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Serres, Perpignan, Francia,
sabato, 11 giugno 2011
Sapevano benissimo che eravamo partiti per la Francia. Ora ne sono consapevole, ma all’epoca lo ignoravo.
A parte altre incursioni dettagliate nella mia vita pre e post Casparo e altre descrizioni particolareggiate del dono di Tina – bizzarre, affascinanti e un po’ campate in aria –, dormii per quasi tutto il volo.
Tra il fuso orario e le coincidenze atterrammo al Salvaza, il minuscolo aeroporto di Carcassonne, intorno alle undici del mattino successivo, al che noleggiai un’auto allo sportello della Europcar. Era una piccola e brutta Fiat marrone, tutt’altro che confortevole da guidare, ma aveva il tettuccio apribile e i finestrini funzionanti. Dopo aver mangiato un boccone affacciati sulle rovine cinquecentesche di Notre Dame de la Santé, ci dirigemmo verso sud lungo la D-118.
Lontano dalla città e priva d’illuminazione elettrica, alla fine l’autostrada a doppia carreggiata si ridusse a una stradina minuscola. Svoltammo a est all’altezza di Couiza e per gli ultimi dieci chilometri procedemmo attraverso un paesaggio da cartolina, in mezzo a colline verde scuro e valli anguste coperte di vigne.
Sarah rimase in silenzio per tutto il tragitto, guardando il mondo che filava via da dietro gli occhiali da sole, con le ciocche di capelli che svolazzavano nel vento e col solito sorriso astuto. All’una e mezzo stavamo percorrendo l’ultimo tratto, ormai vicini alla laterale lunga mezzo chilometro che conduceva a Serres.
Misi la freccia, ma Sarah la tolse. «Non ancora, continua a guidare.»
Superammo la svolta. «Non andiamo a Serres?»
«Più tardi. Prima c’è una persona che vorrei farti conoscere.»
Proseguimmo sulla strada principale per altri sei chilometri, finché non raggiungemmo la cittadina di Arques, segnalata da un piccolo cartello bianco e nero che aveva ingaggiato una lotta disperata contro la vegetazione. Quando entrammo in paese, il torrione di un grande castello gotico si stagliava sulle colline a sinistra, e Sarah mi disse di fermarmi in una via fiancheggiata da scalcinati negozietti di prodotti artigianali, che sembravano vendere tutti gli stessi mediocri souvenir fatti a mano.
Scendemmo dall’auto e lei s’incamminò decisa verso una minuscola facciata di pietra, con una grande insegna nera che, appesa a un palo, recava la scritta BAR ROCHÉ. Accanto sorgeva un edificio analogo che, in francese e in inglese, si definiva il luogo di nascita di Déodat Roché, un «illustre storico del catarismo».
Alcuni metri lungo il pendio della collina, un gruppo di studenti muniti di zaini variopinti, forse otto o nove in tutto, si era stipato davanti a un portone mentre uno di loro tentava invano di decifrare una mappa. Pareva fossero le uniche persone in città perché, per il resto, il silenzio era snervante.
Sarah andò verso la porta aperta del bar senza rallentare e, con una rapida occhiata agli studenti, la seguii, abbassandomi per evitare una trave. Dentro regnava la penombra tipica dei locali deserti, rischiarata da fioche applique arancioni, due delle quali non funzionavano a pieno regime. Il soffitto era basso e le pareti di pietra nuda erano ornate soltanto da alcune incisioni incorniciate della città vecchia, appese a intervalli regolari.
C’era un solo cliente, una bionda sulla trentina. Aveva l’aria della studentessa, anche se matura, ma non ci degnò di uno sguardo, continuando a leggere una copia di Le Monde e a bere una birra, mentre un barista obeso con le guance rosse e grassocce e un ampio grembiule bianco lucidava con fare annoiato bicchieri che probabilmente erano già lustri come specchi.
L’uomo si fece avanti con un mezzo sorriso, e Sarah ordinò due birre. Dopo aver pagato, mi guidò verso uno dei séparé lungo la parete di destra, lontano dalla vetrina ma abbastanza vicino per vedere l’altro lato della strada. Senza fiatare, tenne gli occhi puntati in quella direzione, zittendomi ogni volta che provavo a parlare, mentre, con aria distratta, sorseggiava la birra.
Ricomparvero gli studenti e Sarah li squadrò a uno a uno. Forse avevano decifrato la mappa, o almeno avevano capito da che parte girarla, e si stavano inerpicando su una ripida salita acciottolata alla nostra destra. Quindi svanirono, e la via oltre le minuscole lastre di vetro tornò deserta. L’ospite tanto atteso da Sarah non era ancora arrivato, questo era poco ma sicuro.
Dopo altri tre o quattro interminabili minuti, lei tossicchiò come si fa per attirare l’attenzione di qualcuno, e la ragazza al bancone si voltò, ma non verso di noi. Lanciò un’occhiata nervosa alla strada, poi ripiegò il giornale e si avvicinò. Si sedette senza dire una parola e posò il quotidiano sul tavolo.
«Lei è Kelly Brown. Fa la fotografa», sussurrò Sarah.
«Quella dello scavo americano?»
La giovane m’ignorò e guardò Sarah, sospettosa. «Chi è questo?»
«Sta dalla nostra parte.» Poi, rivolta a me: «Kelly è un’amica. Lavora come freelance per il National Geographic, ma le sue foto potranno essere pubblicate soltanto se e quando troveranno qualcosa. È un po’ nervosa».
Kelly bevve un sorso di birra. Aveva ventisette o ventotto anni, con un’abbronzatura intensa e senza trucco. Portava i capelli raccolti in una corta coda di cavallo, con gli occhiali da sole sulla testa e un’espressione fredda e dura. Era intenzionale, supposi, studiata per dare l’impressione di essere una tipa tosta.
Sfilò una busta marrone dalle pagine di Le Monde e la fece scivolare verso Sarah. Ipotizzai fossero fotografie, simili a quelle che avevo visto sul computer.
«Illuditi pure che sia tua amica, tesoro, ma, se i file che sono su questo disco trapelano, dirò di non averti mai vista in vita mia. Puoi scommetterci le chiappe.»
Sarah sorrise, prese dallo zaino una busta molto più piccola e gliela passò. L’involto svanì tra le pagine del giornale.
«Novità?»
«Non molte.» Kelly appoggiò con veemenza la bottiglia sul ripiano di legno. «Non hanno ancora trovato niente e, credimi, sono incazzati neri. Hanno setacciato quasi tutto il terreno. Nel frattempo, Klein è scomparso un paio di giorni fa a bordo di un elicottero, per un ritrovamento importante in Russia o qualcosa del genere. Non so se e quando tornerà. Grier continua ad andare e venire come gli pare, e sono sicura che quei due stanno tramando qualcosa.»
«Ad esempio?» chiese Sarah, incuriosita.
«Non saprei, ma ultimamente Grier è molto attento alla sicurezza, e lui e i suoi scagnozzi si sono sparati un sacco di chilometri. In questi giorni sono andati negli Stati Uniti, sono rientrati questa mattina e fanno i misteriosi. Qualunque cosa ci sia sotto, non mi piace. Temo che dovrò sparire per qualche tempo, finché le acque non si saranno calmate.»
«Forse sarebbe meglio.»
«Come sta Tina?» domandò Kelly, anche se nella sua voce non c’era un interesse sincero. O magari c’era, e si era sforzata di dissimularlo. Mi chiesi come e perché sapesse della sorella di Sarah.
«Benissimo, grazie.»
«Salutamela, okay?»
«Non mancherò.»
Kelly finì la birra. «Io resto nei paraggi. Se salta fuori qualcosa di grosso, ti faccio sapere, ma altrimenti non aspettarti mie notizie. Finché non scoprirò cosa diavolo sta succedendo, farò la brava bambina.» Si alzò.
«Kelly, sii prudente», si raccomandò Sarah.
«Non mancherò», le fece il verso. Inforcò gli occhiali e uscì sulla strada inondata dal sole.
Sarah fece scorrere l’indice lungo la bottiglia, con le goccioline di condensa che si raccoglievano in piccole pozze sulla sua pelle. «Kelly è uno dei migliori fotogiornalisti in circolazione. A volte è un po’ caustica, ma è imbattibile.»
«Lei ti procura le foto e tu la paghi?» Bevvi un sorso di birra.
«Niente affatto. Mi aiuta a titolo di favore.»
«La busta. Ho immaginato che…»
«Hai immaginato. Che razza di detective sei?» Agitò il dito con aria di rimprovero.
«Allora cosa c’era dentro?»
«Una lettera.»
«Di chi?»
«Della persona grazie alla quale conosco Kelly, e grazie alla quale lei sa di Tina. Ci siamo conosciute più o meno un anno fa, quando lavorava ancora al Tribune. Sua madre è ricoverata all’Oakdene da circa otto anni. Alzheimer. Ha giornate buone e altre meno buone.»
Notai che, come molte persone con parenti malati, aveva evitato di usare la parola «cattive».
Nulla era mai cattivo, soltanto «meno buono».
«Questo è anche uno dei motivi per cui non sono una fan del nostro Mr. Creed. Una volta, Kelly mi ha detto di stare molto attenta quando scrivevo a Tina e viceversa, perché se una lettera entra o esce da quel posto e lui non approva il contenuto…»
«Creed legge la corrispondenza dei pazienti?»
«Sì e, se menziona lui o uno dei suoi piccoli, sporchi imbrogli, va casualmente smarrita. Kelly intende fare un reportage uno di questi giorni; scoprire gli altarini e smascherare quel viscido stronzetto.»
Aprì la busta ed estrasse la scheda di memoria di una macchina fotografica digitale, protetta da una custodia di plastica trasparente, poi la ripose in una tasca dello zaino. Infine, pescò una bustina di carta pregiata color crema. Davanti, in inchiostro blu e con una grafia ordinata, c’era scritto Mamma.
«Così, quando capito da queste parti, faccio da corriere.»
«E succede spesso?»
«A intervalli di qualche mese.»
«Kelly si sente in debito con te?»
«Forse, ma, se è così, il motivo è un altro. Quando ci siamo conosciute e abbiamo iniziato a parlare, mi ha detto che stava meditando di mollare il Tribune e di darsi alla libera professione. Ha aggiunto che conosceva il direttore fotografico del National Geographic e che le aveva promesso un’opportunità se gli avesse portato qualcosa d’interessante. Così io…»
«Ti sei lasciata sfuggire qualche dettaglio su un importante scavo archeologico in Francia?»
Sorrise alla mia intuizione, per quanto modesta. «Può darsi che abbia accennato alla sua esistenza e ai finanziamenti governativi. Forse, le ho persino suggerito di mettersi in contatto, tanto per vedere se fosse riuscita a ottenere l’esclusiva.»
«E hanno accettato?»
«Klein, sì. Adora la pubblicità, ci va letteralmente a nozze. Le ha imposto di mantenere il segreto fino al momento della ’scoperta’ ma, quando avessero trovato qualcosa – ed era sicuro che sarebbe successo –, Kelly avrebbe avuto un album completo. Dopo l’evento, roba come quella può agevolare le pubbliche relazioni.» Fissò il vuoto per alcuni minuti, con aria assente e preoccupata. «Grier, invece, odia avere tra i piedi Kelly sin dall’inizio. Se dipendesse da lui, il sito sarebbe più inaccessibile del caveau di una banca. Non vede l’ora di prenderla in castagna.»
«Credi che ci riuscirà?»
«L’ha già fatto. Ma lei non lo sa ancora», sospirò.
Non ci voleva un genio per capire che, qualunque cosa Sarah avesse voluto dire, avrebbe preferito rimangiarsela. Mi guardò, stranamente inespressiva. «A volte, che ci piaccia o no, Nick, dobbiamo affrontare le conseguenze delle nostre azioni. Prima che sia troppo tardi.»