dove?! Dimmi dove!»

Quattro Formaggi singhiozzava e non parlava.

«Smettila di piangere! Ascoltami. Dimmi dove sei.»

Rino cominciò a perdere la pazienza. «Fai uno sforzo e, porca puttana, dimmi dove cazzo sei.»

114.

Danilo Aprea si svegliò con un tale sobbalzo che lanciò il telefonino per terra e cominciò a gridare.

Stava sognando di stringere in mano una racchetta da tennis che improvvisamente si era trasformata in un serpente a sonagli.

Il cellulare!

Si alzò di scatto per rispondere, ma dovette tornare a sedersi. La stanza ondeggiava. La sbornia non era passata.

Allungò il braccio e prese da terra il telefonino, strizzò gli occhi cercando inutilmente di focalizzare il display, certo che fosse quel deficiente di Quattro Formaggi.

«Pronto?! Che fine hai fatto?!»

«Sono Rino.»

«Rino…?» In bocca aveva un sapore di topo morto.

«Quattro Formaggi ha avuto un incidente. Gli è 121

successo qualcosa. Piangeva come un disperato. Sto andando da lui.»

Danilo si massaggiò le tempie e fece no con la testa.

Rino gli stava rifilando una cazzata. «Cosa gli è successo?»

«Non lo so.»

«Perché piangeva? Non capisco. Non riesco a capire.»

Potevate inventarvene un’altra.

«Ma mi senti quando parlo?»

Danilo si massaggiò la pancia. «E quindi? Cosa mi stai dicendo? Che il colpo si rimanda?»

«Bravo.»

«A quando?»

Adesso mi dirà che non lo sa.

«Hai capito che Quattro Formaggi ha avuto un incidente?»

Un’esplosione di dolore nelle viscere gli tolse la forza di rispondere a quell’insulto alla sua intelligenza.

Aveva la sensazione che un tappo gli fosse saltato nello stomaco. Esattamente come quando agiti il prosecco.

Solo che invece che vino era rabbia spumeggiante al sapore di Cynar.

Aveva voglia di sfondare tutto. Di prendere a calci la televisione, di buttare giù i muri con un piccone, far esplodere il palazzo, mettersi a capo di una squadriglia di bombardieri e radere al suolo Varrano e tutta la pianura del cazzo, di lanciare la bomba H sull’Italia.

Non riuscì a tenersi: «Ho capito! Ho capito, che ti credi?! Non sono scemo! E vuoi sapere una cosa? Gli sta bene! Gli sta proprio bene, se lo merita. Gli avevo detto di venire qui. Lo avevo anche invitato a cena.

Gli avevo detto di venire qui a farsi uno spaghetto al pomodoro e che poi ci muovevamo insieme. Figurati.

Se veniva qui non gli succedeva nessun incidente.

Ma voi mai che mi date retta! Io sono solo un coglione e voi due gli intelligentoni». Una vocina saggia gli suggerì di piantarla, ma lui non le diede retta. Era così bello sfogarsi. Cominciò a dondolare la testa come un piccione. «Comunque lo sapevo. Lo sapevo benissimo.»

«Cosa?»

«Ho capito, non sono un cretino, cosa credi? Voi non lo volete fare. Ditelo. È tanto semplice. Pure questa storia dell’incidente… “Non lo vogliamo fare, ci caghiamo sotto”, basta dirlo. Non c’è problema. Tranquilli.

È umano. L’avevo capito da un sacco di tempo.

Vi cagate sotto non solo del colpo, ma anche di possedere dei soldi, di cambiare la vostra esistenza di merda, di non rimanere per sempre dei falliti.» Mentre Danilo cacciava fuori la sua rabbia e la sua amarezza la lucina del pericolo cominciò a lampeggiargli nel cervello, ma anche a quella non diede retta. Per una volta in vita sua aveva sciolto i freni al cavallo che scalpitava dentro di lui e non gliene poteva sbattere di meno se quel bastardo bugiardo di Rino Zena s’incazzava.

Anzi, visto che ci si trovava, rincarò la dose:

«In fondo a voi due va bene così. Siete dei morti di fame felici di rigirarvi nella vostra infelicità come maiali…

Certo, mi dispiace per quel povero innocente di Cristiano… Io…».

«Ti sei ubriacato, pezzo di merda che non sei altro!»

lo interruppe Rino.

Danilo s’irrigidì, allungò il collo e gonfiò il petto e, tutto risentito come se l’avessero accusato di pisciare nel lavandino, rispose con un tono offeso: «Sei impazzito?

Ma che stai dicendo?».

«Se noi siamo dei maiali che si rigirano nella merda, 122

tu chi sei? L’alcolizzato figlio di puttana che dovrebbe farci da capo?»

«Ma…» Danilo provò a replicare, a rimetterlo al posto suo, ma dov’era finita la rabbia? La voglia di sfondare tutto? Si erano bruciate insieme alle parole e al coraggio.

Il pomo d’Adamo gli si mosse nella gola.

«La verità, mio caro Danilo, è che sei solo un ubriacone paranoico ed egoista che se ne fotte di tutto e tutti. Se Quattro Formaggi ha un incidente a te non te ne frega niente. Anzi, pensi che è una bugia. Mi fai schifo. Stai lì solo a pensare alla tua cazzo di boutique, alle tue fantasie da grande uomo. Sei solo un povero stronzo che si piange addosso perché è stato abbandonato da una donna che non ce la faceva più a ingoiare la merda di uno stronzo che gli ha…»

Ammazzato la figlia, dillo dai, pensò Danilo.

«… rovinato la vita. Tua moglie ha fatto bene a lasciarti.

Benissimo. E ti do un consiglio. Prova un’altra volta, una volta sola, a dirmi come devo educare mio figlio che… Lasciami stare, Danilo. Lasciami perdere.

Stammi lontano che te la rischi.»

115.

«… Lasciami stare, Danilo. Lasciami perdere. Stammi lontano che te la rischi.» Rino Zena chiuse la conversazione scuotendo la testa, si accese una sigaretta e uscì di casa. «Ma che pezzo di merda…»

Le mani gli prudevano. Se non avesse dovuto correre da Quattro Formaggi sarebbe andato volentieri a fare una visitina al caro vecchio Danilo Aprea per chiarire definitivamente la storia.

Ma qual è la strada più rapida per arrivare al bosco di San Rocco?

Alla fine Quattro Formaggi era riuscito, tra i singhiozzi, a balbettare che stava nel bosco di San Rocco.

Vicino a una cabina dell’Enel.

Ma cosa c’è andato a fare lassù?

Rino stava salendo sul furgone quando improvvisamente ebbe un mancamento, si sentì senza forze, gli sembrò di svenire, la sigaretta gli cadde dalla bocca, le gambe gli si piegarono e finì a terra.

Che cazzo mi succede?

Fece per rimettersi in piedi ma aveva le vertigini.

Rimase lì a lungo, fermo sotto il diluvio, a riprendersi.

Gli tremavano le mani e il cuore gli sbatteva in petto.

Quando si sentì un po’ meglio montò sul Ducato e uscì dal cancello di casa. Il dolore alla testa era così forte che non riusciva nemmeno a decidere se prendere la statale e poi la strada che correva vicino al fiume o passare per la stradina del bosco accanto alla tangenziale.

116.

Danilo Aprea era paralizzato, con il telefonino incollato all’orecchio.

Rino Zena l’aveva minacciato. E una minaccia di quel nazista fuori di testa non era una cosa da prendere alla leggera. Quello lì ti ammazzava senza stare a pensarci troppo.

E soprattutto non dimenticava.

Una volta a un povero cristo che gli aveva tagliato la strada quel criminale gli aveva sfondato tre costole.

Non subito però, dopo sei mesi. Per tutto quel tempo 123

aveva incubato il rodimento di culo e quando un giorno se l’era visto davanti in birreria lo aveva prima atterrato colpendolo con un boccale di birra e poi gli aveva dato un calcio sfondandogli tre costole.

Improvvisamente sentì le viscere pulsargli e lo sfintere anale contrarsi e rilassarsi, mollò il telefono e corse in bagno. Scaricò un fiotto di diarrea e rimase sulla tazza con i gomiti sulle ginocchia e le mani che gli reggevano la fronte bollente.

La sua situazione era troppo incasinata per aggiungerci pure le minacce di morte di Rino Zena.

«Be’, se mi vuoi uccidere uccidimi. Che ti devo dire…»

mormorò. «Io ho solo cercato di farvi diventare ricchi…»

Un altro incubo gli si affacciò alla mente. L’indomani a mezzogiorno circa sarebbero venuti quelli della televendita a portargli il dipinto del pagliaccio scalatore.

«E io cosa gli dico? “Scusatemi, non ho soldi. Il quadro non lo voglio più. Mi sono sbagliato”» recitò in sella al bidet.

Non poteva perdersi così quel capolavoro.

«Comunque io non ho paura di te, caro il mio Rino Zena. Io me ne fotto…» Sollevò un labbro mostrando i denti come un lupo rabbioso e si fece i gargarismi con il collutorio. «Non mi devi cagare il cazzo, capito?!

Stai molto attento a cagare il cazzo a Danilo Aprea!»

Tornò in salotto in mutande e giaccavento. Un sorriso perfido gli si era formato sotto i baffi. Prese a ridere sguaiatamente. «Chi è l’ubriacone? Io sono l’ubriacone?

E allora tu, caro Rino Zena, cosa sei? Un povero nazista alcolizzato? Un fallito? Un relitto umano? Cosa? Decidi tu. Come ti vuoi far chiamare?

Ti prego, dimmelo tu.» Poi cominciò a fare sì con la testa e continuò: «Con me hai chiuso. Non ho paura di te. Avvicinati che ti…» non gli veniva «… stronco.

Ti pentirai amaramente della stronzata che hai fatto.

Allora? Non hai capito con chi hai a che fare!». Si lasciò cadere sul divano e concluse sollevando l’indice verso il soffitto: «A Danilo Aprea non bisogna cagare il cazzo! Mi devo fare una bella maglietta con questa scritta».

117.

Beppe Trecca era certo che Ida non sarebbe più venuta.

Meglio così.

Aveva passato una serata infernale chiuso in quel coso fetente, almeno imparava a fare il cascamorto con la moglie del suo amico.

Basta, doveva tornarsene a casa, mettersi a letto e farsi passare questa smania assurda per Ida Lo Vino.

Quella era solo una tentazione che gli stava bruciando l’anima e che lo avrebbe dannato per sempre.

Ho proprio esagerato.

Doveva scriverle un bel sms e spiegarle che quella storia non poteva più andare avanti per il bene di tutti.

Ma cosa le scrivo?

“Scusami di averti importunato”? “Lasciamo perdere”?

No. Troppo da codardo. L’avrebbe vista il giorno dopo e l’avrebbe fatta ragionare. Ricordandole che aveva dei figli e un marito che l’amava ed era giusto dirsi addio.

Ecco, quella era una prova di carattere che lo avrebbe fatto sentire di nuovo a posto con la coscienza e con Dio.

Come Dio Comanda
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