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Lenwood, California,

giovedì, 9 giugno 2011

C’era una serie di ragioni disgustose per cui odiavo l’idea di andare all’Oakdene. Ma, visto che dall’ultima volta erano passati diversi anni assai movimentati, le avevo completamente dimenticate. Ero certo che più avanti sarebbero saltate fuori tutte, ma, quando la massiccia porta di legno si aprì cigolando, una – e una soltanto – tornò ad assalirmi con violenza. M’investì in pieno viso e mi aggredì le narici. Il maledetto puzzo.

Cristo, avevamo delle celle alla stazione di polizia e, sì, ogni tanto un pivello spaventato se la faceva sotto in attesa di uscire su cauzione ed essere picchiato dal buon vecchio paparino, oppure un veterano lasciava volutamente un regalino da ripulire dopo che fosse stato scarcerato, ma, cavolo, il tanfo dell’Oakdene non soltanto aveva intriso le pareti, si era addirittura mescolato alla malta. La clinica aveva il suo esercito d’inservienti che puliva con regolarità, certo, ma era una battaglia persa in partenza. La merda era letteralmente diventata l’essenza dell’edificio.

All’epoca, l’Oakdene era, nel suo genere, la più grande «istituzione a gestione privata» della California – in soldoni, un manicomio a pagamento –, ubicata su un terreno di scarso valore a un tiro di schioppo da Lenwood, centotrenta chilometri lungo l’interstatale 15 da Los Angeles. Era, non lo nascondo, un viaggio maledettamente sgradevole, soprattutto se non si poteva fare altro che constatare che in città l’ora di punta durava ben più di un’ora, e se ci si dirigeva verso il deserto a bordo di una Taurus di dodici anni, col condizionatore fuori uso e col finestrino del guidatore che si abbassava soltanto di dieci centimetri.

La costruzione era vecchia, anche se non avevo idea di quanto, perché mancavano le date che a volte sono incise sopra le porte. Lo stile avrebbe potuto essere definito gotico: tutto torri, guglie e pietre scure. Lo stabile si stava sgretolando dalle fondamenta, anche se sapevo che non era sempre stato così; mi avevano detto che una volta aveva ospitato una scuola molto valida. Scommetto che in quel periodo, forse trent’anni prima, quando i corridoi sorvegliati echeggiavano dei passi di circa trecento marmocchi – maschi e femmine –, era un posto del tutto diverso rispetto al guscio vuoto in cui si era trasformato. I soffitti alti erano coperti di ragnatele e gli stucchi erano sepolti sotto uno spesso strato di polvere.

L’atrio vertiginoso, che un tempo era stato un ingresso molto solenne, ormai non era che una caverna sporca e mal illuminata, come se fosse stata scavata dal mare per creare un rifugio in cui nascondersi dalla luce del giorno. Non soltanto era invasa dal fetore (non immagini fino a che punto), ma ogni superficie al di sopra della statura media aveva una crosta di sudiciume che scuriva la pittura di alcuni toni. Anche nella parte inferiore, dipinta di un marrone che avrebbe dovuto camuffare ogni macchia, le pareti erano percorse da sbavature nerastre. Senza dubbio alcune erano state lasciate dalle barelle, mentre potrei solo azzardare ipotesi raccapriccianti sull’origine delle altre. Sarebbero rimaste là finché qualcuno non avesse tirato fuori una nuova latta di vernice, anche se sospettavo che sarebbero passati ancora molti anni.

In fondo a quella grotta, tuttavia, mi si risollevava sempre il morale alla vista di una perla nera (leggi «afroamericana»).

Maggie, ancora dietro la scrivania. A dire il vero, dubito che avesse lasciato l’edificio dall’ultima volta che ero stato là. Enorme, tonda, affidabile Maggie. La stessa donna che sembrava così innocente ogni volta che diceva: «Che razza di puzzo è mai questo?» Sorrideva sempre e quando poteva ti dava una mano, purché non superassi il limite e non facessi il suo nome.

Dopo aver sgobbato per dieci anni nei servizi di assistenza al pronto soccorso della contea, aveva deciso che ne aveva abbastanza delle stronzate burocratiche e aveva optato per il lavoro sul campo, così era diventata uno dei pilastri più incantevoli dell’Oakdene. Se la memoria non m’inganna, e penso proprio di no, avevo scoperto tutto questo nelle tre ore e sedici minuti che erano occorse a lei per spillarmi quarantotto dollari e cinquanta a poker, e a un ex detenuto per cagare un diamante.

Il tipo in questione, se può interessarti, andava sotto il nome di James «Jamie» Coulson. Era stato giudicato a basso rischio, e lo era davvero. Era soltanto uno di quei tizi che odiano il loro capo al punto che nell’estate del ’95 – nel giorno in cui il suddetto capo aveva negato al giovane Mr. Coulson il permesso di sedersi sulla sua 320CLK nuova di zecca – aveva speso tutto lo stipendio nella ferramenta aperta ventiquattr’ore su ventiquattro in Fremont Street. Le uniche ragioni possibili che mi vengono in mente per tenere aperta una ferramenta ventiquattr’ore su ventiquattro sono offrire ai rapinatori notturni un posto comodo dove comprare coltelli a buon mercato e rifornire dipendenti incazzati che, afflitti dall’insonnia, alle due del mattino potrebbero provare l’impulso irrefrenabile di acquistare cinquantasette bombolette di poliuretano espanso. Proprio ciò che aveva fatto Jamie. È la sostanza che compri per tappare i buchi quando tua moglie ti ha lanciato addosso un piatto e, come nel mio caso, ti ha mancato. Quella che s’indurisce come una sorta di cemento spugnoso.

Il nostro Jamie non aveva solo acquistato tutte le bombolette che poteva permettersi, ma aveva anche realizzato il proprio desiderio, dedicando quattro ore del pomeriggio successivo a solidificare letteralmente la Mercedes dall’interno, in modo che nemmeno il suo capo potesse sedersi al volante. A quanto pare, c’erano volute sei ore per aprire un varco dietro il sedile del passeggero e recuperare il portatile dell’uomo.

Non dimentichiamo che il mio capo è Deacon. Traduzione? Quel Jamie mi piaceva un sacco.

Se la sarebbe cavata con una multa e col risarcimento dei danni se non fosse stato per il suo comportamento in tribunale. Là, come avevo avuto il privilegio di vedere coi miei occhi, aveva risposto alle domande con una serie di versi striduli e aveva urinato sui capelli della stenografa. Era bastata quella bravata per farlo finire all’Oakdene per una perizia psichiatrica, ma era stata la scelta di afferrare e inghiottire l’orecchino da millecinquecento dollari del suo avvocato d’ufficio a garantirmi l’onore non soltanto di accompagnarlo in clinica, ma anche di fermarmi abbastanza a lungo da perdere a carte con Maggie.

Dopo averlo ammanettato alla bell’e meglio al poggiatesta, avevamo fatto quattro chiacchiere, ed ecco un giovanotto del tutto lucido e razionale, che condivideva la mia passione per i Dodgers e per le torte alla crema. Tuttavia, poiché me l’aveva chiesto con gentilezza, non l’avevo mai rivelato a nessuno. Aveva detto di aver sentito il bisogno di una pausa dalla moglie, dal lavoro e dal puro e semplice stress di essere se stesso. Aveva tutta la mia comprensione. Ripensandoci, credo che Jamie Coulson sia una delle persone più sane di mente che abbia mai incontrato.

Sorrisi a Maggie, che ricambiò e fece un cenno verso l’ufficio del direttore. «Direttore sanitario», a essere precisi. Là dentro c’era la ragione più disgustosa per cui odiavo andare all’Oakdene: Creed.

M’infilai nella stanza pseudodickensiana col maggior distacco possibile, senza preoccuparmi delle presentazioni formali. Sarebbero state inutili. Creed e io ci conoscevamo già.

Simile a un intollerante signorotto di campagna nato con centocinquant’anni di ritardo, incarnava tutti i buoni motivi per negare qualsiasi autonomia a un’istituzione sanitaria. Piccolo e furtivo, con occhietti luccicanti ingranditi da occhiali fuori moda già da quarant’anni, aveva un riporto orrendo, un tono arrogante e la straordinaria capacità di sudare a prescindere dalla temperatura. Naturalmente, non erano queste le ragioni per cui lo detestavo tanto. Non ho mai dato peso alle apparenze, anche se quelle caratteristiche non contribuivano certo a renderlo simpatico.

No, odiavo Creed per via delle storie che avevo sentito e delle sensazioni che provavo in sua presenza, e non sono il tipo da giudicare in base a indizi campati per aria. In seguito, scoprii altri dettagli e sono sicuro che avrò occasione di riferirteli, a tempo debito. Poi, forse, potrai liberarmi del fardello di restare sveglio la notte a escogitare modi per dimostrare i miei sospetti.

Ma non ora.

«Detective Lambert, che piacere rivederla», esordì, nel vano tentativo di apparire sincero. «Sono passati… quanti? Due, tre anni?»

Posò i soldi che stava contando e mi tese la mano tozza. Il suo sguardo mi disse che ricordava fin troppo bene il nostro ultimo incontro, e il fatto che mi fossi rifiutato di stringergli il palmo perennemente sudaticcio gli fece capire che lo stesso valeva per me.

«Febbraio 2009, Jennifer Sanchez», feci. Un nome che non scorderò mai e che di sicuro Creed stava cercando di dimenticare, anche se dubito che ci abbia perso il sonno.

«Ah, sì. Un periodo terribile. Terribile. Una ragazza così graziosa, davvero carina. A ogni modo, non è ciò che la porta qui oggi, vero?» Dalla sua espressione sembrava che stesse pregando con tutte le forze che non fosse così.

Sulla mensola notai il trofeo di ottone del football. Lo presi e feci una smorfia. Era più pesante di quanto rammentassi. «Ce l’ha ancora?» chiesi con fare stupito.

«Certo.» Girò intorno alla scrivania e me lo tolse di mano, quindi lo rimise al suo posto con precisione millimetrica. «È un oggetto cui tengo molto.»

«Oh, ci scommetto», mormorai, e lasciai cadere il discorso. «Comunque, Tina Fiddes: è una dei vostri?» aggiunsi, laconico.

«Una paziente, intende?» Fece una pausa a effetto. «Sì, detective. Perché? Ha bisogno di parlarle?» Sorrise, e la cosa non mi piacque. Non mi piaceva nulla di ciò che faceva Creed, ma quel sorriso m’irritò in modo particolare. «Se è così, temo che abbia fatto un viaggio a vuoto.»

«Come sarebbe a dire? È qui oppure no?»

«Oh, sì, detective, altroché. Venga, da questa parte.» Prese un grosso mazzo di chiavi da uno scrittoio e uscì. «Ma non sarà facile avere una conversazione con lei.»

Lo seguii lungo il corridoio illuminato da luci intermittenti. Molte lampadine erano fulminate. Non soltanto, erano anche posizionate in alto, al punto che la sostituzione doveva essere una vera seccatura, da rimandare finché non si fosse stati costretti a usare una torcia. «E quale sarebbe il motivo?»

«Perché Tina è muta.» Le sue scarpe scricchiolarono sul linoleum a scacchi malconcio. Allungò il passo.

«Quindi non parla?»

«Credo sia questo il significato di ’muta’, detective.»

Chi l’avrebbe mai immaginato? Devo ammettere che la notizia mi aveva preso alla sprovvista. Non avrei saputo dire quali conseguenze avrebbe avuto sul mio incarico. Probabilmente ero fregato, ma non era certo la prima volta. «Ci sente?»

Creed proruppe in una risatina. «A volte.»

«Allora, magari, parlerò io e basta.»

«Dunque devo presumere che è venuto qui senza essere a conoscenza della sua malattia?»

Santo cielo, ora sì che stava gongolando. Eravamo uno a zero per lui, e lo sapeva. Peggio ancora, ne andava fiero. Giurai che avrei fatto il possibile per pareggiare i conti.

Feci finta di niente. «Si riferisce al mutismo?»

«Mi riferisco all’autismo, detective», rispose sarcastico. Continuando a camminare, girò la testa e dalla mia espressione intuì che non avevo idea di cosa fosse l’autismo. L’avevo sentito nominare, certo, ma lo stesso valeva per il carcinoma broncogeno metastatico, e avrei dovuto chiedere all’attraente dottoressa Jessica Morris dell’ospedale di contea di spiegarmi cosa fosse. Perché no, magari proprio mentre affondava il bisturi nella carne di un tizio ucciso da quello stesso tumore.

«È un grave disturbo della comunicazione e del comportamento, che insorge prima dei tre anni. Di rado i soggetti autistici sono in grado di usare il linguaggio in modo sensato o di elaborare le informazioni provenienti dall’ambiente circostante. Circa il cinquanta per cento sa parlare, anche se di solito si limita a una ripetizione meccanica delle cose che sente.» Creed mi guardò con aria di superiorità. «Anche se pare che Tina non riesca a fare nemmeno quello.»

Accelerò. Visto che i miei passi erano coperti dai cigolii delle sue cavolo di scarpe, credo fosse convinto di avermi lasciato molto più indietro. Quando iniziammo a salire le scale, la sua voce diventò monotona, come quella di una persona annoiata che citi lunghi brani di un libro.

«Alcuni autistici hanno doti precoci, come capacità numeriche o matematiche fuori del comune. Possono presentare modelli di sviluppo irregolari, un interesse per gli oggetti meccanici, una reazione ritualistica agli stimoli ambientali e una resistenza ai cambiamenti nel contesto in cui sono inseriti. La resistenza ai cambiamenti… be’, Tina è molto brava in questo.»

Dunque, Creed aveva studiato la lezione. È proprio vero che la speranza mostra il suo volto anche nel buco di culo dell’universo. «Ha accennato a determinate capacità. Tina ne possiede alcune? Fuori della norma, intendo.»

Sapevo che mi stavo arrampicando sugli specchi, ma non vedevo il nesso tra una ragazza muta, un testo latino e un uomo nudo il cui corpo aveva cinque fori in più rispetto alla media nazionale.

Creed si era fermato e stava sbirciando da sopra gli occhiali attraverso il vetro temperato della camera 113, incastrato fra pannelli marroni ammaccati. Soddisfatto, infilò la chiave nella serratura e diede mezzo giro.

«Qui non ci occupiamo di queste cose, detective.» Aprì la porta. «Siamo molto più interessati a somministrare i trattamenti e a ospitare i pazienti in un ambiente sicuro, che a vedere se sono capaci di tenere una palla in bilico sul naso o di battere le mani per avere un pesce.»

Entrammo.

Nell’angolo opposto di una stanza davvero spartana, Tina sedeva in uno spicchio di sole. Gli unici mobili erano un letto ben fatto, un tavolo di pino, due sedie identiche, una mensola e una libreria, al cui contenuto non prestai attenzione.

Era appollaiata sul davanzale largo e scrostato di una grande finestra ad arco, con la testa appoggiata al vetro che, rinforzato da grate di metallo, forse si affacciava sui prati malconci dietro l’edificio (anche se per appurarlo sarebbe stato necessario vedere attraverso i grumi di sudiciume incastrati fra le maglie). Aveva lo sguardo fisso, le gambe strette contro il petto, e si dondolava piano. Avanti e indietro, al ritmo della melodia che stava canticchiando.

Da tutti i punti di vista tranne uno, era lo stereotipo perfetto della paziente di un manicomio. A eccezione del fatto che Tina Fiddes, e mi perdonerai se ti darò l’impressione di essere smielato, era forse una delle donne più belle che avessi mai visto in vita mia. In carne e ossa, almeno. Non che avessi mai frequentato le top model, ma capisci cosa intendo?

Era illuminata dalla luce calda che entrava dal vetro giallo, resa ancora più intensa dal tramonto imminente, e i capelli lisci le cadevano sulle spalle in boccoli dorati. I pantaloni morbidi di una tuta grigio-blu coprivano il bordo di un paio di Reebok bianche, e la canottiera bianca attillata era sollevata, a rivelare qualche centimetro di schiena. Il suo corpo era perfetto, così come il suo viso. Cazzo, a quel punto avrei scommesso che lo fossero anche le mani.

Forse so cosa stai pensando, ma non è come credi. Tanto per cominciare, avrei compiuto cinquant’anni in agosto; la ragazza ne dimostrava trenta, anche se suppongo che ne avesse venticinque al massimo. In secondo luogo, non era una bellezza sensuale, bensì adatta a una copertina di Vogue degli anni ’50. Una bellezza alla Monroe, alla Mansfield e alla Russell, e non avevo previsto di trovarmi davanti una cosa simile in una topaia di periferia sottofinanziata che aveva l’aspetto e il puzzo dell’Oakdene.

Creed parlò in tono melenso: «Tina, tesoro, hai visite. Un detective del dipartimento di polizia».

Lei, seduta nell’unico quadrato di luce della stanza, girò la testa e, con fare pigro, guardò attraverso la finta foschia che sembra sempre invadere i locali bui. Mi domandai se la sua reazione fosse stata suscitata soltanto dal suono, perché in quel momento vidi i suoi occhi: un ocra intenso e penetrante, willemite incastonata nell’avorio. Sono sicuro che gli artisti hanno cercato per anni modelle con occhi come quelli, per poi essere accusati di esagerazione, ma, per quanto reali, quegli occhi non videro né me né Creed. Pareva che non vedessero nulla. In caso contrario, il cervello della ragazza non provava neppure a registrare le percezioni visive.

Dopo aver guardato nella nostra direzione per qualche secondo, si voltò e riprese a canticchiare. Era come se avesse udito un rumore e poi si fosse accorta che era soltanto il vento. Non so su cosa avesse puntato lo sguardo in seguito, ma, qualunque cosa fosse, dubitai che si trovasse fuori della finestra.

Provai emozioni contrastanti, nessuna delle quali piacevole. Da una parte avevo l’impressione che avrei portato a Deacon molto, molto meno di quanto sperasse, e dall’altra che forse Creed – per quanto odiassi ammetterlo – aveva avuto ragione sin dall’inizio. La sua voce saccente mi echeggiava ancora nella testa. Un viaggio a vuoto.

«Ora può lasciarci soli.» Dalla mensola presi distrattamente una colomba di carta, costruita con cura, e ne ammirai la delicatezza. Immaginai che fosse opera di Tina perché, a essere sinceri, non c’era molto altro da fare in quella stanza e, se si era appassionati di origami, tanto valeva sfruttare il tempo a disposizione. Nel frattempo, ostentai indifferenza per dimostrare a Creed che sapevo quel che facevo.

Avrei voluto che fosse vero.

Si girò con sguardo rabbioso. Data la statura, assomigliava a uno scoiattolino grassoccio che minacciava di morsicare le chiappe a un grizzly incazzato nero. «Spiacente, detective, ma non posso permetterlo.»

Il fatto è che ero là per un incarico ufficiale. Mi correggo, per un incarico di polizia molto ufficiale e molto riservato. E Creed, anche se detestava il solo pensiero e aveva sperato di aggirare il problema, lo sapeva benissimo.

Con delicatezza, rimisi la colomba sulla mensola, quindi mi girai e lo guardai dritto negli occhietti luccicanti, così ingigantiti dalle lenti spesse da essere ridicoli. Mi chiesi se avesse notato la mia irritazione. «Sì che può, Creed. Fuori dei piedi.»

La Teoria Dell'eternità
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