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Willowbrook Cemetery, tre chilometri da Cedar Ridge, California,

domenica, 24 marzo 2024

Eccomi ancora qui.

Quasi tredici anni dopo il funerale di Sarah, sono seduto sulla stessa panchina, cercando di riscaldarmi le mani sempre più deboli e ripercorrendo nella mente l’accaduto, mentre aspetto l’arrivo di una ragazzina molto spaventata e arrabbiata. Oggi dovrebbe festeggiare il suo dodicesimo compleanno, ma ha appena scoperto che sua madre è stata violentata. Il dolore e il senso di colpa sono così forti da indurla a credere che l’unico modo per placarli sia offrire la propria vita in segno di scuse.

La panchina è un tantino più consumata e scomoda – come le mie chiappe – ma, a parte l’aggiunta di qualche tomba, il resto non è cambiato granché. Il vento è rinforzato ed è cominciato a piovere.

Sapevo che sarebbe piovuto.

Come Sarah mi aveva anticipato nel messaggio, e come penso di aver detto poco fa, sto morendo. Per citare le sue parole – o sono stato io il primo a usarle? – ho un «brutto male». Mi ha divorato per anni e ora il suo banchetto è… Be’, il resto lo sai già.

Cancro ai polmoni, causato da anni di fumo. Quando lessi quelle parole per la prima volta e mi resi conto che la persona descritta sul biglietto, quello «ScaryBob», ero io, mi ferì sapere che Sarah aveva deciso d’informarmi che nel giro di tredici anni sarei stato praticamente morto.

Certo, non potevo fare a meno di osservare il cortile della scuola di tanto in tanto, soltanto per vedere la piccola Sarah… Alison.

E non mi sorprende che mi abbiano scambiato per una specie di vecchio sporcaccione e che i bambini mi abbiano affibbiato un nomignolo così derisorio. Non era forse ciò che ero? Un uomo dal colorito giallastro, con gli occhi scuri e indagatori – deformazione professionale – e un impermeabile che l’elusiva Mrs. Colombo potrebbe tranquillamente buttare nella spazzatura di nascosto. Ero un vecchio sporcaccione per chiunque mi guardasse e, per quanto quell’impressione fosse esagerata, posso assicurarti che non sono mai stato convinto sino in fondo che l’apparenza inganni.

Così, ogni volta che la vita me lo permetteva, compravo l’Herald e mi sedevo su una delle panchine nascoste tra i larici che fiancheggiavano la Cedar Ridge Home for Homeless Boys and Girls. Lo so, potrei definirla un orfanotrofio, ma pare che ormai non sia più politicamente corretto. Nel vento o sotto la pioggia e, molto di rado, sotto il sole tipico delle regioni meridionali della California, leggevo e osservavo i bambini che ridevano e giocavano davanti alla struttura gestita dalla NorthStar Foundation, che a sua volta era una costola – a presunto scopo benefico – della KleinWork Research Technology.

Col senno di poi, suppongo che ogni mio tentativo di non dare nell’occhio avesse suscitato, come tutte le reazioni chimiche e biologiche efficaci, una risposta uguale e contraria. Ho fatto il poliziotto per molti anni, ho lavorato prima in uniforme e poi in borghese. Nella mia carriera altalenante non sono mai stato sotto copertura. Quando facevo lo sbirro, non c’era nulla che potessi fare per mascherare la mia identità. La prima volta che andai a Cedar Ridge, ero un vecchio stanco con un impermeabile logoro, il cui unico divertimento nella vita, la cui unica droga, era fissare con interesse quasi morboso una bambina di sette, otto, nove e dieci anni.

Di conseguenza avevo tutta l’aria di…

ScaryBob.

Mi occorse molto tempo per comprendere come mai Sarah avesse deciso di dirmi che stavo morendo, di rovinarmi il finale del libro prima che l’avessi vissuto, ma, quando le risposte arrivarono, la considerai una donna speciale e la ringraziai con ogni respiro che i miei polmoni malati riuscirono a trarre.

Nel bar ad Arques, dove avevamo incontrato la compianta Kelly Brown, mi aveva fatto sentire come voleva che mi sentissi: colpevole fin nel midollo. Mi aveva spinto a manifestare i miei sentimenti, i miei veri sentimenti, riguardo alla morte di Monica e del bambino che portava in grembo. Alla fine, lei aveva sintetizzato tutto in un’unica frase profonda: A volte, che ci piaccia o no, Nick, dobbiamo affrontare le conseguenze delle nostre azioni. Prima che sia troppo tardi.

Sulla base di quelle parole, credo, aveva avvertito il bisogno di rammentarmi che il mio tempo su questa terra era limitato, come il suo, di dirmi come meglio poteva che avrei dovuto rimediare agli errori della mia vita e che avrei dovuto sbrigarmi.

Dubito che il mestiere più antico del mondo sia la prostituzione. Credo sia il crimine, in qualunque forma possa presentarsi, e penso pure che sopravvivrà a tutti noi. Cominciai a capire che il crimine non era colpa mia, non ero io a crearlo. Anzi, nel mio piccolo, facevo tutto il possibile per ostacolarne il progresso, ma imparai pure che il suo potere può estendersi al di là dell’incarcerazione. S’insinua nelle aule di tribunale e continua ad agire finché i colpevoli non sono liberi.

Vorrei tanto cambiare le cose, ma non ne sono in grado.

Non sono stato io a innescarlo. Non posso certo essere io a fermarlo.

Invece, anche se non ricordo di essermi seduto a tavolino e di aver pianificato un simile evento, ho generato una vita umana. Quella di Vicki. Era su questa terra a causa mia e, più di qualsiasi altra cosa al mondo, era una mia responsabilità. Non ero in grado di cambiare il suo passato più di quanto non potessi fare col mio, ma potevo cambiare il suo futuro. La vita che condurrà quando non ci sarò più.

Il tempo sarà anche un numero, una quarta dimensione, ma è un numero che scorre in una sola direzione.

Verso il basso.

Rapido.

Il giorno dopo il funerale di Sarah entrai nell’ufficio di Deacon e gli annunciai che poteva tenersi tre cose: il mio distintivo, la mia pistola e gli eventuali commenti sarcastici che aveva pensato di fare sul mio conto. Non sopportavo l’idea di sprecare anche solo un altro giorno prendendo all’amo pesci che poi, sul fondo della rete, trovavano un buco invisibile da cui fuggire. Restò scioccato – probabilmente era convinto che sarei rimasto fino alla pensione –, ma dubito che l’abbia considerata una grossa perdita per il dipartimento.

Gli spiegai cosa stessi cercando e cosa avrei fatto quando l’avessi trovato. Mi augurò buona fortuna.

Forse era addirittura sincero.

Avevo già caricato l’automobile, così potei andare diretto verso la strada costiera, con un foglio di plastica trasparente attaccato al finestrino per proteggermi dalla pioggia sferzante che quel giorno Dio, il creatore della sequenza, aveva deciso di rovesciare sulla terra.

Quando superai il parcheggio a Montalvo, raccolsi dal pavimento il CD di Sarah, quello con la «musica da sballo», e lo infilai nel lettore. Aveva detto che quel gruppo si chiamava Thunder – tuono – e, dato il tempo, c’era qualcosa d’ironico. Alzai il volume, sfondai la plastica col pugno sinistro e, diretto a Seattle per vedere mia figlia, lasciai che la canzone e la pioggia purificatrice mi scorressero addosso:

Now you’ve seen the worst I can do,

I don’t wanna keep hurting you,

can you find it in yourself to forgive me?

Now you know what I am,

do you think you can stand it?

’Cos I know that it’s true…

I’ve got history in the making with you…*

E lei, ossia Vicki, mi perdonò. A modo suo e fino a un certo punto. Ci vollero tre giorni per rintracciarla attraverso la sua reticente cerchia di «amici». Avevo già parlato con Katherine al telefono e mi aveva detto che lei, il buon dentista e Vicki avevano avuto un violento litigio e che mia figlia se n’era andata.

Era successo circa sei mesi prima. Katherine non la vedeva da allora e dubitava, date le parole grosse che erano volate quel giorno, che avrebbero ricucito i rapporti.

La trovai che viveva a casa del suo ragazzo, o meglio, del suo protettore. L’ennesima giornata di merda, l’ennesima scoperta di merda. Mentre lei gridava e mi scagliava addosso tutto ciò che le capitava tra le mani, conciai per le feste il suo amichetto punk pieno di piercing. Poi, ancora urlante, la trascinai verso l’auto. Si degnò di parlarmi soltanto due giorni dopo, mentre mangiava hamburger cotti male in una tavola calda di Las Vegas.

Quelle prime parole furono dolci come il miele: «Grazie, papà».

«Grazie» e «papà». In tutta onestà, non avevo mai immaginato di sentirle nella stessa frase.

Ci vollero molti mesi per disintossicarla dalla merda cui si era assuefatta, e tuttora non so con esattezza che razza di roba avesse preso. Rimase con me per circa due anni, dopodiché, finalmente, si trovò un appartamento tutto suo; abbastanza vicino perché potessi tenerla d’occhio e abbastanza lontano per avere la giusta privacy.

Mentre sono seduto qui, oggi, Vicki ha ancora i piercing, è ancora bellissima e fa l’assistente sociale per i preadolescenti. È molto attiva anche nel recupero dei tossicodipendenti, un lavoro che «ci sta abbastanza dentro», per usare le sue parole. Non le ho mai raccontato di Sarah, né delle cose che credo siano successe e che ritengo vere. Siamo sinceri, ho impiegato molto tempo per aiutarla a rasserenarsi, e una storia come quella non farebbe altro che sconvolgerla di nuovo.

Dopo che fummo tornati dal nostro viaggetto e che ci fummo stabiliti poco lontano da Los Angeles – a Newberry Springs, lungo il confine col deserto –, tornai in città per l’ultima volta e andai dal medico. Sebbene non avessi sintomi visibili, alla fine si convinse a sottopormi a una serie di esami. È curioso che quando la settimana successiva mi consegnò l’esito – carcinoma polmonare cronico vecchio di almeno sei mesi – lui fosse sorpreso e io no. Nemmeno un po’.

Rifiutai la chemio e la radioterapia e lo ignorai quando disse che senza cure sarei morto in meno di cinque anni. Grazie a Sarah sapevo di avere un po’ più di tempo, trattamenti o non trattamenti. Fu soltanto allora che alzai gli occhi al cielo e la ringraziai per avermi detto che stavo per morire, ma non subito subito.

Avrei fatto buon uso degli anni che mi restavano.

Mi sono rappacificato con Vicki, sono sopravvissuto fino a oggi e, se riuscirò a tirare avanti ancora per un po’, cosa che ho tutte le intenzioni di fare, avrò svolto tutti i compiti che questo mondo mi ha assegnato.

Posso finire in bellezza.

Non sono Marlon Brando ma, se lo fossi, probabilmente in questo preciso istante starei girando l’ultima scena di Apocalypse Now. Ho interpretato anche altri classici: Giulio Cesare, Fronte del porto e Il padrino, e so che sto approfittando delle mie condizioni, e della possibilità di restare nell’ombra, per ricoprire un ultimo ruolo, quello ideale.

Quello che, quando sarà finito, dovrebbe chiudere la mia vita in grande stile. Potrei continuare a lottare con qualunque mezzo disponibile contro il male che mi prolifera nei polmoni, ma che senso avrebbe?

Come Sarah, so che bisogna andarsene al momento giusto. In più, quando si è abusato del proprio corpo come ho fatto io e ci si riduce a un cadavere ambulante, fingere di essere il papà di Superman serve soltanto a fare la figura degli stupidi.

Ora la vedo, il dono speciale di Dio a tutti noi, che entra nel cimitero varcando il pesante cancello di ferro lungo la collina alla mia sinistra, senza dubbio dopo essere sgattaiolata fuori della Cedar Ridge. Non sta piangendo, almeno a quanto riesco a vedere, ma cammina come se il peso del mondo gravasse tutto sulle sue spalle minuscole. È più bella che mai, il tipo di bambina di cui gli amici dei genitori, ammesso che questi ultimi esistano, dicono: «Un giorno spezzerà molti cuori».

Indossa ancora l’uniforme che ha descritto nella lettera, quella che, essendo ScaryBob, le ho visto addosso di tanto in tanto nel cortile della scuola. Ciò che non ha mai smesso di stupirmi sin dalla mia prima visita era ed è la somiglianza con sua sorella… con sua madre. Gli occhi e i capelli, la stessa sfumatura. Nemmeno l’ombra del nero corvino che avrebbe dominato la sua vita adulta nella versione che avevo conosciuto a Los Angeles.

Pur essendo turbata, non vaga senza meta come spesso fanno le persone sconvolte. Crede di sapere dove sta andando e cammina in quella direzione a passo deciso.

In quei pochi anni, la dodicenne Alison Bond ha sofferto più di quanto facciano molte anime più fortunate in una vita intera. Non ha ancora idea di dove sia stato sepolto il corpo di sua madre nelle settimane successive al taglio cesareo eseguito d’urgenza, a mezzanotte, nella corsia del Thousand Oaks. Non conosce ancora il vero nome di sua madre, non sa chi né cosa fosse. Scoprirà queste cose nel corso del tempo, ma per ora non ha importanza. È già stata qui con la sua amica Gemma e ha notato una tomba che sembra l’incarnazione delle informazioni di cui è in possesso riguardo alla donna che ha sacrificato la propria vita per lei.

Ho visitato spesso quella tomba e nei primi anni ho persino deposto qualche fiore, orchidee. In altre occasioni ho portato con me il maltempo, oltre a una serie all’apparenza inutile di storie, aggiornamenti e ricordi. All’inizio, parlare ad alta voce in un cimitero deserto mi era parso la prima tappa della caduta in una senilità che non avrebbe mai avuto l’opportunità di fare il proprio corso. La quarta o la quinta volta, ho cominciato a capire che non stavo impazzendo, ma che era il mondo a essere uscito da ogni controllo. Da allora in poi, mi sono rivolto a Sarah con la chiarezza impostata che di solito contraddistingue i politici ai comizi.

Negli anni che sono passati da quando ho sfidato la pioggia dopo il funerale, ho resistito alla tentazione di addobbare la tomba o, comunque, di prendermene cura. Non ho mai portato una paletta da giardiniere né acqua saponata per la lapide. Mi sono sempre assicurato che questo posto continuasse a essere ciò che è sempre stato destinato a essere.

Non potrebbe essere più lontana dai tumuli ben curati e dalle statue di marmo. È rimasta sola a combattere contro il mondo, una lapide da venti dollari con un vistoso errore ortografico, che si sgretola lungo i bordi mentre, anno dopo anno, l’iscrizione sbiadisce sotto un nuovo strato di sudiciume:

CUI GIACE, IL DONO SPECIALE DI DIO A TUTTI NOI.

COLORO CUI IMPORTA SONO COLORO CHE DEVONO SAPERE.

FINCHÉ LUI NON INCROCERÀ DI NUOVO LE NOSTRE STRADE.

RIPOSA IN PACE.

Mi piace pensare, dato che è stata una mia decisione quella di dare alla piccola Sarah un luogo significativo dove trovare la forza di andare avanti e di sfruttare appieno la vita che le è stata concessa, che non sono privo di senso dell’ironia. E, sì, l’errore ortografico è intenzionale e ha sbalordito lo scalpellino cui ho commissionato l’iscrizione. Tra tutte le persone che ho conosciuto, nessuna è stata più brava di Sarah ad andare oltre le apparenze e a scoprire la verità.

Un dono davvero speciale.

Così eccola qui, a chiedere perdono su una tomba che non è di Tina, ma sua. Sì, le parole sulla lapide da venti dollari – che in realtà ne è costati ottanta – potrebbero essere state scritte apposta per lei, perché le importava e perché doveva sapere. Sono certo che troverà pace, ma lo farà in un modo tutto suo, come sua sorella… anzi, sua madre.

Al momento, Sarah – Alison – ignora, come me fino a dopo la sua morte, che il bello della sua esistenza è che non ha ancora idea di quanto sia incredibilmente importante. Il mio compito è esserle amico, darle la forza di continuare a lottare contro le rivelazioni che le sono piovute addosso e guidarla verso una vita in cui cercherà di mettere le cose a posto. Oggi è venuta a scusarsi con sua madre. Il mio dovere è riportarla sulla strada giusta, alla fine della quale continuerà a scusarsi, ma lo farà di persona.

Il mondo è cambiato molto negli ultimi anni. Non smette di cambiare. Col tempo, il suo compagno implacabile, capirai cosa intendo. Basti dire che la ricerca incessante della conoscenza non è sempre una buona cosa. Il progresso non avviene sempre nella direzione giusta; ciò che è «più economico» c’impone spesso di rinunciare alle cose cui teniamo, e ciò che è migliore… be’, di solito si rivela essere il contrario.

Sarah l’ha capito, ma Alison no. Non ancora.

Ho letto da qualche parte che dalla Rivoluzione industriale il progresso umano è raddoppiato ogni cinquant’anni. Da allora fino a oggi. Se tracciata su un grafico, la linea dello sviluppo sarebbe ormai quasi verticale, puntata dritta verso il cielo.

È ironico, dunque, che ogni passo avanti ci allontani sempre di più.

Dove stiamo andando, e vogliamo andarci davvero? Suppongo che non abbia importanza, dato che probabilmente ci trascineranno senza tenere conto della nostra volontà.

Ho sentito parlare di persone che bevono il «latte» nella beata ignoranza che ora, nella mia epoca, è soltanto la versione abbreviata di un marchio commerciale – «Sa di latte» – e che non ha mai visto una mucca nella sua lunghissima permanenza sugli scaffali dei supermercati. L’unico latte rimasto è quello stereotipato, quello della gentilezza umana e, dato che non si possono ricavare profitti dalla sua adulterazione, la sua durata è breve com’è sempre stata.

Mi sono assicurato di avere con me il cellulare, e chiamerò lo sceriffo Coulson prima di andare da lei, ma innanzitutto controllo di avere anche il medaglione. Il vento soffia gelido sulla mia mano, ma in qualche modo riesco ad aprire il fermaglio dispettoso e a vedere il viso quasi perfetto che è al suo interno.

Per la prima volta da quando è iniziato tutto, comincio a intuire quanto debba essere importante questo orologio.

Quanto debba sempre essere stato importante.

La ragione per cui lo capisco soltanto ora, con grande ritardo, è che oggi mi accorgo di quanto l’esterno della cassa sia rovinato, esposto di continuo alle intemperie. Tuttavia, nella storia immutabile non esistono testimonianze sulla sua creazione.

Sono nato – è vero – e sembra che morirò molto presto. Anche Sarah è nata e morirà, seppur in un altro momento, pronta a rinascere. Questo sì che è un maledetto rompicapo: per me comincia sempre… Ho smesso di provare a risolverlo tanto tempo fa.

In ogni caso, Sarah è nata e morirà. E questo gioiello all’apparenza insignificante è passato dalle sue mani alle mie, e presto glielo restituirò. Lo porterà con sé e lo terrà al sicuro per poi lasciarlo appeso alla ringhiera, quando si toglierà la vita. Questo processo si ripeterà una volta dopo l’altra.

Forse sino alla fine del tempo.

Perciò da dove diavolo è partito?

Sino alla fine del tempo. Forse, per quanto possa sembrare strano, è tutto vero. Forse questo orologio è stato introdotto nella nostra vita da una potenza superiore per rammentarci che, se mai i secondi sul quadrante avessero smesso di scorrere, forse – e sottolineo forse – avrebbero fatto la stessa cosa anche quelli del mondo intorno a noi.

Mi sembra ragionevole. Devo ricordarmi di dirlo a Sarah.

Rimetto il medaglione in tasca e guardo per l’ultima volta la mia inseparabile compagna, la lettera. Faccio un sorriso malizioso. Poi, alzo la testa e vedo una bambina bellissima e affranta che cade in ginocchio.

Questo non è un messaggio di suicidio, non lo è mai stato. Molto semplicemente, è il manuale d’istruzioni personale di Sarah Fiddes a Nick Lambert per le cose che devono accadere, e che accadranno, oggi. Per quanto sia preparato, mi rendo conto di non stare più nella pelle. È arrivato il momento, il mio momento, e devo andare da lei. Mi tremano la mani, ma non è colpa del freddo. Come credo di aver già accennato, provo l’euforia febbrile che mi ha evitato per tutta la vita, e intendo assaporarla sino in fondo, prima di morire.

Dopo aver chiamato l’ufficio dello sceriffo, mi avvio lungo il vialetto e, benché non mi sforzi di camminare senza fare rumore, Sarah è così chiusa nel dolore da non udirmi. Più mi avvicino, e più sento i suoi singhiozzi disperati.

Mi fermo dietro di lei per un istante e traggo un profondo respiro. Quindi, pronuncio la frase che mi ha detto avrei pronunciato: «Stai bene, signorina?»

Non mi sente, e non sapevo forse che sarebbe andata così? Mi accovaccio e glielo chiedo per la seconda volta, aggiungendo qualche parola. Tra qualche minuto saremo seduti sulla panchina da cui sono arrivato, chiacchierando come se fossimo amici da anni (per molti versi lo siamo), mentre aspetto l’arrivo della Dodge di Coulson, quella con la D sbavata.

Parliamo e nel frattempo mi domando se Sarah abbia mai riflettuto seriamente su cosa ne sarebbe stato delle tavole, dopo la sua morte, su cosa avrei deciso di farne. Ha mai pensato che, poiché aveva espresso il desiderio che non venissero mai trovate, avrei potuto scegliere il nascondiglio perfetto? O si è fidata di me, e basta?

Ancora una volta, ho fatto buon uso del mio tempo, credo. Mentre i becchini fumavano una sigaretta sotto la pioggia, ho estratto dalla tasca interna il pacchetto avvolto nella tela, ho dato un’ultima occhiata al contenuto e, con un sorriso sardonico, l’ho depositato nella fossa.

Qualche minuto dopo, i due uomini sono tornati e hanno cominciato a coprire la buca, facendo scomparire la bara economica sotto il terreno pesante. Come sempre, sarà un’entità assai più grande di me, o di te, a decidere per quanto tempo resterà là sotto.

Una volta, Émile Zola scrisse: «Quando si sotterra la verità, essa si accumula, si carica di una tale forza esplosiva che, il giorno in cui esplode, fa saltare tutto con sé».

Puoi scegliere di credere che mi sia inventato tutto, ma in questo caso devo avvertirti che mi attribuisci molta più creatività di quanto meriti. Sei un individuo libero e razionale, decidere che tutto questo non è mai accaduto è tuo diritto, ma fidati…

Succederà.

In parte è già successo.

Ho sessantadue anni, ho freddo e in un futuro non troppo lontano ne avrò ancora di più. Farò fatica a festeggiare il mio prossimo compleanno. E, sì, forse sto morendo, ma ciò non significa che sia infelice. Ho trovato uno scopo e penso di sentirmi un po’ più leggero dopo averti raccontato i fatti – positivi e negativi – che si sono verificati.

Non ho più nulla da nascondere.

Nel frattempo, mentre aspetto il tizio con le chiavi del cancello in basso, sono accovacciato accanto a una splendida ragazzina intenta a chiedere perdono sulla propria tomba, in procinto di muovere i primi passi incerti di un viaggio volto a trovare e rubare due tavole di pietra sacre, presumibilmente donate da Dio in persona. Se sono ciò che l’umanità crede che siano – e, come tutti i veri simboli religiosi, non si spacciano per tali –, contengono il genere di sapere codificato che gli uomini non dovrebbero mai e poi mai possedere.

Tuttavia, mentre Sarah supplica, quel sapere è sepolto circa un metro e mezzo sotto le sue scarpe.

Quelle che di solito tiene «così lustre».

La Teoria Dell'eternità
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