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Downtown Los Angeles,
giovedì, 9 giugno 2011
Sarah aprì il portone ed entrammo nel palazzo. L’atrio era buio, angusto e sporco. Cartacce e corrispondenza non ritirata erano sparpagliate ovunque e il sudiciume incrostava le fughe del pavimento di piastrelle bianche e nere. La porta dell’appartamento 1 si spalancò, e Billy comparve sulla soglia: calzoncini, T-shirt e sorriso smagliante.
«Ciao, Sarah.» Si finse sorpreso. Il sorriso diceva che la ragazza gli piaceva molto. «Tutto a posto?»
«Sì, grazie, Billy. Sei molto gentile.»
«Billy, dov’è ’sta cavolo di guida TV?» urlò sua madre dal salotto.
Lui parve in imbarazzo. «Devo andare. La mamma.»
Sarah gli fece l’occhiolino. Quando l’uscio si fu richiuso, alzò gli occhi al cielo e scosse la testa con un sorriso bonario. «C’è l’ascensore, ma da quando mi sono trasferita qui non ha mai funzionato», disse, mentre salivamo i nudi scalini di legno.
«Quanto tempo sarebbe?» indagai.
«Circa due anni. Il proprietario continua a promettere che lo farà riparare, ma è un maledetto bugiardo, perciò non mi faccio illusioni.»
Arrivammo all’ultimo piano, dove l’appartamento 5 era indicato da una mezza cifra di plastica, e Sarah aprì la porta. L’interno era più pulito di quanto avessi immaginato, ma non era certo il Ritz. «Togliti il soprabito. Io vado a prendere il Jack Daniel’s.» Buttò il giubbotto su un attaccapanni e superò un uscio sudicio, sulla destra.
Entrai. I mobili erano vecchi e quasi sicuramente di seconda mano, il genere di ciarpame che viene esposto fuori dei negozi da due soldi anziché dentro quelli più dignitosi. Un consunto sofà verde lime dominava la stanza, e un tavolino di pino a tre gambe, sostenuto da libri, riempiva il minuscolo spazio tra il divano e un brutto caminetto elettrico. Il televisore era uno di quegli aggeggi fuori moda con la cassa di legno e un enorme schermo convesso grigio, e non c’era traccia di videoregistratore né di decoder per la TV via cavo.
La stanza era tutta assi a vista e intonaco crepato, abbastanza vecchio per essere stato riverniciato ed essersi scrostato di nuovo, e l’aria puzzava di polvere e di muffa.
Mi avvicinai alla finestra, dove sottili strisce di tessuto bianco pendevano mollemente su entrambi i lati, e vidi che l’appartamento aveva almeno un pregio: la vista.
Non sapendo cos’altro elogiare, mi concentrai su quello.
«Da qui si vede tutta la città.» Sinceramente colpito, guardai verso la distesa compatta di luci alogene colorate, con le lampadine rosse che si accendevano a intermittenza in cima alla Bank of America.
La voce di Sarah arrivò da lontano: «Come dici?»
«Da qui si vede…» Sbirciai oltre la porta da cui era scomparsa e restai sbalordito, perché ciò che scorsi, come avrai di sicuro intuito, non era neanche lontanamente quello che avevo immaginato.
La seconda stanza era impeccabile. Spaziosa, illuminata da faretti moderni, con un soppalco a dividere la camera da letto – lenzuola candide e armadi a muro sulla destra – dalla cucina. A destra degli armadi c’era una porta, presumo il bagno, e sotto c’era Sarah, rischiarata da luci a incasso e intenta a versarmi un Jack Daniel’s, mentre in contemporanea stappava una bottiglia di Budweiser per sé. La cucina sfoggiava mobili immacolati con sportelli cromati, un frigorifero anch’esso cromato, un fornello incassato nella parete e una serie di utensili d’acciaio appesi a una griglia. Molto elegante. Il genere di eleganza che col mio stipendio non mi sarei mai potuto permettere. Entrai nel locale, grande più del doppio rispetto al precedente, e mi guardai intorno a bocca aperta.
Il parquet era così lustro che riuscii quasi a vedere il mio riflesso. La stanza era arredata in uno stile che si potrebbe definire «chic minimalista». Alcuni dipinti astratti dalle tinte vivaci, del tipo realizzato con cinque pennellate veloci, erano appesi a due pareti di fronte alle finestre, che, a differenza di quelle nell’altra stanza, erano munite di veneziane grigio chiaro. Un sofà di pelle semicircolare e un tavolino di cristallo occupavano lo spazio centrale, di fronte a una TV a schermo panoramico, con Blu ray e Dolby Surround, vicino alla finestra. Tutta roba di alto livello.
Sarah mi porse il whisky. «Chiudi la bocca, altrimenti ti entrano le mosche.»
Bevve un sorso di birra, la posò su una tovaglietta gialla sopra il tavolino e tornò in cucina a preparare qualcosa da mangiare.
Camminai qua e là, esaminando i ninnoli e ammirando i quadri. «Non è proprio come mi aspettavo.»
Versò un po’ di nachos in una ciotola. «Non ne dubito, ma preferisco non dare nell’occhio.»
Osservai quella specie di appartamento nell’appartamento. Su un lato della porta che conduceva in quel paese delle meraviglie, c’erano una libreria di metallo traboccante di volumi disposti a casaccio e, sulla destra, una scrivania dal ripiano in vetro, con sopra due computer e sotto, sospesa, una stampante wireless. Due computer. Io non ne avevo nemmeno uno. Erano entrambi di plastica trasparente, a schermo piatto. Uno aveva anche una specie di sistema audio ai lati: alti cilindri di vetro inclinati su ciambelle grigie con quattro minicasse incorporate.
Spostai un mouse di plastica trasparente e lo schermo sulla sinistra prese vita, visualizzando una lunga lista di gruppi musicali e album, come un mega juke-box.
Sarah mi aveva osservato mentre preparava i nachos e le salse. «Qual è la musica che piace a voi detective?» Stava già tornando, coi tacchi che picchiettavano sul parquet.
«Tutti i generi, direi. Anche se ho sempre avuto un debole per Nina Simone. Una voce senza pari, a mio modesto…»
Si piegò sopra la mia spalla, avviò la funzione di ricerca sullo schermo e digitò Nina. La lista scomparve, sostituita da due sole voci: «Canta Nina – Latino for the Soul» e «Nina Simone – The Greatest Hits». Doppio clic sulla seconda, e il soave esordio di Here comes the sun uscì dolcemente dai bastoni di vetro.
Sarah recuperò la birra. «Ne ho quasi per tutti i gusti.»
«Ti va di spiegarmi perché preferisci non dare nell’occhio?»
«Non c’è molto da dire.» Bevve un lungo sorso. «Gli oggetti che cerco possono essere preziosi, se qualcuno li vuole a tutti i costi. Alcuni potrebbero persino essere considerati inestimabili. Penso solo sia utile sembrare l’ultima persona che potrebbe ritrovare e vendere quel genere di reperti.»
Avevo riscontrato la stessa strategia tra gli spacciatori di medio livello. «Così se qualcuno bussa alla porta e tu apri…?»
«Vedono soltanto l’altra stanza», concluse orgogliosa.
Preoccupante, ma astuto. Anzi, così astuto da essere preoccupante. «Dato che ami ’ritrovare’ gli oggetti, cosa c’entra la mappa cui hai accennato?» Le porsi il foglio in latino.
Scosse il capo, come se stentasse ancora a credere di tenere in mano quella fotocopia scadente. «È un sistema abbastanza comune.» Mi restituì la pagina e spostò il mouse dell’altro computer per attivare lo schermo. «Vedi, nel Medioevo le persone nascondevano le cose di continuo, per le ragioni più svariate. Gli eventuali indizi che lasciavano si rivolgevano soltanto a coloro che conoscevano un particolare metodo. Uno di questi era codificare le informazioni all’interno dei dipinti.»
Andò verso una pila di chiavette USB dietro il monitor, ne scelse una denominata Dipinti e la inserì. Quando comparve l’icona del disco, aprì la cartella Teniers e poi, da un elenco di cartelle ordinate per anno, selezionò 1645.
«Ma questo non è altro che un appunto», obiettai scettico.
«Sì, ma può comunque essere una mappa. Una mappa scritta, del tipo ’vai qui, svolta lì’. E un tempo era anche allegata a un dipinto. Anzi, posso dirti con esattezza a quale dipinto, e non l’ho dedotto solo dalla data che qualcuno è stato così gentile da scrivere in cima alla tua copia.»
«Teniers, 1645?»
Annuì, quindi aprì un file. Era ovvio persino per un tecnofobo come me che era una specie di fotografia scansionata, ma raffigurava soltanto un rettangolo beige con un rettangolo molto più piccolo in fondo a destra.
«La tua è una copia leggermente rimpicciolita della pergamena originale.» Bevve un altro sorso di birra. «Ma questa è una foto del retro di un’opera di Teniers. Nell’ingrandimento si vede che qualcosa vi è rimasto attaccato per un certo periodo. Le analisi hanno rilevato anche tracce di gomma arabica, il che confermerebbe questa teoria.» Passò l’indice sui bordi. «Ora, poiché lo scolorimento dell’area circostante è così leggero – da cui la necessità di un ingrandimento al computer – ciò sembra indicare che la pergamena originale non sia rimasta a lungo sul retro del dipinto. Ecco perché è stata così difficile da rintracciare. Secondo i miei calcoli, l’originale dovrebbe essere un po’ più grande: circa il dieci per cento in più della tua riproduzione. L’importante, però, non sono le dimensioni, bensì le proporzioni, l’altezza e la larghezza, e quelle sono esatte.» Chiuse l’immagine. «Il dipinto su cui in origine era attaccata la pergamena è il quasi famigerato Sant’Antonio e san Paolo nel deserto.» Fece doppio clic per richiamare un altro file.
«Famigerato?»
«Oh, altroché.»
«Perché?»
«Perché questo dipinto ha qualcosa che sa di significato nascosto.»
«Sarebbe a dire?»
«Una geometria costruita con grande attenzione e, tutto sommato, superflua.»
«Spiegati meglio.»
Rifletté, come un genitore stanco che si appresti a spiegare il sesso o la fusione nucleare a un bambino di otto anni.
«Tutti i dipinti hanno una geometria. Hai presente? Una struttura definita che segue regole estetiche. La sezione aurea è il metodo più famoso.» Quando alzò gli occhi, capì che non avevo idea di cosa stesse parlando. «È complicato, ma, se tiri una riga dall’alto, dal basso, dalla sinistra o dalla destra di un dato quadro a quasi il sessantadue per cento di distanza, e collochi l’oggetto focale su quella linea… be’, appare bello. Equilibrato. Le cose al centro hanno un aspetto strano. Il sessantadue per cento di lato, in alto o in basso è l’ideale, e molti artisti conoscevano questa formula e la usavano. Gli artisti rinascimentali consideravano questa dimensione così perfetta da chiamarla ’proporzione divina’».
«In pratica è un modo per scegliere il punto migliore in cui mettere le cose?»
«Esatto. È questo che si fa quando si dipinge. Si decide dove è meglio posizionare le cose. A volte si sceglie in base all’aspetto, altre in base al significato. La scrittura ha implicazioni astruse, e anche l’arte. Quando, in un dipinto, si vedono cose che seguono una geometria senza fini estetici, puoi scommetterci le palle che c’è un significato nascosto.»
Guardai il quadro sullo schermo. «E questo avrebbe un significato nascosto?»
«Eccome. È stato studiato per anni da esperti d’arte noti e meno noti. Alla fine, un team inglese ha scoperto il ’quadrato di Teniers’, benché il fatto che non sia un quadrato perfetto, quando avrebbe potuto esserlo facilmente, dimostri che con ogni probabilità c’è sotto qualcos’altro. Penso che il tuo foglio sia il qualcos’altro.» Poi, con entusiasmo quasi infantile, aggiunse: «Vieni, ti faccio vedere. Esamina il dipinto, dimmi cosa noti».
«Non so un accidenti di arte.» In realtà, una cosa la sapevo, e cioè che non sapevo un accidenti.
È sempre meglio riconoscere i propri limiti.
«Rimedieremo presto, te l’assicuro. Coraggio, detective, guarda meglio. Dimmi cosa vedi.»