53

Los Angeles,

lunedì, 13 giugno 2011

«Apriamo alle dieci, Nick. Dovresti saperlo.»

Michelle, armata di straccio e spruzzino, stava pulendo il bancone. Dubito si fosse accorta che la porta non era chiusa a chiave.

«Lo so benissimo, ma, a essere sincero, non me ne frega un cazzo in questo momento», ribattei con voce nasale. Non mi degnai nemmeno di farle un sorriso. «Jack Daniel’s con ghiaccio, se non ti dispiace.»

Posò la pezza e andò dietro il bancone. «Se Cody lo scopre, mi uccide.» Versò il whisky dal dosatore. «Comunque, a giudicare dallo stato della tua faccia, è superfluo chiederti se hai avuto una giornataccia. È troppo presto persino per te. Perciò, immagino sia stata una nottataccia.»

Sapevo come mi sentivo – Cristo, lo provavo sulla mia pelle –, ma potevo soltanto azzardare un’ipotesi su come la mia condizione si manifestasse nel mio aspetto. Tuttavia, avevo la vaga sensazione che, in qualche parte del mondo, la morte, con la falce in mano, stesse venendo a raccogliere un’anima vicina al trapasso, lamentandosi del fatto che il cuore del detective Lambert battesse ancora.

«La peggiore», confermai, accettando stancamente il drink.

Michelle mi scrutò, fece una smorfia alla vista del mio naso, quindi appoggiò la bottiglia.

Mentre bevevo, strofinò la superficie del bancone, tentando di ridare vita alla lucentezza, poi, si fermò per un istante. «Vuoi parlarne?»

«Prova a indovinare.»

Ricominciò a pulire.

Non avevo voglia di parlarne, di qualunque cosa si trattasse e in qualunque giorno fosse potuta accadere. Come sono sicuro di aver detto più volte a Michelle, quella era l’unica ragione per cui andavo da Cody: dimenticare, non per cercare di capirci qualcosa in preda ai fumi dell’alcol.

Il locale era mal illuminato, e forse era per quello che mi piaceva tanto. Certo, aveva grandi vetrine sul davanti, ma il bancone era così arretrato e il soffitto così basso che aveva l’aspetto di una grotta buia durante un temporale. Mi sentivo al sicuro, era il mio rifugio dai mari burrascosi e dai pesci vorticanti che provavo a catturare. Adesso che era tutto finito, prima o poi avrei dovuto recuperare la canna da pesca e tornare là fuori. Finché le acque non si fossero calmate, bere sarebbe stato inutile. Ci avevo già provato, e non aveva funzionato.

Aprii il portafoglio e gettai sul bancone due biglietti da venti. Michelle conosceva le regole meglio di me: non rimettere via la bottiglia prima che finiscano i soldi. Dopodiché, vidi una fotografia nel portafoglio e tirai fuori anche quella.

Vicki quando aveva più o meno tredici anni. Capelli biondi lunghi, codini e viso innocente. Già disturbata, senza dubbio, ma ancora in modo latente. Chi avrebbe mai immaginato che meno di sette anni dopo avrebbe abbandonato gli studi e sarebbe diventata una tossica? Che la sua vita sarebbe stata praticamente rovinata? Fissai l’immagine domandandomi se ci fosse qualcosa che potessi fare.

Poi, mi chiesi: Perché diavolo dovrei farlo?

Il mondo fa schifo, ti rovescia addosso palate di merda che, se non scappi, ti resta attaccata alla faccia. Vicki sarebbe stata bene. Ne ero certo, perché avevo passato ben cinque minuti ad autoconvincermi.

Michelle mi arrivò alle spalle e me la sfilò dalle dita. «Che carina. È tua figlia?»

«Lo era.» Mi riferivo a entrambe le cose: carina e mia figlia.

«Cos’è successo?»

«È stata tutta colpa mia.» Presi la foto e la riposi nel portafoglio.

Vuotai il primo bicchiere tutto d’un fiato e me ne versai un altro. Tenni la bottiglia in mano, esaminando l’etichetta come se fosse una bevanda fuori del comune, come non ne avevo mai bevute in vita mia. Tuttavia, non vidi le parole, le lettere bianche su fondo nero, bensì un volto. Quello di Monica, con la bocca spalancata e le gocce di sangue che cadevano su lenzuola candide in una stanza in cui gli spari avevano appena finito di echeggiare; il padre era sul pavimento, con la faccia maciullata.

Avevo iniziato a stare meglio, avevo quasi trovato uno scopo. Non dovevo crederci, non al cento per cento, dovevo solo dedicarmici. E l’avevo fatto. In qualche modo, dentro di me, avevo sperato che potesse addirittura compensare i miei fallimenti passati. Fare finalmente qualcosa di utile, impedendo ai cattivi d’impossessarsi di due tavole sacre che, a quanto pareva, erano molto pericolose.

Salvare il mondo. Arrestare l’emorragia. Cauterizzare la ferita.

Ma Sarah Fiddes mi aveva mentito, e per questo stavo di merda. O forse, e sottolineo forse, mi sentivo soltanto l’idiota stupido, credulone e inutile che ero, quello che avrebbe dovuto essere più furbo. O che, come minimo, avrebbe dovuto prevederlo. L’opzione successiva, e quella che preferivo, era smettere di pensarci e annegare la delusione nell’alcol. Tuttavia, per qualche ragione non ci riuscii, ero troppo incazzato per dimenticare.

Soprattutto dopo ciò che ho appena fatto per sua sorella.

Sarah Fiddes diceva un sacco di stronzate, questo era un dato di fatto. I viaggi nel tempo, santo cielo. Pretendeva davvero che abboccassi? Il fatto è… La cosa che mi bruciava di più… era che mi aveva quasi convinto. Per quanto potesse sembrare ridicolo a te, a me e a qualunque individuo razionale, quella possibilità avrebbe risposto a uno o due dei miei quesiti più grandi e avrebbe spiegato molte delle sue affermazioni.

Ad esempio, come avesse fatto a sapere, nel giro di pochi minuti, che ero stato sospeso per due settimane e che la sospensione era stata spacciata per un periodo di ferie. Non solo ne era stata al corrente, ma mi aveva anche comprato un biglietto aereo, prevedendo che quel giorno sarei potuto andare in Francia con lei. Era informata della morte di Wells e Rodriguez, benché io l’avessi appena scoperto.

E sapeva che avrebbero intercettato il pacco e che l’avrebbero sostituito con una bomba. Anche se ne avevo dubitato, Grier e i suoi complici me l’avevano praticamente confermato. Come aveva fatto a prevederlo? Il sospetto sarebbe già stato abbastanza curioso, ma il suo non era stato un semplice dubbio, bensì una certezza. Già che stiamo parlando della bomba… perché diavolo l’aveva sepolta sperando che Klein la trovasse? Perché, se ricordo bene le sue parole mentre scavavamo la buca, avevo detto che era il posto ideale per nascondere il pacco se voleva che nessuno lo trovasse, e lei aveva replicato: Ma voglio che venga trovato. Solo non per altri trentatré anni o giù di lì.

Trentatré anni. Se Klein avesse dissotterrato la scatola, come faceva Sarah a sapere che sarebbe accaduto di lì a trentatré anni? A meno che… No, Nick, non essere infantile! È soltanto il Jack Daniel’s che sta entrando in circolo.

Era iniziato tutto con un cadavere, come molti dei miei casi. Però era nudo come un verme e aveva un testo latino infilato nel culo, col nome di Tina scarabocchiato in cima. Lo presi dalla tasca e lo riesaminai.

Infilato nel culo. Circondato da tessuto vivo. La voce di Deacon che mi echeggiava nella testa: Anche se le macchie di sangue indicano che è stato assassinato nel vicolo, i due proiettili che l’hanno trapassato non si trovano da nessuna parte.

E se i colpi non fossero stati sparati nel vicolo? E se fossero serviti a impedirgli di tornare nel passato, carico d’indizi sul nascondiglio delle tavole? Le pallottole che erano schizzate fuori del suo corpo non sarebbero state attorniate da tessuto vivo; sarebbero rimaste dov’erano.

Fino a che punto dovevo essere uscito di senno per fare un simile ragionamento?

Guardai il testo. Non il latino, perché continuavo a non capirne bene il significato, ma l’appunto in alto: Tina Fiddes – 113. C’era qualcosa che non mi piaceva, un dettaglio che non avevo mai notato prima. Avevo visto la grafia di Sarah una sola volta, quando aveva compilato i moduli della DHL, ma aveva un modo molto bizzarro di scrivere la F maiuscola, con uno svolazzo grosso e sgraziato.

Quella sul foglietto era identica. La F di Fiddes, quella infilata nel culo del cadavere, era uguale a quella dei moduli.

Era stata scritta da Sarah.

Ma, ancora una volta, era impossibile.

Fissai il bicchiere più intensamente che potei, desiderando che si muovesse. Senza toccarlo, intendo. Ero sbronzo, Cristo santo, e quella deve essere stata la mia fantasia più assurda. Così, fissai, desiderai e sperai, con la mente sgombra da ogni altro pensiero. Naturalmente, per quanto mi sforzassi, non si spostò neanche di un millimetro: rimase nello stesso punto del bancone, ridendo di me. Suppongo di non averlo voluto abbastanza. Non più.

Finché Cody non fece irruzione nel locale, sbattendo la porta contro la parete. Allora sì che il bicchiere si spostò rapidamente, ma credo che la mia mano ci abbia messo lo zampino. Si fermò di colpo, mi guardò e poi si voltò verso la cameriera. «Apriamo alle dieci, Michelle. Lo sai.»

«Lo sa anche lui», rispose, con un cenno nella mia direzione. «Ma ha detto che oggi non gliene frega un cazzo.»

Cody andò dietro il bancone. «Cosa ti è successo al naso?»

«Mi hanno dato un pugno.» Poi, con un sorriso enigmatico aggiunsi: «Un tipo molto fotogenico».

«Posso chiederti una cosa, Nick?»

«Purché non sia ’esci dal mio bar’, fa’ pure.»

Sorrise. «Mi conosci, Nick, non butto mai fuori un buon cliente, o un cliente che paga o uno gravemente disturbato come te. No, è qualcosa di molto diverso.»

Bevvi un sorso di whisky e riempii il bicchiere, prima che mi portasse via la bottiglia.

«Cosa faccio per vivere?» domandò.

«Sei il migliore e il più comprensivo barista di Los Angeles», risposi in tono melenso.

«Allora non sono il direttore generale delle poste.»

«Non che io sappia.»

«Bene.» Estrasse una busta marrone da sotto il banco. «Ricordati di dirlo anche alla tua ragazza.» Sorrise indifferente e uscì da dove era entrato.

Continuai a bere, con la mano che portava il bicchiere alla bocca in automatico. Bevvi e fissai la busta. Non volevo toccarla, né tantomeno aprirla. Non è vero?

«A proposito, ha detto che avrei dovuto dartela perché sei un tipo davvero simpatico. È stata lei a dirlo, di sicuro non io», urlò Cody.

La osservai, ma non si mosse. Davanti c’era scritto: Nick Lambert, c/o il bar di Cody. Le parole mi rimasero davanti agli occhi anche quando distolsi lo sguardo.

Alla fine la presi. Che male poteva farmi? Era pesante. Dopo essermela rigirata più volte tra le mani, trovai il coraggio di fare un altro passo: aprirla e scoprire fino a che punto fossi stato fregato.

Dentro c’era una seconda busta, assieme a un biglietto scritto a mano: Ti avevo detto che ti avrei trovato.

Ingollai un lungo sorso di whisky e strappai la seconda busta, quella pesante. Conteneva alcuni fogli e due oggetti avvolti in un tessuto sottile. Lo srotolai con impazienza, anche se avevo già intuito di cosa si trattasse.

Quindi le rividi, nere e scintillanti anche nella luce fioca del bar. Le tavole della Testimonianza, una miriade di minuscoli simboli incisi a rilievo sui quattro lati e sui bordi, che si sarebbero incastrati alla perfezione in diverse combinazioni. Ne tenni una in ogni mano, le girai lentamente e sorrisi. Ovunque fosse in quel momento, Sarah aveva deciso di affidarle a me. Se non altro era una notevole dimostrazione di fiducia.

Michelle, che aveva finito di pulire, si avvicinò e sbirciò da sopra la mia spalla. «Bei sottobicchieri, Nick, ma abbiamo i nostri, sai?» Rise e raggiunse Cody nel retro. A quanto pare, il mondo è zeppo di filistei.

Riavvolsi le tavole, le appoggiai sul bancone e mi concentrai sui fogli. Sembrava che un tempo fossero stati arrotolati, ma ora erano lisci. Li sparsi sul tavolo. Qualunque cosa fossero, non erano certo la banale lettera che avevo immaginato.

Con una sola eccezione, le pagine erano ritagli di giornale, il primo dei quali mi colse di sorpresa:

EX FOTOGRAFA DEL TRIBUNE TROVATA MORTA IN FRANCIA

«Kelly Brown, ex fotografa del Los Angeles Tribune, è morta di overdose in un alberghetto di Couiza, in Francia. Kelly, una freelance che nel Paese stava seguendo diverse notizie, comprese quelle sullo scavo archeologico finanziato dal governo vicino al confine spagnolo, per cui aveva ottenuto l’esclusiva, è stata trovata nella sua stanza dalla proprietaria della pensione, entrata in camera nella tarda mattinata di ieri per fare le pulizie. La polizia francese afferma di non considerare sospetto il decesso della fotografa, poiché sembra essere conseguenza di un’overdose accidentale che, secondo alcune fonti, potrebbe essere imputabile allo stress eccessivo. La proprietaria della pensione Vie d’Éte, Mme Glorie Mercelle, definisce Kelly ’una giovane donna davvero simpatica, che si è dimostrata molto riguardosa durante il soggiorno prolungato’ e che ’tutti gli ospiti sono molto scossi dalla tragedia’.

«Kelly ha lavorato per il Tribune tra il 2005 e il 2008, quando ha pubblicato molti articoli, tra cui il pluripremiato servizio fotogiornalistico StillsAmerica, sugli effetti della rivalità tra bande in città. ’Kelly era un fantastico membro del team e una grande persona. Era molto ambiziosa e so che ottenere l’esclusiva per il lavoro del governo in Francia aveva significato molto per lei. Esprimiamo il nostro cordoglio alla famiglia, che, come noi, sentirà moltissimo la sua mancanza’, ha dichiarato Jean Sampson, direttore del Tribune.

«Kelly aveva ventotto anni, era nubile e non aveva figli.»

Sopra l’articolo c’era una fotografia, probabilmente un’immagine di repertorio proveniente dagli archivi del Tribune. Kelly, la ragazza dai capelli lunghi biondi che avevo conosciuto in un bar ad Arques, in posa con una macchina fotografica dall’obiettivo lungo. Là accanto, nella grafia inconfondibile di Sarah, si leggeva: Kelly non si è mai drogata, Nick. Eppure è morta di overdose.

Si presume perché avevano scoperto che aveva violato l’accordo, divulgando le foto prima che venisse trovato qualcosa. Passandole a Sarah. Ad Arques, mi aveva detto che la sua amica era stata smascherata, soltanto che non lo sapeva ancora. Come lei, non credetti nemmeno per un secondo che l’overdose letale della giovane Kelly Brown fosse stata accidentale.

Tuttavia, i due ritagli successivi erano più interessanti e, dal mio punto di vista, mi riguardavano più da vicino. Sembrava che venissero da una rivista anziché da un giornale:

I SEGRETI DELLA SCIENZA RIVELATI IN FRANCIA

e

BRUTTA SORPRESA PER GLI SCIENZIATI DI CARDOU

Il primo spiegava come un team di archeologi statunitensi, impegnati a scavare ai piedi del monte Cardou, nel Sud della Francia, si fosse imbattuto in una «camera segreta» contenente tavolette di pietra di «particolare valore scientifico».

I reperti, proseguiva, sembravano essere stati compilati da un artigiano/scienziato attivo all’inizio del Seicento, e si sperava che, se le teorie proposte si fossero dimostrate corrette, avrebbero potuto migliorare la conoscenza del mondo da parte dell’uomo e favorire il progresso scientifico futuro. Un portavoce americano aveva dichiarato che «questo individuo ha senza dubbio precorso i tempi e aperto alla scienza moderna nuove ed entusiasmanti strade lungo le quali continuare le ricerche. Siamo tutti molto soddisfatti del ritrovamento e ci auguriamo che conduca a scoperte vantaggiose per tutta l’umanità».

Il servizio aggiungeva che quei reperti nuovi ed entusiasmanti avevano rischiato di «andare perduti per sempre» quando erano stati rubati da un membro del team privo di scrupoli e fatti uscire di nascosto dal Paese, mediante il ricorso a una nota società di spedizioni. Per fortuna, il furto era stato scoperto quasi subito e ciò aveva permesso d’intercettare il pacco e di recuperare le tavole negli Stati Uniti. A quanto pareva, era in corso una dettagliata analisi scientifica dei reperti.

Un mucchio di stronzate. Le tavole rinvenute vicino al monte Cardou. Trafugate da un membro della squadra. Ipotizzai che, se non avessero dovuto intercettarle da una «nota società di spedizioni», la notizia non sarebbe mai stata pubblicizzata. Era un insabbiamento e non era divertente.

A differenza dell’articolo successivo: BRUTTA SORPRESA. Quello sì che mi fece morire dal ridere.

Spiegava come le straordinarie «tavole di Cardou» si fossero rivelate, purtroppo, soltanto dei falsi di ottima fattura. I funzionari ammettevano che, pur essendo stati scettici sin dall’inizio, avevano investito molto tempo ed energie nella decifrazione del contenuto. Riconoscevano di essere rimasti molto delusi, ma ritenevano che le tavole non fossero state falsificate di recente. Le tecniche di datazione erano state accurate, ma il contenuto non era «quello previsto».

Altroché se non lo era. Stando alle spiegazioni di Sarah – e non sono un esperto –, aveva inserito nel testo circa duemilacinquecento decodificazioni possibili, la maggior parte delle quali erano frasi incomprensibili in aramaico. Tuttavia, ce n’erano trentatré che davano sequenze di lettere contenenti testi incorporati, a loro volta piuttosto difficili da individuare. Le lettere andavano poi evidenziate sui dischi per ricavare una serie di schemi. Una volta scoperti, si potevano sovrapporre uno alla volta ai tre lati rimanenti dei dischi, identificando così ulteriori frasi. Sono certo che è un po’ più complicato di così, ma almeno ti sei fatto un’idea generale.

La risposta? Sempre secondo la mia teoria, dopo aver risolto gli enigmi e messo assieme le soluzioni, si sarebbe ottenuta la frase: VAFFANCULO, KLEIN.

O qualcosa del genere. Tipico di Sarah.

C’erano altri tre articoli – due morti e un suicidio –, ma non mi dilungherò a riassumerli, e un altro messaggio scritto a mano nella grafia di Sarah: Incontriamoci. Percorso costiero. Montalvo. Ore venti. S.

Sì, ero incuriosito. Più di quanto tu possa immaginare. Perché meno di un’ora prima avevo negoziato con Grier per salvarmi la vita e gli avevo proposto un modo per trovare le «risposte» in un certo arco di tempo, ma, secondo uno dei due articoli, il codice era già stato decifrato.

Peggio ancora, identificato come falso.

Finché non lessi l’unica informazione, visibile su tutti i ritagli, che non mi era nemmeno passato per la testa di guardare. Fino a quell’istante. Per darti un’idea di cosa intendo, posso dirti che Kelly Brown era già morta di «overdose accidentale». Era stata trovata dalla proprietaria della pensione, Mme Mercelle, quel mattino e la notizia era uscita sul Los Angeles Tribune.

Ma non ancora. Il giornale era datato mercoledì 15 giugno 2011.

Dopodomani…

La Teoria Dell'eternità
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