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Los Angeles,

giovedì, 9 giugno 2011

Si prospettava una giornata di merda. Certo, ne avevo avute di peggiori – le rughe sul mio volto dovrebbero confermartelo –, ma non mi ero mai trovato in una situazione che non offrisse almeno una vaga parvenza di compensazione allo schifo.

Alle nove avevo trascinato in tribunale due volgari spacciatori con indosso completi che io non potevo permettermi. A mezzogiorno avevo riaccompagnato gli stessi due tizi sulla strada, affiancati da avvocati con cravatte che io non potevo permettermi. Non sapevo con esattezza quando una delle loro clienti diciassettenni si sarebbe fumata un’altra stagnola di eroina, rimettendoci le penne e lasciando un altro gruppetto di bambini (sempre più di uno) senza luce, cibo e riscaldamento finché i vicini non avessero cominciato a farsi qualche domanda, finché il tanfo del cadavere di mammina non fosse diventato insopportabile.

Probabilmente nel giro di un’ora.

Camminai sotto la pioggia più sporca di cui abbia memoria, e arrivai al Jack’s Shack alle dodici e dieci, mentre contavo le monetine che avevo in tasca per comprare un pacchetto di sigarette da venti. Quando entrai, Barry (il «Jack» del Jack’s Shack) mi fece un bel sorriso giamaicano, e mi rivolse un’occhiata delusa quando uscii. Non fiatai. Quella volta avevo resistito quattro giorni, tre ore e ventisei minuti (più o meno, ovviamente) e questo, amico mio, è un record. Avevo battuto quello precedente di circa quattro giorni.

Mi sedetti al solito posto da Cody, col cappotto che gocciolava come se avessi del ghiaccio nelle tasche, e guardai fuori appena in tempo per vedere i miei volgari spacciatori montare su un’auto che non potevano permettersi. Quindi la vettura scomparve con una leggera sgommata lungo l’interstatale 101.

A questo punto, forse, ti aspetteresti di sentire le parole: «Fu l’ultima volta che la vidi», ma non posso pronunciarle. Ero certo che sarebbe tornata. Vedrai se non avevo ragione.

L’indomani, o forse il giorno successivo, avrei comprato un altro pacchetto di sigarette e avrei guardato la stessa automobile tirar su altri tizi con le unghie bordate di nero che, intelligentemente, non si erano mai azzardati a fare la cresta al tipo che, invece, aveva le mani pulite. Lui avrebbe messo a loro disposizione un costoso avvocato, che come al solito si sarebbe occupato dei cavilli legali, quindi avrebbe mandato l’auto a prenderli. Infine, dopo essersi fatto un’altra risata alle mie spalle, avrebbe sguinzagliato i suoi piraña perché tornassero a nuotare davanti alle scuole.

Ecco cos’erano per me: viscidi pesci piccoli. Li catturavi, li tiravi su, li tenevi abbastanza a lungo per procurarti qualche morso e poi li ributtavi in acqua. Mi sono sempre stupito di non aver mai portato da Cody delle foto segnaletiche da passare agli altri mentre bevevamo una birra. Ehi, ragazzi… Date un’occhiata al tizio che mi è sfuggito oggi!

Come se sarebbe servito a qualcosa. Come ho detto, quelli erano pesci piccoli. Non si mettono le loro fotografie in una cornice di mogano per poi appenderle sopra il caminetto. Cazzo, il più delle volte non riuscivo nemmeno a impedire ai giudici di ributtare i pesci pilota nel mio stagno torbido, in una corrente sottomarina che sembrava muoversi sempre in circolo.

Nel frattempo, avevo tre rapporti da scrivere, perciò sarei dovuto tornare a pescare il giorno successivo, all’alba. Buttai giù il whisky e misi i soldi sul bancone.

Cody non disse nulla, ma la sua espressione era molto eloquente. Sembrava che il sorriso sdegnato di Barry stesse diventando contagioso.

Avevo un disperato bisogno di un’altra sigaretta, ma decisi di avere pazienza e che prima avrei finito quella che stavo fumando.

I tre fascicoli erano sulla mia scrivania, assieme a una nuova pila di dossier ancora intatti che spostai sul mucchio di pratiche Da evadere, eretto accuratamente sul pavimento. L’aria condizionata fece svolazzare un post-it scritto a mano che era appiccicato alla foto di Katherine e Vicki (non avevo mai trovato il tempo di cercarne una di Vicki da sola), e non solo decisi d’ignorarlo, ma anche di staccarlo, appallottolarlo e di gettarlo in direzione del cestino. Non perché fosse scritto a mano, beninteso, ma perché mi era bastata un’occhiata per riconoscere la grafia di Deacon, e lui poteva aspettare. Tirai fuori il posacenere dal primo cassetto. Quattro giorni dall’ultima volta che l’avevo visto, e molti di più dall’ultima volta che l’avevo svuotato. Aggiunsi un altro mozzicone, sospirai e mi concentrai sulle scartoffie.

Da una delle tante scrivanie alle mie spalle provennero il fischio di Wells e il rumore di due mani che battevano il cinque; senza dubbio Rodriguez stava pagando almeno venti dollari per aver perso una scommessa. Non so chi avesse puntato su un’astinenza più lunga, e non mi voltai per scoprirlo. Mi limitai a fare soltanto ciò che facevo di solito: starmene per conto mio e fare il mio dovere, che in quel momento consisteva nello scrivere rapporti di merda.

Nel frattempo, da sinistra, giungeva il richiamo irresistibile del post-it: Nel mio ufficio

Una volta completato il secondo rapporto, la curiosità ebbe la meglio e recuperai il biglietto, aprendolo sulle parole prima di fare qualsiasi altra cosa.

Notai che aveva avuto la creatività di sottolineare il «prima». Un autentico tocco di classe.

Un’altra sigaretta fumata a metà, la quarta nel giro di un’ora, andò a formare la vetta del monte Marlboro quando aprii il cassetto in fondo a destra – quello speciale – e mi chinai per bere un sorso di Jack Daniel’s, immaginando che ne avrei avuto bisogno.

Presi la giacca e salii al terzo piano. Non che fosse necessaria per accedere a quella parte dell’edificio, beninteso – non era un club così esclusivo –, ma di solito gli inviti personali di Deacon non lasciavano molto tempo per rifermarsi al secondo, prima di uscire. Perciò, meglio avere con sé l’occorrente.

Quando entrai, era al telefono e, come sempre, dava l’impressione che sua madre l’avesse vestito per un colloquio di lavoro che non avrebbe mai ottenuto. Pareva inoltre stranamente agitato. Okay, anche se le veneziane erano abbassate la stanza era soffocante, ma ebbi la netta sensazione che fosse la voce all’altro capo del filo a imperlargli la fronte di sudore.

Quell’immagine mi piacque. Deacon sulla difensiva, intendo. Doveva essere sua moglie, o una delle sue tre figlie fastidiosamente precoci. Si stava scusando con qualcuno, ed era una scena degna di essere filmata. Ogni suo sguardo mi diceva che avrei dovuto bussare, mentre la sua mano curata tirava indietro i capelli sudati e ingellati, lasciando intravedere un gemello cifrato: una D maiuscola, in tondo. Deacon ovunque.

Che tu ci creda o no, ero sempre stato un tipo corretto e obbedivo a una regola non scritta: se e quando Deacon avesse portato a termine l’impresa irrealizzabile di totalizzare otto anni di servizio più di me, avrei iniziato a bussare. Sino ad allora avrebbe dovuto tenere le grane familiari e i post-it un po’ più lontani le une dagli altri.

Quando riagganciò, sfoderai il sorrisetto che avevo perfezionato così bene, quello che aveva l’infallibile capacità di farlo incazzare. Perché no? Avrei scommesso dieci dollari che ero là perché lui potesse far incazzare me, e ritengo che cose come queste debbano funzionare in entrambi i sensi. Quando mi fa comodo, credo fermamente nell’uguaglianza sul posto di lavoro.

«Se hai impegni per stasera, Lambert, ti consiglio di annullarli.» Si voltò con fare indifferente ed estrasse una Coca-Cola light da un minifrigo effetto legno accanto alla finestra.

La Coca-Cola sarebbe già stata un affronto, ma la versione light? Che fine avevano fatto i poliziotti alcolizzati che si vedevano nei film? Impiegai un momento, ma poi ci arrivai: l’unico rimasto era di fronte alla scrivania di Deacon, sulla quale era posato un fascicolo oltremodo sottile.

«L’Oakdene», disse senza tanti preamboli, nell’appoggiarsi allo schienale della poltrona e tirando la linguetta della lattina (con delicatezza, però, perché la manicure costava una fortuna). «Facci un salto. Voglio che indaghi su una paziente, una ragazza.»

«Magnifico», commentai nel tono più sarcastico che riuscii a trovare.

Vedi, nella nostra stazione di polizia (come in molte altre, ne sono certo) l’espressione «una ragazza», riferita a un’indagine importante, aveva un significato sancito dall’uso. Alludeva, nella maggior parte dei casi, a una particolare categoria di donne, quelle che vanno a letto e collaborano più volentieri coi cattivi che coi buoni.

Se lo tieni presente, sarai più disposto a perdonarmi quando saprai che mi servì qualche istante per mostrarmi soddisfatto dell’incarico. L’interessata non mi avrebbe detto niente e poi mi avrebbe suggerito di farmi una sega.

Aprii il fascicolo e vidi tre fotocopie scadenti di un originale scadente. Otto capoversi in latino, scarabocchiati su un foglio lercio, con le parole itineris haud temptatio cerchiate e contrassegnate da un asterisco. Sono certo che non ti sorprenderà, ma, a parte suggerire un futuro metodo per imbrogliare a Scarabeo, per me non significavano granché. Le altre due copie riproducevano le foto dell’autopsia: una era il primo piano di un tatuaggio sulla caviglia di un uomo morto; l’altra, un primo piano del suo volto. Non sembrava particolarmente felice, devo ammetterlo, ma d’altro canto era andato al creatore. Insomma, date le circostanze, chi diavolo avrebbe fatto i salti di gioia?

«Quel tizio si è beccato tre pallottole nel petto, una nel braccio e una che gli ha staccato una generosa porzione di orecchio. La nettezza urbana l’ha trovato in una pozza di sangue dietro il Mister Yang. A quanto pare, non sono stati nemmeno i primi proiettili a colpirlo, ma soltanto i primi a ucciderlo. Ha anche due brutti segni di pallottole in fondo alla schiena, che forse risalgono a quattro o cinque anni fa, e almeno cinque ferite di arma da taglio più o meno vecchie. Una non si è ancora cicatrizzata del tutto, perciò può avere al massimo otto settimane. Da sola, sarebbe bastata a farlo finire nel penitenziario di contea, ma non è registrato in nessuna centrale di Los Angeles. Suppongo non sia di queste parti», proseguì Deacon, senza alzare lo sguardo.

Si mise comodo sulla poltrona di pelle nera dallo schienale alto. Quando si trattava di poltrone di pelle, quelle dei capi avevano sempre lo schienale alto. Più numerose erano le vacche morte su cui si appoggiavano le chiappe, e più aumentava l’autorità che si esercitava. Era una specie di legge. Avevo sempre sospettato che Deacon non sarebbe stato soddisfatto, finché non fossi entrato e non l’avessi trovato a cavalcioni di un manzo ancora vivo, intento a sventolare il cappello.

«L’hanno fatto fuori, e io vorrei sapere il perché», osservò in tono piatto.

«E nessuno ha visto o sentito niente, vero?»

Domanda retorica.

Il Mister Yang era un supermercato cinese, uno di quelli con cibi che non avevi mai assaggiato e altri che non ti eri mai accorto di non aver assaggiato. Esisteva da che ricordavo. Peccato sorgesse su 5th Street, che nel corso degli anni era passata da avere uno status modesto a essere la parte più di merda della parte più di merda della città. Rifugi per senzatetto, alloggi popolari, mense per i poveri. Spaccio, stupri, accoltellamenti e sparatorie. Non mancava nulla. Andavo al Mister Yang solo quando la cassa era stata ripulita e/o quando il nuovo commesso era andato incontro allo stesso destino del suo predecessore. Ogni volta, sempre lo stesso ritornello: nessuno aveva visto niente.

Una strana coincidenza.

Il supermercato non c’è più (in caso ti venga voglia di essere rapinato in stile Sichuan). Fu incendiato circa due anni dopo il ritrovamento del cadavere, e tutto il cibo fu cucinato in un grande barbecue lungo la strada. Ora, so che è un’autentica vergogna perdere per sempre un’istituzione di lunga data come il Mister Yang, ma, fidati, io c’ero e il profumo era delizioso.

Deacon tirò fuori da un fascicolo una fotografia di venticinque centimetri per venti e la posò sulla scrivania. La presi e vidi un’immagine, a colori e a figura intera, del cadavere nudo, con gli occhi e la bocca spalancati. Fin là, nulla d’insolito. Anche chi si aspetta di morire non prevede che sia doloroso quanto lo è in realtà. Il nostro uomo aveva fra i trentacinque e i quarant’anni, coi capelli a spazzola e col pizzetto. Una fila di punti malfatti che si allungava dall’addome allo sterno indicava che un medico legale gli aveva già frugato nelle viscere, lasciando a un goffo novellino il compito di ricucirlo nel gelo perenne dell’obitorio.

«Noterai che sul frammento in latino ci sono due aggiunte scritte a mano. Una dice: ’Teniers – 1645’, che a quanto pare è un riferimento a un artista attivo in quell’epoca, perciò potrebbe trattarsi di un furto d’arte, o forse di una truffa. Ma l’altra dice: ’Tina Fiddes – 113’.»

«Cioè?»

«C’è voluta qualche ricerca, ma alla fine abbiamo scoperto che sono il nome e il numero di stanza di una paziente dell’Oakdene. Non abbiamo ancora idea di cosa ne sappia di arte, ed è qui che entri in gioco tu.»

«Vaffanculo, Deacon.» Sbattei la foto sulla scrivania. Stentavo quasi a credere che mi stesse facendo di nuovo una cosa simile. Quasi, perché stiamo parlando di Deacon. «Chi sarebbero questi ’noi’? Chi è coinvolto?»

Silenzio.

«Deacon, chi è coinvolto?» insistetti.

Bevve un lungo sorso di Coca-Cola – anzi, di Coca-Cola light –, si pulì la bocca e sorrise. Dalla sua espressione capii che non avrei gradito la risposta e che me l’avrebbe data proprio per quella ragione. Il fatto è che ero ben informato su completi, camicie, cravatte, orologi, gemelli e roba simile. Quella che indossava Deacon, insomma. Avevo perso il conto delle persone che avevo messo dentro per aver rubato o piazzato oggetti di quel genere, perciò sapevo che i ricettatori portavano bei completi e brutte camicie e che gli avvocati prediligevano bei completi e belle camicie. Deacon, invece, preferiva il brutto in entrambi i casi.

Certo, i suoi vestiti sembravano di buona fattura, ma era merito di uno shopping attento, non dell’alta sartoria. I tipi che mettevo in gattabuia non si sarebbero fatti vedere con quegli stracci neanche morti. Tuttavia, avevo sempre riconosciuto gli sforzi che Deacon faceva nonostante lo stipendio da fame. Più sostanzioso del mio, senza dubbio, ma molto meno di quello degli agenti dell’FBI, di cui un tempo aveva voluto far parte.

Ogni singolo centesimo finiva dritto nelle bocche petulanti delle sue figlie. Il genere di bocche che va nutrito con borsette e scarpe abbinate, e poi un vestito nuovo perché le scarpe sono di una sfumatura di primula diversa da quello vecchio e, ora che hanno il vestito, questa borsetta fa davvero pendant, oppure è bene comprare anche una pochette, tanto per sicurezza? Spendere, spendere, spendere.

Tutte a eccezione di Emma, la rappresentante più giovane e viziata della famiglia Deacon. A quanto ne sapevo, non era molto interessata all’abbigliamento; dalla sua bocca uscivano soltanto richieste per altre rette scolastiche e per un altro pony dal culo grasso su cui non sarebbe mai montata.

Oh, sì, aggiungiamo anche Braxton, il cucciolo di sanbernardo, perché dubito che sfamarlo fosse economico.

Ma perché tocco questo argomento? Perché le camicie e i completi mi suggerivano che nel suo portafoglio di cuoio italiano restavano soltanto pochi spiccioli, una volta che le signore si erano messe in ghingheri e che era stato pagato l’affitto mensile del box per il pony. Di conseguenza, i suoi denti di un bianco impeccabile, che scintillavano e luccicavano fastidiosamente ogni volta che si rivolgeva a una giovane poliziotta o propinava incarichi di merda a un agente di una certa età e più mascolino, come potevo essere io, dovevano essere stati acquistati a credito.

E, se un uomo non era padrone dei propri denti, non volevo certo che mi sorridesse in quel modo.

«Ellis e Dean», rispose imperturbabile. Uno scintillio intenso, un luccichio irritante.

«Di nuovo, vaffanculo.» Tanto per ribadire il concetto. «Da quando sono diventato il galoppino di Ellis e Dean? Non vogliono scomodarsi, giusto?»

Lui si sporse in avanti, mi guardò dritto negli occhi, col mento appoggiato sulle mani, e cercò di stamparsi un’espressione misteriosa sul volto dall’abbronzatura finta. «Per caso vuoi sapere cosa aveva addosso il tizio, quando l’abbiamo trovato?»

Risi. «Perché dovrebbe fregarmene qualcosa?»

Ma Deacon non era stupido. Lo sapevo bene. Era indisponente, certo, e meno acuto di quanto avrebbe richiesto la sua posizione, ma non stupido. Era consapevole di aver stuzzicato la mia curiosità.

Fece un sorriso enigmatico, uno di quelli che detesto. «Be’, diciamo soltanto che era in costume adamitico. Aggiungi il fatto che gli hanno bruciato i polpastrelli – un lavoro da professionisti, sembrerebbe –, e abbiamo un cadavere nudo senza impronte digitali, senza tasche in cui riporre le monetine e senza nulla che assomigli anche solo vagamente a un indizio sul motivo per cui ha cinque pallottole in corpo.»

«Ma abbiamo il testo in latino. E la ragazza.»

«No, non sulla scena del crimine. Quelli entrano in gioco in un secondo momento.» Tirò fuori un’altra fotografia. Mostrava un cilindretto di gomma gialla, con la forma e le dimensioni di un sigaro fumato a metà, uno di quelli grossi e costosi. Intuii che le rivelazioni successive non mi sarebbero piaciute.

«Compaiono solo quando la tua amica dottoressa Jessie gli apre l’intestino per vedere cosa abbia mangiato di recente e trova questo. Pare che qualcuno non abbia gradito quel che teneva in mano e gli abbia detto di ficcarselo letteralmente nel culo.» Sorrise della battuta. Se fosse stata spiritosa, forse l’avrei imitato.

«Le storie sui cadaveri con un turacciolo di gomma contenente un testo in lingua straniera infilato nel didietro finiscono ben presto sulla bocca di tutti. Insomma, non è una cosa di tutti i giorni come la cocaina o l’eroina. Nessuno è mai stato sbattuto dietro le sbarre per aver introdotto illegalmente nel Paese un testo latino del IV secolo. Perché è di questo che si tratta, tra parentesi. Così, alle cinque di questa mattina, con immensa gioia di Jennifer, vengo trascinato giù dal letto perché i federali vogliono dare un’occhiata al caso. Al mio caso. E gliel’hanno data eccome. Per tutti i quindici minuti che hanno impiegato a mettere i maledetti fascicoli negli scatoloni e portarli via.»

Il mio caso. I federali. Ora sì che cominciavo a capire. Se c’era una cosa che Deacon odiava più di vedermi ingarbugliare uno dei suoi casi, era vedere i federali che arrivavano e glielo rubavano, negandomi quell’opportunità. Immagino che sarebbe stato tutto molto diverso se l’anno precedente avesse superato la loro visita medica, ma era così che stavano le cose.

«E le fotografie?» Le indicai.

«Fortunatamente per noi erano già nel circuito, perciò abbiamo fatto delle copie per ciascuna squadra. Ellis e Dean assumono il comando e si concentrano sul cadavere, sulla scena del crimine e sull’indagine scientifica. Rodriguez e Wells stanno decifrando il testo latino e verificando il legame con Teniers, e tu – proprio come nei film – ’ti becchi la ragazza’.» Fece un irritante segno con gli indici e i medi a simulare le virgolette.

«E passo a Ellis e a Dean tutto quello che trovo, giusto?» Feci una risata sommessa. «A quanti ’vaffanculo’ sono arrivato?»

«Qualunque cosa trovi la passi a me», replicò in tono severo. «Sai che odio essere sincero con te, per via della nostra antipatia reciproca, ma non mi piace affatto l’idea che i federali mi portino via i casi. Se salta fuori un morto nel nostro quartiere, siamo noi a dover scoprire quale dei nostri vicini l’ha ucciso. È il nostro lavoro, ciò per cui siamo pagati. Lascia fare ai federali, e scommetto che non ne sapremo più niente.» Finì la Coca-Cola, accartocciò la lattina e la gettò nella spazzatura. «A proposito, sei arrivato a tre.» Si abbandonò contro lo schienale. Aveva ancora un’aria seria. «Ascolta, Nick, ho un cadavere tra le mani e voglio scoprire il perché, voglio sapere come mai ha un testo latino infilato nel culo e come mai è così interessato a Tina Fiddes – 113. Sarebbe bello anche appurare da dove vengono le pallottole che l’hanno ucciso e per quale motivo. Anche se le macchie di sangue indicano che è stato assassinato nel vicolo, i due proiettili che l’hanno trapassato non si trovano da nessuna parte.»

La provenienza delle pallottole. Interessante. Forse. «Dunque i proiettili non sono standard?»

«Fatti su ordinazione. Una lega un po’ diversa da quelle reperibili in commercio. Invece di rame e nickel puri, contengono anche il sette per cento circa di zinco e il tre di magnesio. La balistica sta ancora cercando di venirne a capo. Il fatto che probabilmente le pallottole siano fatte in casa o fabbricate su ordinazione è positivo perché, se scopriamo da dove vengono, forse rintracciamo l’acquirente o il produttore. E in quel caso…»

«Rintracciamo il killer.»

«Esatto.»

«Ho un’alternativa?»

Sospirò. «Ascolta, sappiamo entrambi che sei ridotto male. Sei diventato l’ombra di te stesso da quando…» Fortunatamente per me, ma soprattutto per lui e per il suo benessere, non finì la frase. «Be’, ti è andata bene che non ti abbia affiancato nessuno. A proposito, ora che ci penso: non sei venuto alla conferenza stampa di questa mattina, vero?»

«Quella per i due teppisti rincoglioniti? Presto si ritroveranno ancora davanti a un giudice, aspetta e vedrai.»

«Hai perfettamente ragione. E potrebbe succedere prima di quanto tu possa immaginare», confermò criptico.

Non avevo idea di dove volesse andare a parare. «Sarebbe a dire?»

«Sarebbe a dire che, per quanto quei due siano ’rincoglioniti’, i loro avvocati non lo sono affatto. Negli ultimi tempi hanno letto il dizionario e se ne sono venuti fuori con paroloni come ’brutalità’, ’controazione’ e ’risarcimento’.»

Restai a bocca aperta. «Vuoi scherzare. È stata una reazione giustificata, Cristo santo. Erano armati e hanno fatto resistenza all’arresto. In più, erano dei rifiuti umani.»

«Una giuria civile se la berrebbe, se tu fossi stato così furbo da non rifare loro i connotati mentre uno dei due era non solo disarmato, ma anche ammanettato a una ringhiera. Tra l’altro, hanno alcuni testimoni attendibili.»

«Ce la caveremo.»

«Forse. Tu, però, ti ritroverai faccia a faccia con un Armani. Non so se mi spiego.»

Purtroppo si era spiegato benissimo. Armani: un completo molto costoso, un abito che non potevo permettermi, e non soltanto da un punto di vista economico.

«Cosa vuoi dire, Deacon? Vuoi lasciarmi nei casini?»

«Non è nel mio stile. A meno che non sia… come posso dire? Giustificabile. A ogni modo, posso offrirti un’alternativa. Solo non posso garantire che ti soddisfi. Ti voglio subito fuori dei pasticci e, se significa che per un po’ dovrai sbrigare lavori da pivello, sarò lieto di affibbiarteli. In ogni caso, finché non si saranno calmate le acque ti occuperai soltanto di scartoffie. Quelle di Ellis, di Dean e di tutti quanti. Cristo, gli preparerai il caffè, se serve a tenerti fuori dalle scatole, ma immagino che, anche se t’incatenassi alla macchinetta, in un modo o nell’altro riusciresti a combinare un guaio.» Fece un profondo respiro. «Senza tanti giri di parole, Nick, ti sto consigliando di darti una regolata.»

«Sai una cosa, Deacon? Mi chiami Nick solo quando vuoi qualcosa.»

«Infatti. Voglio che la pianti di comportarti da stronzo e che faccia un po’ di lavoro di squadra per una volta nella tua maledetta vita. Così potremmo battere i federali sul tempo e, quando arriverà il momento, potresti ricevere tutto l’aiuto e il sostegno di cui hai bisogno.»

Presi la foto ostentando riluttanza. Finsi di guardarla distrattamente, ma non era così e credo che l’avesse capito anche Deacon. La stavo studiando in cerca di qualcosa che non sapevo ancora, qualunque cosa mi desse un vantaggio su Ellis, col suo master in profiling psicologico, e sul suo compare, il mago della tecnologia. Il vago sorriso di Deacon mi disse che aveva intuito che volevo tornare a fare il poliziotto e che sapeva anche il perché: per quanto detestassi ammetterlo, non ero motivato soltanto dalle sue minacce, ma anche da una profonda curiosità, ed era quella che di solito metteva un piedipiatti sulla buona strada verso la soluzione di un caso. Secondo la mia esperienza, non c’è nulla di meglio per spingere una persona all’azione.

Anche le minacce ebbero il loro peso, naturalmente.

Dallo scintillio nei suoi occhi intuii che sapeva quanto fossi incazzato per dovermi sorbire tutti i dettagli. Non che gliene importasse qualcosa.

La foto del cadavere sembrava, be’, la foto di un cadavere: un tizio morto su un tavolo dell’obitorio. A volte le cose sono molto semplici.

Ipotizzai però che fosse stata un’arma automatica a ridurlo così. I fori d’entrata non presentavano le bruciature o le lesioni tipiche di un colpo a bruciapelo, ma tutti e cinque i proiettili gli avevano centrato la parte superiore del corpo mentre era ancora in piedi. Avrebbe potuto trattarsi di cinque killer, ovviamente (il che avrebbe significato un vero e proprio attentato), ma per qualche ragione non ne ero convinto. Le ferite erano quasi in fila, a suggerire una sventagliata sparata da una sola persona. Alcune deduzioni vennero spontanee, ad esempio l’ipotesi che la raffica di ritorno fosse arrivata quando quel poveretto si stava già accasciando. Era stato allora che gli avevano mozzato l’orecchio, staccandogliene due terzi.

Deacon mi guardò come a dire: Sei ancora qui? Eh, sì, ero ancora là. Per un altro minuto. Perché, dato che non avevo molto su cui concentrarmi, stavo esaminando il tatuaggio. Di norma, un dettaglio come quello, a meno che non dimostrasse senza ombra di dubbio l’appartenenza a una banda, non avrebbe attirato la mia attenzione. E quello non aveva nulla a che fare con le bande. Dopotutto, non era altro che un bel disegno. Quasi tutti i ragazzi sotto i venticinque anni ne hanno almeno due incisi in modo indelebile sul proprio corpo.

Tuttavia, quel particolare simbolo di fedeltà, se è questo ciò che era (o che era stato), si trovava sulla caviglia sinistra. L’istinto mi suggerì che era più di un semplice disegno, che per qualcuno significasse qualcosa. Non che quel qualcuno fossi io, ovviamente.

Deacon continuò a guardarmi. Mi chiesi fino a che punto avrei potuto tirare la corda prima di sentire le parole: «Questo caso non è tuo, Lambert».

«Cosa rappresenta il tatuaggio?» Strike uno.

«Non ne ho idea.»

Risposta concisa e gentile, così sollevai la foto. «Posso tenerla?» Strike due.

«No.»

Un po’ più concisa, ma non meno gentile.

«E posso avere un riepilogo della…» Non riuscii nemmeno a portare a termine lo strike tre, il che poteva significare una cosa sola.

«Questo caso non è tuo, Lambert. Tu hai soltanto un compito di supporto.» Battuta. Casa base.

«Allora, faccio un salto dalla ragazza?»

Aveva la testa china, già impegnato a leggere un altro fascicolo. «Esatto.» Quindi alzò gli occhi e sorrise, come a dire: Ben ti sta. «Sarebbe meglio se ci andassi subito», aggiunse.

Il che spiega perché bisogna sempre ricordare di prendere la giacca quando si sale al terzo piano.

La Teoria Dell'eternità
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