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Martedì, 21 aprile 2009
Alison bussò alla porta più forte che poté. Come molti usci nascosti in fondo ai vicoli, utilizzati in caso d’incendio o per portare fuori la spazzatura, il battente non aveva una maniglia esterna, che avrebbe soltanto facilitato il compito a eventuali ladri. Urlò a squarciagola, nuda tranne che per il foglio di pluriball semicoprente che aveva trovato in un bidone e che si era avvolta intorno al corpo. Se qualcuno avesse aperto, e pregò che lo facesse, avrebbe capito benissimo che sotto non indossava nulla, ma si augurò di aver lasciato qualcosa all’immaginazione.
Si era arruffata i capelli meglio che aveva potuto e aveva usato una bottiglia rotta che aveva raccolto vicino al vecchio ubriacone per procurarsi un leggero taglio sulla guancia destra, in modo da confermare la storia che aveva inventato. Il barbone, che aveva assistito alla scena, ma era troppo sbronzo per comprenderne il significato, era ancora nella viuzza, intento a borbottare nel suo piccolo mondo. Tuttavia erano soli, sembrava che non ci fosse nessun altro.
Alison non voleva andare sulla strada principale, perché ci sarebbero state troppe persone e troppe domande. Meglio non dare nell’occhio, pensò, come richiedeva un episodio così imbarazzante e personale.
Dopo aver bussato vigorosamente per due o tre minuti, quando stava quasi per rinunciare, udì un suono sommesso provenire dall’interno. Prima debole, poi più distinto. Intuì di cosa si trattava: un rumore di passi su una scala di metallo. Bussò più forte, con le mani che le pulsavano e, con tutto il fiato che aveva in corpo, continuò a gridare: «Ehi».
Non smise finché non sentì la barra interna che veniva premuta e i fermi che si sbloccavano in alto e in basso. Aveva cominciato a diluviare non appena era arrivata, e grosse gocce le picchiettavano sulla carta scoppiettina e scorrevano in spessi rivoli verso il pavimento. I capelli castano chiaro le si erano scuriti e la guancia era imbrattata di sangue annacquato. Ma c’era qualcuno in casa, pensò. Grazie a Dio.
Finalmente avrebbe potuto sistemare le cose.
L’uscio si aprì con un cigolio metallico e un’anziana cinese sbirciò fuori, con aria interrogativa. Come i ragazzini che nei film di serie B spingevano la porta scricchiolante di una casa infestata dai fantasmi, la sua espressione era un misto di desiderio irragionevole d’indagare e di preoccupazione per ciò che avrebbe potuto scoprire. Teneva in mano due scatoloni traboccanti d’immondizia che senza dubbio era intenzionata a depositare in uno dei bidoni. Gli scatoloni caddero, e imballaggi vuoti e scatole più piccole si sparpagliarono nel corridoio. Per alcuni istanti non fece nulla, immobile come un ladro colto in flagrante e fissando incredula la giovane nuda, fradicia e molto spaventata che si era materializzata davanti alla sua porta.
«Mi aiuti, per favore. Hanno cercato di violentarmi», supplicò Alison, con voce disperata e occhi imploranti.
Di lì a dieci minuti sedeva nel caldo ufficio del Mister Yang, con l’uscio chiuso e il tintinnio della cassa che arrivava a intervalli di qualche minuto dal supermercato attiguo. Sorseggiò una tisana alle erbe, stringendola con mani tremanti come se fosse la prima cosa che beveva da giorni, mentre, con sguardo vacuo, si osservava i piedi scalzi.
Indossava una tuta della taglia sbagliata, un prestito di Mrs. Yang, e sulle spalle aveva una coperta a scacchi verdi e blu. I capelli erano stati tamponati con un asciugamano e il sangue ripulito dalla guancia, benché il taglio fosse ancora visibile in una linea sottile che partiva sotto l’occhio destro e si allungava fino al lato della bocca. Mr. Yang era impegnato a servire i clienti e, senza dubbio, di tanto in tanto controllava se sulla strada si fosse fermato qualcuno.
«Polizia qui presto», la rassicurò Mrs. Yang. «Vuoi ti porto qualcosa?»
Alison si piegò sopra la tazza, col vapore caldo che le saliva verso il viso, e scosse la testa. «No, grazie, ora sto molto meglio.»
Si diede un’occhiata intorno e vide oggetti che, pur assomigliando a quelli che usava tutti i giorni, avevano un’estetica un tantino più antiquata: ex pezzi da museo o arredi scenici di alcuni dei programmi «classici» che invadevano i canali digitali. Sorrise. Di sicuro era tornata indietro nel tempo, ma non sapeva ancora dove e, soprattutto, quando. In fondo, la sequenziazione era stata tracciata da Sherman e da un team di teorici ignari (con un forte accento sull’aspetto speculativo della ricerca) su un grafico molto approssimativo. Si basava sui presunti effetti dell’applicazione delle cariche elettriche ed era appena diventata plausibile dal punto di vista scientifico. Aveva ancora molta strada da fare, prima di poter anche solo sognare di diventare una scienza esatta.
Sulla parete di sinistra, sopra un’ingombrante cassaforte blu carica di scartoffie, c’era uno di quei calendari omaggio che i fornitori erano sempre ansiosi di rifilare ai clienti. Sulla pagina aperta si leggevano il mese (aprile), il nome dell’azienda (Ming-Chi’i) e il fatto che fosse stata eletta «Los Angeles Chinese Food Distributor» per il 2006/2007. Ma ciò non significava necessariamente che fosse il 2007, giusto? Anzi, dato che il premio era già stato conferito, era molto più probabile che fosse l’aprile del 2008 e dunque che fosse arrivata un anno prima del previsto. In cima al foglio, nello spazio in cui di solito compare l’anno, si vedeva la rappresentazione grafica di un bufalo.
L’anno del bufalo. Quando diavolo cadeva? pensò.
Perché doveva essere un supermercato cinese? Perché non italiano – parlava abbastanza bene quella lingua – o almeno un negozio con un calendario normale, con date normali?
Quale animale c’era quando era partita? Si sforzò di ricordare l’inizio dell’anno, i quindici giorni di festeggiamenti celebrati dalla sempre più numerosa comunità cinese di Los Angeles, a meno di cinque isolati dal suo appartamento. Il sabato avevano organizzato un corteo con tanto di draghi animati da quindici uomini ciascuno e una serie di carri allegorici. Quasi tutti i partecipanti che non si erano travestiti avevano portato striscioni, ma quale creatura c’era disegnata sopra? Pensa, pensa, pensa.
Il maiale, ricordò all’improvviso. Alcuni gozzovigliatori si erano persino mascherati da maiali. Dall’aspetto stupido, certo, ma pur sempre maiali. Il 2043 era l’anno del maiale, dunque. Perciò era capitata nel – continuò a guardarsi i piedi per nascondere il fatto che stava contando nella mente –… 2033, 2021 o 2009. Tuttavia, considerando il premio della Ming-Chi’i, doveva essere il 2009. L’azienda doveva essere stata battuta da un altro fornitore nel 2008, ma aveva saggiamente deciso di non pubblicizzare la sconfitta.
Si deduceva pure che, sebbene il grafico di Sherman fosse sempre stato considerato una «stima», spaccava quasi il secondo e l’aveva trasportata proprio nel momento giusto. Alison Bond sedeva nell’ufficio di un supermercato cinese a Los Angeles nell’aprile del 2009 e aveva ben due anni per fare ciò che doveva, prima di aiutare Mason a fuggire. Riuscì a dissimulare le emozioni ma, Cristo, pensò, quanto era eccitante (e bizzarro) tutto quello?
Solo quando tornò a guardare il calendario notò il proverbio del mese. Era scritto alla fine della pagina, in tondo e in piccoli caratteri neri che evocavano lo stile cinese: «Si può essere nello stesso posto due volte, ma nemmeno i viaggiatori più avventurosi possono essere in due posti nello stesso momento». Sorrise. A quanto sembrava, il creatore della sequenza aveva uno spiccato senso dell’umorismo.
Mrs. Yang si stava ancora affaccendando come un’ape intenta a raccogliere il polline. Era preoccupata per la ragazza, ma per nulla sorpresa di vederla là. Lei, suo marito e i commessi erano abituati agli episodi di violenza nel quartiere. Negli otto anni che erano trascorsi da quando avevano acquistato il negozio, si erano imbattuti nelle vittime di dodici stupri o tentati stupri, d’innumerevoli aggressioni e di quattro sparatorie (tre delle quali fatali), e il supermercato aveva subito niente meno che dodici rapine.
«Tu violentata?» Posò la mano grinzosa sul braccio di Alison.
«No. Credo… Credo di averli respinti. Si sono spaventati e sono scappati.» Fece del suo meglio per essere convincente, misurando bene le pause tra le parole e fingendo di pensare a cose più tristi, mentre aggiungeva la giusta sfumatura di dolore alla voce.
«Tu ragazza molto fortunata. Potevano ucciderti», osservò la compassionevole Mrs. Yang, con un marcato accento cinese.
«Sì, lo so.»
«Abbiamo brodo di pollo. Vuoi un po’?» La vecchia cercò di sembrare ottimista, di risollevare l’umore della giovane.
Alison fissò il vuoto, poi si riprese con tempismo quasi perfetto, con l’espressione che si assume quando si cerca di decifrare un problema complesso. Tenne gli occhi puntati nel nulla e si mordicchiò il labbro inferiore. «Prego?»
«Brodo di pollo. Molto buono. Vuoi un po’?»
Alison sorrise mestamente. «Sarebbe magnifico.»
Di lì a qualche minuto, Mrs. Yang le porse una ciotola di polistirolo e un cucchiaio. Alison soffiò distratta sul liquido, poi se ne mise in bocca una piccola quantità, assicurandosi che la mano le tremasse quanto bastava per farlo vibrare senza però rovesciarlo sul pavimento.
Un altro sorriso triste. «Squisito.» Non ringraziò. Le persone sotto shock non ricordano mai di ringraziare.
«Pieno di aromi. Buono per riequilibrare yang.» La cinese si sedette accanto a Alison e aspettarono assieme.
«Sono stata stupida.» La ragazza fece ciondolare il capo e trasse lunghi respiri.
«No colpa tua. Questo posto molto cattivo. Molte persone cattive. Lottato e fatto bene. Fai veder chi comanda. Però… molto fortunata.»
Mr. Yang socchiuse la porta e infilò la testa nello spiraglio. «Polizia qui.» Sorrise debolmente, come se non sapesse cosa dire, e scomparve.
Entrarono un uomo e una donna con le uniformi della polizia di Los Angeles e pesanti giubbotti neri.
Lui era il più anziano dei due, forse sulla cinquantina, coi capelli grigi a spazzola, con un velo di barba e coi segni degli occhiali da sole – gli stessi che facevano capolino dal taschino della camicia – ai lati del naso. Lei era molto più giovane, poco più che una ragazza. Ventidue o ventitré anni, ispanica e con una luce vivace negli occhi. Rivolse a Alison un sorriso sincero. Il suo collega – McInley, stando al distintivo – la degnò a malapena di un’occhiata, prima di appoggiarsi alla parete accanto alla porta. Attraverso la fessura spiò i clienti del supermercato e i pedoni che passavano davanti alla grande vetrina. Gli piaceva guardare le strade, vedere le persone. Sapeva fiutare i guai a due chilometri di distanza e teneva sempre gli occhi aperti. Inoltre, la sua presenza non era necessaria in quel caso. Era una faccenda da donne, meglio lasciare che se ne occupasse Maria.
L’agente Maria Esperanza si accovacciò davanti a Alison. «Puoi dirmi cos’è successo, tesoro?»
«Erano in tre», rispose, e fissò il nulla. Mentre proseguiva con la descrizione, i suoi occhi continuarono a stringersi e ad allargarsi e a ogni nuovo ricordo fasullo la testa si girava leggermente. «Bianchi. Coi jeans. In auto. Un’auto nera. Lunga, hai presente? Mi hanno fermata nella zona residenziale, mi hanno chiesto indicazioni e poi mi hanno trascinata dentro. Uno aveva un coltello. Mi ha tappato la bocca e me l’ha puntato alla gola mentre gli altri… iniziavano a togliermi i vestiti.» Fece appello a tutto il dolore che aveva provato nella vita, a tutta la sofferenza della sua infanzia.
Pianse.
«E dove sono i tuoi vestiti ora?»
«Non lo so. Sull’auto, immagino.»
«Come sei arrivata qui, nel vicolo?»
«Uno dei tre, un tipo castano. Guidava mentre gli altri… mentre… Comunque, mi stavano portando da qualche parte per… stuprarmi… credo. Mi hanno portata qui e mi hanno ordinato di scendere. Non… Non so. Sono andata fuori di testa e mi sono fatta prendere dal panico. Ho cominciato a urlare più forte che potevo. Mi sono sembrati sorpresi, non se l’aspettavano. Sono saliti in macchina e se ne sono andati.»
«Li avevi mai visti?»
«No.»
«E li riconosceresti? O magari l’auto?»
«Non saprei. È successo tutto così in fretta. È stato…» Aumentò la frequenza dei singhiozzi, soffocando le parole.
«Va bene così.» Maria posò la mano sulla sua. «Vuoi che chiamiamo qualcuno? Un amico o un parente?»
Alison fece di no con la testa. «Sono… Sono di Chicago. Sono venuta a trovare mia sorella.» Si finse ancora sconvolta.
«Dove vive?»
«È ricoverata all’Oakdene.» Alison sapeva che quel nome si sarebbe lasciato dietro un silenzio cupo e che avrebbe troncato sul nascere ogni altra domanda.
Poi, alzò lo sguardo di colpo, come se le fosse venuta in mente una verità innegabile. Cosa che, in effetti, era accaduta. Sul pavimento beige lucido aveva visto il riflesso dell’orologio sulla scrivania di Mr. Yang e, pur avendolo letto al contrario, aveva notato che segnava le dieci e un quarto. L’avrebbero accompagnata alla centrale, probabilmente con indosso la tuta di Mrs. Yang, ma poi? Non avrebbe avuto tempo di cercarsi un alloggio per la notte.
«La mia borsa. Mi hanno portato via la borsa.» Si guardò intorno. «I soldi, le carte di credito, i documenti d’identità, tutto quanto. Non… insomma, non posso… Ecco, non ho un posto dove andare.»
«Non preoccuparti. Possiamo trovarti una sistemazione fino a domani. Anche oltre, se necessario. Potrai usare il telefono. Domattina puoi chiamare la banca, o magari la tua famiglia, e sistemare le cose.»
Alison trattenne una risata. Chiamare la banca? Ne aveva una, certo, con un conto corrente di duemila dollari in banconote da cento accuratamente arrotolate e tre diamanti non tagliati che forse ne valevano altri ventimila. Era solo che la filiale più vicina aveva il caveau più piccolo del mondo e in quel momento lei c’era seduta sopra.
«Nel frattempo possiamo sottoporti a una visita completa, se vuoi. Anche interna… se c’è qualcosa che non ci hai detto.» Maria si riferiva all’eventualità che quei bastardi le avessero infilato dentro le loro mani sudicie o peggio.
«No, grazie. Non mi hanno proprio…»
La poliziotta capì. «D’accordo. Ora faccio due chiacchiere col mio collega, poi dovremo portarti alla centrale per la denuncia. Resterò con te per tutto il tempo e dopo vedremo come sistemarti, okay?»
Alison si finse sollevata ma non rispose. Maria andò da McInley e gli parlò a bassa voce. La ragazza non udì quasi nulla, ma captò l’essenziale. Per il momento, forse, non si poteva fare granché. La vittima era molto scossa, ma non avrebbe fornito una descrizione dettagliata dell’automobile né dei tre aggressori. Meglio raccogliere la deposizione e trovarle un posto sicuro per la notte; se le fosse venuto in mente qualcosa, avrebbe sempre potuto chiamare l’agente Esperanza.
Alison sapeva benissimo che la stragrande maggioranza dei reati, soprattutto in quella parte della città, restava irrisolta. Sarebbe diventata ciò che voleva, una semplice statistica. Un numero che portava con sé l’unica cosa di cui aveva avuto bisogno al suo arrivo: una spiegazione plausibile del perché fosse comparsa nuda in un vicolo, senza documenti e senza soldi.
Quando ebbero finito di parlare, McInley si strinse nelle spalle, continuando a scrutare la strada dagli scaffali stracolmi del supermercato. Sei o sette ragazzi cinesi si erano riuniti sull’altro lato della via, e voleva vedere se fossero intenzionati a scambiarsi qualcosa in più delle sigarette. Avevano un’aria sospetta e, nonostante l’auto della polizia parcheggiata in bella vista davanti al negozio, erano fermi là da un po’ troppo tempo.
Maria tornò da Alison con un bloc-notes nero in una mano e una matita nell’altra. «Okay, mi servono alcune informazioni. Innanzitutto, come ti chiami, tesoro?»
Alison la guardò con gli occhi velati da un convincente misto di shock, disperazione e disorientamento.
Fece finta di pensare. «Fiddes.» Poi le dettò nome e cognome lettera per lettera.
«Sarah Fiddes.»