P R O L O G O
Serres, Perpignan, Francia,
3 agosto 1132
In un’epoca che Davies rammentava vagamente – o, a dire il vero, che avrebbe preferito dimenticare –, suo padre aveva fatto lo scalpellino. L’adulto e il ragazzo. Ora quel periodo sembrava così lontano che avrebbe quasi potuto trattarsi di un’altra vita, di un’altra persona.
Quel giorno, l’odore della pietra, che aleggiava nell’aria viziata assieme a quello dell’olio e della polvere, gli riportò alla mente i ricordi sgradevoli di quella vita, di quell’uomo che doveva ancora essere classificato come tale. Erano odori oscuri, come tutti quelli che Davies aveva deciso di cancellare dalla propria memoria. Il tanfo del letame che filtrava attraverso le assi del fienile, il fetore del cuoio appena oliato e del tabacco stantio nell’alito del vecchio, l’aroma metallico del sangue caldo che si mescolava alle lacrime e al sudore sul volto pallido di un dodicenne.
Oltre a qualche favore e a un flusso modesto ma costante di lavoretti extra per arrotondare, suo padre si guadagnava da vivere soprattutto grazie ai morti, scolpendo il loro ultimo messaggio al mondo, il loro epitaffio. Incideva aspirazioni irrealizzate su materiali che sarebbero durati assai più a lungo della carne in decomposizione. Per anni aveva cercato invano d’insegnare a Davies quell’arte, che suo padre gli aveva tramandato a propria volta assieme ad alcuni indumenti e a un paio di gemelli nuovi di zecca. Secondo Davies, quell’immagine riassumeva perfettamente la professione del vecchio. Era qualcosa che si poteva lasciare ai posteri perché era gratuito e schifoso, e perché non c’erano soldi per istruire i figli in qualcos’altro. Inoltre, «se non impari un mestiere, ragazzo, non sarai mai in grado di prenderti cura di me, ora che tua madre ha tirato le cuoia». A quel punto, suo padre puntava l’indice tozzo verso il cielo azzurro del Nebraska, come se fosse stata la sua defunta moglie a scegliere di farsi divorare dal cancro. Davies ci pensava spesso. Se fosse stato così, non avrebbe potuto biasimarla. Le uniche parole che ricordava di aver sentito dire dal padre subito dopo la sua morte erano: «Metti che ora devo anche incidere una frase gentile per lei. Che mi prenda un colpo se me ne viene in mente una. E poi, chi pagherebbe?»
Io, papà. Ogni maledetto giorno della mia vita.
Da adolescente promettente quale era, tuttavia, Davies aveva imboccato con determinazione la strada per diventare uomo. Un uomo robusto, beninteso, più di quanto lo fosse mai stato suo padre. Aveva cominciato ad accorgersi che gli abiti smessi gli stavano stretti, e aveva deciso che non avrebbe ridimensionato le sue ambizioni solo per riuscire a infilarseli. Per quanto odiasse ammetterlo, però, quel lavoro si era trasformato proprio in ciò che il vecchio aveva previsto: un mestiere su cui ripiegare.
L’ennesimo.
Dopo aver fallito in quasi tutto quello in cui si era cimentato, si era reso conto di quanto fosse ironico che l’attività cui si era dedicato all’inizio – i «furti» e, se necessario, «qualche piccolo omicidio» – fosse anche quella che permetteva a suo padre, e agli individui come lui, di tirare a campare.
L’unica altra capacità che Davies sembrava aver acquisito era scopare, a prescindere dal fatto che le donne lo volessero oppure no. Tuttavia, le rapine, gli assassini e gli stupri non erano solo le sue occupazioni preferite, ma anche quelle che gli erano state negate per più di cinque lunghi anni. Pronto e riposato dopo un’assenza forzata, non vedeva l’ora di rimettersi al lavoro, di riprenderlo, per così dire, da dove l’aveva interrotto. La realizzazione di quel desiderio era così vicina, che quasi l’assaporava sulla lingua deforme da cui derivava il suo lieve difetto. «Quel ragazzo parla in modo strano», dicevano. Non dalla nascita, ma sicuramente dal giorno del suo quattordicesimo compleanno, quando il padre l’aveva preso a cinghiate con un po’ troppa violenza, tanto che i denti gli si erano conficcati nella lingua, facendogli sputare sangue e un frammento di carne.
Forse, dato che non aveva mai soddisfatto le aspettative – seppur modeste – del vecchio, era quella la ragione per cui si sentiva in dovere di svolgere bene almeno quel lavoro: incidere perfettamente il simbolo, il suo simbolo. Così chiaro, nitido e, sì, così bello che persino un padre non ancora nato avrebbe guardato Davies con l’orgoglio che gli era stato negato per tutta la sua schifosa adolescenza.
Inutile dire che aveva deciso, per quanto possibile, di dimenticare la sua famiglia, eppure rammentava ogni dura lezione che gli era stata impartita. Come avrebbe potuto non farlo? Dopotutto, il ricordo andava di pari passo col dolore. Era qualcosa che, una volta impresso, si poteva soffocare ma mai cancellare del tutto. Aspettava come un prurito fastidioso, restando latente fino al giorno in cui decideva di farsi sentire, invitato oppure no.
Così Davies sapeva, perché l’aveva appreso molto tempo prima, che la pietra, come il legno, aveva una grana e che la sua superficie andava lavorata nel verso giusto. Aveva pure scoperto che (come nel caso dei furti, degli stupri e degli omicidi) i colpi rapidi e decisi, veloci e poderosi, erano assai più efficaci e accurati dei picchiettii lenti e cauti usati spesso dai principianti.
Non sopportava nemmeno i ceselli corti. «Quelli non valgono un bel niente, ragazzo», gli aveva sempre ripetuto suo padre. Non reggevano il peso e l’unico modo per rimediare sarebbe stato renderli così grossi e sgraziati da essere inutilizzabili. No, Davies usava un cesello sottilissimo, lungo quasi ventiquattro pollici e forgiato coi materiali più resistenti disponibili all’epoca, dotato di una punta affilata che avrebbe fatto sfigurare molte delle spade su cui ogni giorno posava gli occhi. Forse, nelle mani sbagliate, un utensile di quella lunghezza sarebbe stato scomodo. E il martello? Grosso, spuntato e pesantissimo per alcuni, ma non per un uomo della stazza di Davies. In quel momento, anni dopo l’educazione assillante e offensiva ricevuta dal padre, pareva che finalmente avesse la forza per maneggiare entrambi gli strumenti senza difficoltà, come se stesse tagliando il burro con un coltello caldo.
Una volta finito, confrontò il simbolo col proprio, quello che si portava addosso dalla condanna di cinque anni prima, e sorrise vedendo che rasentava la perfezione. I bordi scuri della pietra, consumati dal tempo, cedevano il passo all’interno più chiaro, su cui spiccavano curve morbide e linee marcate e decise. Era certo che, almeno per quella volta, suo padre sarebbe stato orgoglioso, anche se dubitava, anzi, era sicurissimo che non avrebbe lasciato trasparire nessuna emozione.
Ma il vecchio non c’era, giusto? E, in ogni caso, perché Davies avrebbe dovuto dimostrargli il proprio valore, ora che aveva quasi trentotto anni e che non vedeva neanche l’ombra di suo padre da quando ne aveva diciannove? Perché aveva anche solo sentito il bisogno di provarci? Il vecchio non si era neppure degnato di assistere al processo né alla sentenza che gli aveva inflitto la pena di morte.
Perché provarci?
No, non c’era nessuno che potesse andare fiero di Davies, a parte Davies, e non era forse così da sempre?
Perché continuare a provarci?
Sospirò, l’aria e la saliva gli frusciarono come foglie intorno alla lingua, staccò una scheggia affusolata di pregiata pietra pomice da una cintura di cuoio grezzo e, usandola a mo’ di carta vetrata, iniziò a levigare gli angoli dell’incisione. Soffiò via la polvere impalpabile e aggiunse qualche goccia di patina, finché le sfaccettature, come specchi inclinati, non catturarono i colori freddi che filtravano dalla finestra e li rifletterono nei suoi occhi gelidi.
Bevve un lungo sorso d’acqua dall’otre, estrasse delicatamente le due tavole dalle borse di cuoio e le collocò nelle rientranze circolari che aveva già scolpito.
Entravano alla perfezione.
Guardale.
Come aveva immaginato.
Papà, le vedi? Guardale.
Un’altra breve pausa e un’ultima occhiata soddisfatta al lavoro, quindi trasse un profondo respiro stridulo e sollevò la pietra dal pavimento come fosse un culturista. Gli enormi bicipiti si gonfiarono e luccicarono di sudore nella calura del tardo pomeriggio estivo. Tenendo la lastra all’altezza della vita, si piegò sino a infilarla nell’avvallamento, poi si fermò per un istante. Fece appello all’ultimo briciolo di forza e la spinse, premendo con gli addominali tonici finché la sua creazione non scomparve nell’altare, come una volpe che scivola nella tana. Rimbombò come se volesse rispondere ai tuoni che avevano cominciato a echeggiare nel mondo esterno.
Sarebbero passati anni prima che le sue capacità, quelle che secondo suo padre non avrebbe mai e poi mai perfezionato, venissero ammirate di nuovo.
Una volta portato a termine il compito, prese una scopa rudimentale, fatta di corda ed erba secca, e spazzò meglio che poté. Un altro degli insegnamenti di suo padre era infatti: «Alla fine raccogli sempre lo schifo, ragazzo». Nonostante le circostanze, si sentì in dovere di pulire; altrimenti, avrebbe avuto la sensazione di aver lasciato le cose a metà.
Nel giro di dieci minuti, il pavimento della chiesa era lindo e Davies aveva fatto ciò che gli avevano ordinato. Le tavole erano al sicuro, e lui era l’uomo libero che aveva sempre sognato di essere. Una cosa era inscindibile dall’altra. Era così che funzionava, avevano detto.
Speriamo.
Era quasi pronto ad andarsene e a godersi la libertà, quando avvertì l’impulso inspiegabile d’inginocchiarsi davanti all’altare e rendere grazie. La sua famiglia era di religione battista da generazioni, probabilmente da quando esistevano i battisti, ma quella era un’altra eredità che aveva accettato con riluttanza. Aveva deciso di non credere in Dio, bensì in Davies. Dopotutto, cos’era il destino se non si poteva sceglierlo da soli?
Tuttavia, non poteva negare che negli ultimi tempi alcune stranezze si fossero insinuate nella sua vita. Eventi abbastanza bizzarri da indurre forse un individuo più debole a prostrarsi e a giurare fedeltà eterna a una divinità che, molto probabilmente, aveva smesso di esistere tempo prima. Eppure eccolo là, davanti a una pietra di Dio. Intento a inciderla, Cristo santo.
Michael Davies era un uomo che non sarebbe dovuto nascere ma che, allo stesso tempo, avrebbe già dovuto essere stato ucciso, condannato a morte mesi addietro. Che male c’era nel ringraziare? Tanto per sicurezza, per ogni evenienza.
Si piegò su un ginocchio, come aveva visto fare alla sua famiglia, e fece il segno della croce, ignorando stupidamente il leggero sbuffo di aria fredda che si alzò alle sue spalle. Con ogni probabilità stava sbagliando tutto, ma, se Dio esisteva, gliene sarebbe importato qualcosa? E, in ogni caso, fino a che punto erano meschini gli esseri supremi? Chinò il capo e recitò una preghiera che aveva udito una volta: «Padre nostro, che sei nei cieli…» Da quel punto in poi improvvisò, la voce bassa in segno di rispetto.
Quindi la sentì, proprio sulla nuca: gelida e tagliente. Non la gloria di Dio, bensì l’estremità affilata di una lama che era sul punto di trapassarlo. Non aveva neppure udito i passi e non capì cosa stesse accadendo finché la voce non parlò: «Où sont les tables?»
Davies sollevò la testa e guardò il marmo lucido dell’altare. Vide il riflesso di un tipo massiccio, con una croce rosso vivo sul davanti della tunica. Un uomo solo, con la spada puntata verso il suo collo. Il maledetto Geoffrey de Beaujoulais, o come diavolo si chiamava. Sempre pronto a mettergli i bastoni tra le ruote. Avrebbe voluto ucciderlo tre giorni prima, assieme agli altri, ma quel coglione aveva rinunciato a dormire ed era andato avanti col suo cavallo per assicurarsi che il passaggio fosse sicuro, o qualche idiozia del genere. Davies non aveva potuto correre il rischio di aspettare che tornasse, perché forse sarebbero ripartiti subito, così Geoffrey era sfuggito al suo destino. Temporaneamente, a quanto pareva.
Davies aveva sempre saputo che un giorno quell’uomo sarebbe andato a cercarlo e che forse l’avrebbe persino trovato, ma non aveva previsto che sarebbe stato abbastanza intelligente da rintracciarlo così presto. Però era stato così stupido da presentarsi da solo.
Ma, d’altro canto, non era forse quello il suo problema? Era sempre pronto a brandire la sua spada lucida e a blaterare di «gloria» e «onore», trascurando il fatto che lui e la sua gente erano, come Davies, poco più che ladri. Cosa si diceva dell’«onore» e dei «ladri»? Davies non ricordava bene, ma aveva a che fare col codice di comportamento dei malviventi.
Chiuse gli occhi e fece un bel respiro, determinato a non fallire. Sapeva di essere del tutto indifeso, con indosso nient’altro che un pettorale leggero sopra la ruvida tunica verde senza maniche. All’improvviso, digrignò i denti ingialliti, piegò la testa verso il basso, a destra, scostando il collo taurino dalla lama, quindi si alzò e caricò il braccio vigoroso.
Centrò il cavaliere sul lato dell’elmo. L’altro vacillò sul pavimento sconnesso, infilzandogli il braccio con la spada. Poi l’arma gli si afflosciò nella mano guantata e Davies si girò con uno scatto fulmineo, sferrandole un calcio che la scagliò contro la parete occidentale con un tintinnio simile a quello di un vetro infranto. A quel punto assestò un violento pugno all’avversario. Sentì le nocche che si fratturavano contro la visiera di metallo, ma non vi badò. Sarebbero guarite molto più rapidamente di qualunque ferita da taglio. Poi, mentre Geoffrey arretrava, gli vibrò un calcio nelle palle. Ehi, gigante, non proteggi i gingilli quando vai a cavallo?
Il cavaliere cadde in ginocchio, piegato in due dal dolore, e Davies chiuse la partita con una pedata in faccia. La più forte che avesse mai dato, nonostante le calzature di cuoio leggero. Se i due uomini fossero stati più esili, probabilmente sarebbe bastata per rompere il piede dell’uno e il collo dell’altro.
Geoffrey fu scaraventato via come un acrobata che precipiti nel vuoto, e la sua cotta di maglia scricchiolò sul pavimento, a dispetto della sottile tunica templare bianca e rossa che sfoggiava con orgoglio ingiustificato.
Davies guardò la spada, ma capì che sprecare tempo per recuperarla sarebbe stato una pessima mossa. Così fece un passo indietro, valutando le possibilità, finché il suo tallone non incontrò qualcosa, un oggetto freddo, metallico e pesante. Simile a un’ispirazione divina. Forse un «grazie» per il «grazie». Sbirciò attraverso la visiera del cavaliere, intravide il primo accenno di paura nei suoi occhi e sorrise.
Raccolse martello e cesello. Roteò il primo di trecentosessanta gradi nella sinistra, stringendo il manico con espressione compiaciuta. Urlò come un forsennato mentre tornava a essere il vecchio Davies e colpiva il ginocchio dell’altro con tutta l’energia che aveva in corpo. L’uomo indossava l’armatura ma, in corrispondenza delle giunture, la corazza si assottigliava e si raggrinziva come carta, permettendo al metallo di abbattersi sull’osso con tutta la sua potenza. Davies ripeté l’operazione altre tre volte, una per ciascuno degli arti rimanenti. A ogni martellata, il cavaliere gridò e Davies, con gli occhi fuori delle orbite, gridò ancora di più, ansioso di non farsi superare.
Mentre Geoffrey si contorceva come un verme dal dolore, lui piroettò per la chiesa, ridendo e girando su se stesso per quasi due minuti. Esausto, si lasciò cadere sulle ginocchia, si mise a cavalcioni sullo stomaco dell’altro e, come avrebbe potuto fare un amante, lanciò occhiate seducenti alla croce rosso sangue sul suo petto.
«Uno a zero per me, Geoffrey», disse con un sorriso contratto, mentre usava la mano fratturata, col pollice piegato in un’angolazione innaturale, per puntare il cesello al centro del simbolo.
Com’era stata premurosa la sua vittima, pensò, a fornirgli un bersaglio così chiaro. Gli occhi lo fissarono da dietro la visiera e si spalancarono verso l’inevitabile. L’uomo provò a lottare e borbottò qualcosa d’inintelligibile in francese, ma il peso di Davies, unito all’impossibilità di sollevarsi sulle membra maciullate, vanificò i suoi sforzi.
«Je monte avec mon Dieu.» Aveva un tono rassegnato, rinunciatario.
Davies sollevò il martello, sfoderando il sorriso che non aveva mai più attraversato il suo volto indurito da quando aveva cosparso la vecchietta di benzina e l’aveva guardata bruciare come la strega che aveva sempre pensato che fosse. «Ah, sì? Be’, ora puoi andare da lui con tanto di cavallo, testa di cazzo.»
Colpì il cesello con tutta la rabbia che aveva in corpo. La cotta di Geoffrey, pur essendo sufficiente per resistere a una freccia leggera, aveva ben poche possibilità contro la pressione del ferro acuminato e il peso dell’ingiustizia che guidava il braccio dell’avversario. Si squarciò come uno straccio vecchio, come quelli che il padre di Davies usava per oliare le pietre. I minuscoli anelli di acciaio scricchiolarono e affondarono nel petto del cavaliere. L’impatto gli sollevò le estremità dal pavimento, e lo sterno gli esplose come un petardo.
Davies tornò alla carica una seconda e una terza volta, fermandosi solo quando sentì la colonna vertebrale dell’uomo sbriciolarsi e il cigolio della punta graffiare le lastre di pietra.
Sollevò la visiera del cavaliere per vedere il sangue che gli sgorgava dalla bocca, quindi rimase a guardare, ammirato, mentre l’altro cercava invano di respirare.
«Écoutez et répétez: boudine! Traduzione? ’Centro’», disse, mentre inclinava la testa.
Si raddrizzò e sorrise quando un altro pensiero gli attraversò la mente. Aveva impiegato tre giorni per raggiungere Serres a piedi, coi sassi che gli pungevano la pelle attraverso il cuoio, e il picchiettio della pioggia stava diventando sempre più intenso. D’un tratto non aveva più importanza. Non ora che, per gentile concessione del suo amico moribondo, aveva un mezzo di trasporto.
«Spero che tu abbia lasciato le chiavi nel cavallo, cazzone. Perché ho intenzione di prenderlo a prestito.»
Geoffrey lo fissò, sbalordito sia dal suo linguaggio sia dal fatto di essere andato incontro alla morte in modo così rapido e inatteso, dopo aver trascorso gli ultimi cinque anni a combattere una delle campagne più cruente nella storia dell’umanità. Piano piano, mentre l’assassino lo guardava col sorriso dolce e amorevole di una madre intenta ad ammirare un neonato, dai suoi occhi scomparve ogni emozione. Le palpebre non si abbassarono, ma la vita lo abbandonò e il sangue smise di zampillare.
Davies si rialzò. Quei momenti non duravano mai quanto avrebbe voluto. Recuperò orgogliosamente il cesello, quindi tornò verso l’altare e raccolse gli altri attrezzi. I ferri del mestiere, se mai ne avesse avuto bisogno.
Era stato piacevole uccidere di nuovo. Non come a Narbonne, dove si era sentito quasi un semplice spettatore, bensì direttamente. Amava toccare il sangue caldo e vedere da vicino la vita scivolare via dal corpo. Era probabile che avrebbe dovuto rifarlo presto. Prima, però, voleva scoparsi una donna. Una qualsiasi, ma di preferenza una che non avesse nessuna voglia di essere scopata.
Così sarebbe stato più divertente.
Cazzo, pensò, avrebbe preso una donna, o forse addirittura molte, e avrebbe fatto loro cose che non erano ancora state inventate, assicurandosi che le apprezzassero. Idea folle ma eccitante.
«Lascia che ti dica una cosa, Mikey», farfugliò, massaggiandosi la mano rotta mentre usciva dalla chiesa, diretto verso il lungo futuro che l’aspettava. Il sangue gli scorreva sul braccio sinistro, ma le lacrime non andarono a sbiadirne il colore intenso. Non più. «Qui sta succedendo davvero qualcosa di pazzesco.» Scavalcò il corpo senza degnarlo di un’altra occhiata. «Su questo non ci piove.»