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Una striscia di luce s’infilava dal corridoio e disegnava la nuca rasata di Rino Zena, il naso a becco, i baffi e il pizzo, il collo e la spalla muscolosa. Al posto degli occhi aveva due buchi neri. Era a petto nudo.

Sotto, i pantaloni militari e gli anfibi sporchi di vernice.

Come fa a non avere freddo? si domandò Cristiano allungando le dita verso la lampada accanto al letto.

«Non accenderla. Mi dà fastidio.»

Cristiano si accoccolò nel groviglio caldo di coperte e lenzuola. Il cuore gli batteva ancora forte. «Perché mi hai svegliato?»

Poi si accorse che suo padre stringeva in mano la pistola. Quando era ubriaco spesso la tirava fuori e girava per casa puntandola sul televisore, sui mobili, sulle luci.

«Come fai a dormire?» Rino si voltò verso il figlio.

Aveva la voce impastata come se avesse ingoiato un pugno di gesso.

Cristiano si strinse nelle spalle. «Dormo…»

«Bravo.» Suo padre tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una lattina di birra, l’aprì e la finì in un sorso e si pulì la barba con un braccio, poi l’accartocciò e la buttò a terra. «Non lo senti, il bastardo?»

Non si sentiva niente. Nemmeno le macchine che di giorno e di notte sfrecciavano davanti a casa e che se chiudevi gli occhi avevi l’impressione ti entrassero nella stanza.

È la neve. La neve copre i rumori.

Suo padre si avvicinò alla finestra e poggiò la testa sul vetro umido di condensa. Ora la luce in corridoio gli dipingeva i deltoidi e il cobra tatuato sulla spalla.

«Dormi troppo pesante. In guerra a te ti bevono per primo.»

Cristiano si concentrò e sentì lontano l’abbaiare rauco del cane di Castardin.

Ci si era talmente abituato che oramai le sue orecchie non lo percepivano più. Stesso discorso per il ronzio del neon in corridoio e lo sciacquone rotto del cesso.

«Il cane?»

«Ce l’hai fatta… Incominciavo a preoccuparmi.»

Suo padre si girò di nuovo verso di lui. «Non ha smesso un minuto. Neppure sotto la neve.»

Cristiano si ricordò cosa stava sognando quando suo padre lo aveva svegliato.

Giù in soggiorno, vicino alla televisione, in un grande acquario fosforescente c’era una medusa verde e gelatinosa che parlava una lingua stranissima, tutta e, z, r. E la cosa bella era che lui la capiva perfettamente.

Ma che ore sono? si chiese sbadigliando.

Il quadrante luminoso della radiosveglia poggiata a terra segnava le tre e ventitré.

Suo padre si accese una sigaretta e sbuffò: «Ha rotto il cazzo».

«È mezzo scemo, quel cane. Con tutte le bastonate che ha preso…»

Ora che il cuore aveva smesso di marciargli in petto, Cristiano sentì il sonno premergli sulle palpebre.

Aveva la bocca secca e il sapore dell’aglio del pollo della rosticceria. Forse, bevendo, quello schifo se ne sarebbe andato, ma faceva troppo freddo per scendere giù in cucina.

Gli sarebbe piaciuto riprendere il sogno della medusa lì dove lo aveva lasciato. Si stropicciò gli occhi.

Perché non te ne vai a letto? La domanda gli scappava, ma la trattenne. Da come suo padre si aggirava per la stanza non sembrava molto intenzionato ad abbattersi.

Come Dio Comanda
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