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Quarantadue chilometri a nord del Fort Tejon State Park, California,
martedì, 18 agosto 2043
A eccezione dei quattro uomini che stavano attraversando quel paesaggio desolato, non c’era nulla che vivesse o respirasse nel giro di ottanta chilometri. Alla fine, la spia del microtelefono lampeggiò e il veicolo si fermò, slittando leggermente sulla sabbia.
L’area era del tutto piatta per almeno un chilometro e mezzo in ogni direzione, con grandi montagne rosse che s’innalzavano sui lati, come una barriera protettiva. Era stata un’idea di Klein, in preda alla paranoia, quella di utilizzare la tecnologia disponibile all’inizio del XXI secolo e scegliere un luogo senza punti di riferimento visibili, che richiedesse una serie di coordinate estremamente accurata per essere individuato da ciascuna delle due parti.
In quel momento, mentre lo spingevano lungo la rampa e ammiravano la splendida mattinata californiana, col sole rovente che proiettava ombre allungate sulla superficie rosso pallido del lago prosciugato, Sherman sorrise dell’astuzia di Klein. Non c’era da temere che negli ultimi trentadue anni qualcuno fosse capitato là.
Sebbene non avessero ancora ricevuto conferma da parte di Alison, dovettero dare per scontato che fosse arrivata a destinazione e che avrebbe portato a termine l’incarico: rubare le tavole a Mason e seppellirle nel posto concordato. Per molti versi erano tentati di cominciare a scavare subito, ma in cuor loro sapevano di non potere; Alison doveva essere partita prima che la vanga affondasse nel terreno. Ciascuno dei quattro uomini era convinto che avrebbero trovato qualcosa di molto speciale, quando avessero rimosso lo strato superficiale di terreno.
Il giorno precedente, dopo molte altre ore dedicate a perlustrare la zona circostante, Alison e Klein avevano passato più di un’ora in quel punto. La ragazza aveva portato qualche birra. Di solito il vecchio non beveva, ma con un po’ d’insistenza aveva ammesso che la scelta del luogo definitivo meritava un brindisi. Anche il caldo insopportabile aveva contribuito a persuaderlo.
Klein era rimasto seduto sulla sedia a rotelle, approfittando dell’ombra proiettata dal quattro per quattro, e aveva guardato il panorama, mentre Alison stappava due bottiglie e gliene porgeva una. Avevano fatto tintinnare i vetri con un sorriso cordiale, poi lei si era appoggiata alla fiancata della vettura, con un berretto da baseball e un paio di occhiali da sole a proteggerla dal riflesso che sembrava inondare tutta l’area.
Dopo il primo sorso, gli aveva fatto la domanda che le ronzava nella mente da troppo tempo: «Cosa ne farai, una volta che ne sarai entrato in possesso?»
Il vecchio non aveva risposto. Non subito. Per quasi un minuto aveva regnato un silenzio inquietante, rotto soltanto dai crepitii del motore che si raffreddava. Aveva pensato alla ricerca cui aveva dedicato l’esistenza e agli eccessi cui sembrava essersi abbandonato per trovare qualcosa di prezioso come le tavole. Aveva riflettuto su ogni aspetto della sua vita, su tutti gli alti e i bassi, e si era accorto, sempre di più negli ultimi mesi, che a guidare la sua esistenza – anzi, a renderla di tanto in tanto divertente – era stata l’incertezza, le incognite che la vita aveva sempre messo sul suo cammino.
«Quando ero piccolo, leggevo moltissimo, giorno e notte. Ero un vero topo di biblioteca», aveva affermato alla fine, con voce carica di nostalgia.
Aveva sorriso orgoglioso, con la sensazione che fossero stati l’amore per i libri e la sete di conoscenza a tutti i livelli a decretare il suo successo.
«Narrativa, ma sempre con un risvolto scientifico. Il genere di testi che prendevano la tecnologia disponibile e la espandevano più di quanto non fossero riuscite a fare le migliori menti scientifiche, per creare un mondo nuovo ed emozionante. Leggevo un libro per qualche tempo e magari arrivavo a metà, ma poi il ragazzino impaziente dentro di me prendeva il sopravvento e mi costringeva ad andare alle ultime pagine, per scoprire come finisse la storia. Dovevo leggere anche il resto, naturalmente, perché non avevo idea di come gli eventi fossero sfociati in quel risultato, ma poi mancava qualcosa. L’entusiasmo scemava. Conoscevo già il finale. Tuttavia, volta dopo volta, correvo avanti, pur sapendo che mi sarei rovinato il divertimento. Alla fine, credo più o meno a quattordici anni, ho trovato la forza di smettere.»
Aveva scrutato il paesaggio, con gli occhi che cercavano un momento ormai passato, e Alison aveva visto un uomo consapevole di essere vicino alla morte. La sua voce aveva il tono riservato alle confessioni, adatto per riconciliarsi con Dio nella speranza che aprisse le braccia e che, nei mesi o nelle settimane a venire, l’accogliesse come uno dei suoi figli.
«Ora mi guardo indietro e mi rendo conto di non avere mai smesso. Tutta la mia vita è stata dedicata alla scoperta, a conoscere il finale prima ancora di essere entrato nella seconda metà del libro.» Aveva scosso la testa, esasperato. «Non è cambiato nulla. Sono ancora lo stesso bambino impaziente.»
Alison l’aveva guardato negli occhi, spenti e infossati, e vi aveva scorto la paura. Aveva anche capito cosa temeva: Klein rischiava di trovare le risposte fondamentali, e poteva darsi che il solo scopo del mondo fosse un viaggio verso di esse. Non appena fossero state in mani umane, la ricerca sarebbe finita e il mondo avrebbe smesso di avere uno scopo. L’emozione della scoperta sarebbe svanita, e tutti avrebbero letto il libro del mondo pur sapendo già cosa sarebbe accaduto. Come nel caso di Klein e dei suoi romanzi scadenti, qualcosa sarebbe venuto a mancare nella vita di ogni singolo abitante del pianeta.
«C’è ancora tempo.» Si era chiesta se Klein avrebbe riscoperto la forza che aveva trovato a quattordici anni.
«No, è troppo tardi. Sta già accadendo. Anche se fallisci, avremo ancora il siberio e la tecnologia. L’umanità farà un altro tentativo, e continuerà a provare finché non ci riuscirà. Perciò, se non lo facciamo noi, di sicuro lo farà qualcun altro. Non si può portare via la conoscenza. Una volta concessa, è indelebile. Non possiamo decidere di cancellarla più di quanto io potessi decidere di dimenticare il finale del libro: non appena lo scoprivo, non riuscivo più a ignorarlo.» L’aveva guardata con serenità rassegnata. «Sono solo contento che la mia vita stia per finire e che non dovrò essere qui a vedere quello che ho fatto.»
Era un’autentica confessione in punto di morte, aveva pensato Alison. Un uomo in cerca di perdono per la catena di eventi inarrestabile che aveva messo in moto. Si era domandata se chiunque avesse preso il suo posto avrebbe avuto il fegato di ammettere che quella farsa era sostanzialmente un errore gigantesco. Quelli come Strauss forse sì, ma non era così sicura di Haga, di Kerr e, soprattutto, di Sherman.
Lui, in particolare, era diventato sempre meno scienziato dal giorno in cui aveva intuito che il mondo aveva una struttura intrinseca e che quella struttura si poteva controllare. Manipolare. Commercializzare. Nei suoi occhi, Alison aveva visto fin troppe volte lo sguardo di una persona più intenzionata a vendere un’idea che ad accogliere una nuova alba.
«Perché mi stai dicendo tutto questo, proprio ora?» aveva domandato lei.
«Non saprei. Senso di colpa? Lo provano anche gli scienziati, sai. Siamo sinceri, Nobel volle che la maggior parte del suo patrimonio da nove milioni di dollari fosse destinata all’assegnazione di premi annuali, compreso quello per la pace, a causa del rimorso che sentiva per aver inventato la dinamite. Sapeva che non avrebbe potuto tornare indietro. Ciò che era fatto era fatto, ma forse voleva dimostrare agli altri di avere una coscienza.»
«Dimmi, Josef, cosa stai cercando ora che hai trovato la via di Damasco? La salvezza, gli elogi? Cosa desideri davvero?»
Klein aveva sorriso di quella metafora ingegnosa. Aveva subito un’autentica conversione; forse non era pronto a cambiare nome o a fondare una nuova Chiesa, ma sembrava che la fine imminente avesse ammorbidito le sue idee irremovibili. La convinzione che pareva aver guidato la sua esistenza non era più al comando, quando c’era di mezzo la morte. Lungo il tragitto aveva perso mordente.
«Voglio l’unica cosa che non posso avere», aveva risposto in tono carico di rimpianto. «Voglio cambiare il passato. Voglio farlo fermare.»
Per i cinque minuti successivi, due degli scienziati più brillanti al mondo, la giovane e il vecchio, erano rimasti in silenzio, all’ombra. Non avevano più fiatato. Klein si era chiesto se, data la «struttura sequenziale» del mondo, il paradiso esistesse ancora.
L’avrebbe scoperto abbastanza presto.
Probabilmente, nello stesso momento in cui fosse arrivata la sua lettera di rifiuto.
Meno di ventiquattr’ore dopo quella confessione, Klein fissò ancora una volta il luogo di recupero mentre i suoi tre colleghi aspettavano ansiosi notizie da Strauss. Abbassò lo sguardo sui palmi aperti, con le linee della vita più profonde di quanto non fossero state in passato, ma di sicuro non più lunghe, quindi chiuse gli occhi e rivolse una preghiera ai numeri.
Kerr e Haga chiacchieravano del più e del meno, mentre Sherman camminava spazientito avanti e indietro, con la radio stretta nella destra. Si avvicinò a Klein e si mise di fianco alla sedia a rotelle, senza guardarlo direttamente. «Sei sicuro che farà la cosa giusta?»
Il vecchio sorrise. Sperava di sì, anche se non per Sherman. «Sì, sicurissimo.»
«E l’esplosione a Cardou? Credi sia stata lei?»
«No, penso che dobbiamo ringraziare Mason per quel piccolo regalo. Miss Bond farà esattamente ciò che le è stato ordinato, puoi starne certo.»
Ordinato. Da chi? Da cosa? Sherman gli lanciò un’occhiata sospettosa e si allontanò, anche se era abbastanza sicuro che le cose stessero andando secondo i piani. Chi avrebbe mai immaginato che la predilezione della sua ex moglie per quella che lui chiamava TV-MCD (televisione del minimo comune denominatore) gli avrebbe permesso di essere là quel giorno, ad assistere a quegli eventi? La scoperta di una presunta serie di leggi che aveva eluso gli scienziati migliori del mondo. Le leggi vincolanti. Grazie alla carriera fatta nella KRT e alla scoperta fortuita del potere del siberio da parte di Strauss, era il membro più influente del team più importante all’interno dell’organizzazione. Se si aggiungeva un po’ di conoscenza irrazionale, era a un passo dal potersi permettere un bel paio di scarpe italiane.
Non commettere errori, ormai manca poco, si disse. Quell’occasione avrebbe potuto essere il suo trampolino di lancio, quello da cui David Sherman avrebbe potuto spiccare l’ultimo salto e tuffarsi nelle acque cristalline della dominazione scientifica globale. Ogni aspetto della progettazione, della produzione e dell’innovazione sarebbe stato dettato da una tecnologia nata dalle risposte a tutti i problemi che il campo indebolito della fisica avesse messo sul tavolo. Naturalmente, dato il tipo di tecnologia, sarebbero stati fissati prezzi che evidenziassero la genialità e la rapidità con cui si poteva progredire.
I computer sarebbero stati più veloci, così come le auto e gli aerei, e come il progresso tecnologico in generale. Durante i vertiginosi giorni successivi, nulla sarebbe stato più svelto dell’ascesa folgorante di David Sherman. Non avrebbe nemmeno dovuto progettare né fabbricare qualcosa. Non avrebbe dovuto preoccuparsi di uffici né di spese esorbitanti, non più di quanto avrebbe dovuto pensare all’imballaggio e alla spedizione. Avrebbe gestito soltanto informazioni pure, utilizzabili e brevettabili, e non avrebbe dovuto fare altro che rilassarsi e restare a guardare, mentre i diritti di sfruttamento superavano quelli di qualunque azienda nella storia.
Persino la Microsoft, con le sue abili negoziazioni con l’IBM, o la Apple, con iOwnEverything, si sarebbero meravigliate della nuova iniziativa, dopo che avevano convinto se stesse e gli altri che il mondo fosse molto più furbo e che una simile mossa finanziaria non si sarebbe mai più ripetuta.
Sherman aveva quarantanove anni. Abbastanza vecchio per comprendere gli schemi commerciali in cui sarebbe incappato, ma sufficientemente giovane per godere delle ricompense che il lavoro gli avrebbe offerto. Quella non era la giornata di Josef Klein. Josef era troppo anziano e debole per apprezzare quel genere di cose. Quello era il giorno di Sherman, il futuro era suo.
La radio crepitò. A quanto sembrava, neppure la tecnologia digitale senza onde era in grado di ridurre la crescente quantità di merda che pareva infettare l’atmosfera terrestre. Poi, la voce di Strauss all’altro capo della linea. Non emozionata ma rassegnata, come se forse sentisse già la mancanza di qualcuno.
«Okay, ragazzi. È partita.»
«Bene.» Sherman spense il dispositivo. Non aveva il tempo né la voglia di scambiare convenevoli.
Klein sospirò, quindi fece un cenno a Haga e a Kerr, entrambi in trepidante attesa. Si sorrisero, dopodiché andarono verso l’auto, aprirono la portiera e recuperarono due vanghe. Sherman li seguì e prese una valigetta rosso scuro, imbottita all’interno, con cui le tavole sarebbero state trasportate fino a Los Angeles, una volta che il dissotterramento fosse stato completo. Dati la salute precaria di Klein e il proprio senso di superiorità per aver scoperto la tecnologia, Sherman decise – senza cercare l’approvazione degli altri – che era giunto il momento di prendere in mano la situazione.
Attraversò lentamente il letto piatto del lago, stringendo il GPS, coi numeri sullo schermo che cambiavano a ogni passo. Si fermò, ricontrollò le coordinate definitive e, con la punta del piede, abozzò una X sul velo di sabbia che si era depositato sopra il terreno indurito.
«Okay. È ora d’iniziare a scavare», disse senza alzare gli occhi.