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Lenwood, California,
venerdì, 10 giugno 2011
Tina ce l’aveva fatta. Di qualunque cosa si trattasse.
La tendina della porta era alzata e la paziente era in penombra, sulla sinistra, con la schiena contro il muro, intenta a fissare qualcosa con sguardo rapito. Aveva un sorriso dolce e gli occhi luminosi, e teneva la testa inclinata come se avesse ritinteggiato l’appartamento e stesse ammirando l’ottima scelta di colore.
Non è un paragone azzardato, perché aveva davvero apportato qualche modifica alla stanza che, ormai, era diventata il suo mondo. Il risultato era simile a quello che otterrebbe un bambino di tre anni se venisse lasciato solo con una tela color crema alta tre metri e un grosso pennarello nero.
Sulla parete di destra, quasi incorniciata da un arco spezzato di luce gialla, spiccava la risposta di Tina. Fantasiosa, espressiva. Del genere che ci si potrebbe aspettare da qualcuno che non ha goduto di questa libertà per molto tempo. La ragazza si era sbizzarrita col pennello, o – in quel caso – col pennarello, e aveva tracciato lettere alte trenta centimetri e spesse due e mezzo, circondate da scarabocchi: ET IN ARCADIA EGO.
Sarah si rivolse a Carey: «Avete un po’ di vernice, in magazzino?»
Il giovane, ancora scioccato e incuriosito, annuì.
«Bene. Se fossi così gentile da andare a prenderne una latta, Nick cancellerà ogni cosa, mentre io porto Tina a fare una passeggiata.»
Assentii perché avevo capito cosa voleva fare: sbarazzarsi di lui.
Una volta che fu uscito, Sarah chiuse la porta e guardò la sorella. Assicuratasi che stesse bene e che fosse serena, andò al tavolo e frugò tra i fogli, recuperando il testo latino, quindi si piazzò davanti alla parete, con un sorriso soddisfatto. «È un anagramma. E un indirizzo», disse con tono squillante.
«In che senso?»
«Come quando si scrive una lettera.» Non staccò gli occhi dalle parole. «Metti prima la via, poi il numero civico, e dopo il resto. Ma il servizio postale lavora dal basso verso l’alto. Prima lo Stato, poi la città e, infine, la via e il numero civico. Al contrario. E lo stesso vale per il latino.»
Pareva ancora incredula. «Se lo leggiamo dal basso verso l’alto, ci esorta a completare il quadrato di Teniers. Così prima abbiamo il dipinto, poi le città, poi ’viaggia senza tentazione’ e infine, in cima, i tego arcana dei, ossia ’va’ dove nascondo i segreti di Dio’. Ma non è questo che significa, vero, tesoro?»
Tina non rispose, ma continuò ad ammirare l’opera con un sorriso dolce e orgoglioso che le illuminava il viso.
«È un anagramma, giusto, tesoro?» insistette Sarah.
«Saresti così gentile da tradurlo?» interloquii.
«’E in Arcadia sono’, o meglio, ’e sono in Arcadia’.»
Mi avvicinai e studiai le parole. «Arcadia è un sobborgo di Los Angeles, vero?»
«Sì, e lo era anche nel 1645, idiota», ribatté sarcastica. «No, la ragione per cui esiste un sobborgo con quel nome è che ospita l’arboreto di Los Angeles. Così nel 1888, quando costruirono quel posto, lo chiamarono come una regione dell’antica Grecia, nota per il suo carattere pastorale.»
«Cavolo, c’è qualcosa che tu non sappia?»
Sorrise del complimento. «Non molto, anche se devo ammettere che non so ancora dove sia la nostra Arcadia. Per via della connotazione pastorale greca, oggi questo nome può designare una specie di paradiso o di Utopia, se preferisci. Un qualunque luogo di serenità o di semplicità agreste. Scommetto che a Serres troverò un edificio, magari progettato all’insegna di questi criteri, che ha qualche riferimento all’Arcadia nel nome, nelle mura o nella propria storia.»
Date l’espressione indecifrabile e la sua immensa conoscenza, Sarah aveva cominciato a ricordarmi un ragazzo che avevo conosciuto un tempo: Kenny Wilding. Il suo aspetto e i suoi gusti in fatto di abbigliamento rivelavano un’inclinazione per il satanico, caratteristica che però era un po’ più sviluppata rispetto a quella della ragazza, perché Kenny amava incendiare i palazzi. Era un piromane nel senso più semplice del termine, ma anche in quello più radicale, perché si emozionava nell’assistere a immense detonazioni. Era successo sette anni prima, e c’erano voluti quasi un anno e sei esplosioni per catturarlo e condannarlo a quindici anni di carcere.
Devo dargli atto che sceglieva sempre edifici disabitati, che agiva di notte e che durante la sua breve e deprimente carriera non aveva ucciso nessuno. Quando l’avevamo acciuffato, aveva diciannove anni e viveva con la madre ma, se avessi visto i suoi dispositivi, l’avresti scambiato per un esperto di ordigni esplosivi. Aveva costruito da solo quasi ogni componente e gli altri, cosa che era più preoccupante, li aveva acquistati su Internet e alla fine aveva creato bombe molto elaborate. Ragazzo sveglio.
In realtà, era un genio sotto tutti gli aspetti. L’unico problema era che non poteva praticare la sua passione più grande in camera sua senza correre il rischio di farla saltare in aria.
Aveva molto in comune con Sarah: giovane, eccentrico e molto dotato. Guardandoli, non l’avresti mai detto, ma sotto sotto… Potevo soltanto sperare che Sarah avrebbe usato il proprio genio a fin di bene. Con un’intelligenza come la sua, immaginai che il mondo sarebbe stato spacciato se mai avesse deciso di farla incazzare.
Carey ricomparve con una latta di vernice e un pennello. Sarah li prese con un sorriso e me li mise in mano. «Grazie, Nick. Sei un mito.»
Fu così che, mentre lei e Tina facevano una passeggiata, io cominciai a coprire la soluzione.