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Tra 5th Street e Alameda Street, Los Angeles,
venerdì, 14 agosto 2043
Il tempo era agli sgoccioli, e Alison avrebbe fatto volentieri a meno di sprecare dieci minuti a fare le moine alle guardie che erano davanti alla porta. La sua richiesta di accedere al settore delle celle le aveva insospettite, ma la giovane aveva fatto valere la propria autorità. «Ma perché voleva entrare da sola?» domandarono. Sarebbe stato molto più sicuro se l’avessero accompagnata, così, se Mason e Stubbs, gli unici prigionieri rimasti, non avessero rigato diritto, avrebbero potuto fargli saltare in aria un braccio, una gamba, o anche tutti e quattro gli arti.
Alison dovette sottolineare più volte la natura riservata della visita e precisare che era stato Klein a chiederle di andare dai detenuti; vedendo che non funzionava, però, fece ricorso a un’incongrua combinazione di minacce e battiti di ciglia. Alla fine le guardie cedettero, porgendole i detonatori dei due prigionieri e accettando di restare fuori e di tenerla d’occhio dalla porta di vetro.
Lei ringraziò con un sorriso, prese una sedia e la portò dentro.
Negli istanti che impiegò a percorrere la breve distanza che la separava dalla cella di Mason, l’uomo, avvertito dall’intensificarsi delle luci, si precipitò verso le sbarre, sbavando come un cucciolo di sanbernardo. «Ciao, bambola. Ti stavi annoiando al piano di sopra? Avevi voglia delle coccole di Mason?»
«Chiudi quella cazzo di bocca.» Alison mise la sedia davanti alla cella, senza far caso al suo sguardo lascivo.
Si finse offeso. «Oh, vuoi fare la preziosa, bambola. Dovresti essere un po’ più gentile con Mason.»
Lei rise sgomenta. Probabilmente sarebbe stata molto più dura del previsto, pensò, ma anche molto più divertente. Forse non dura come l’erezione del detenuto in quel momento, ma comunque difficile.
«Sai chi sono?»
«Una bella scienziata. Una che non vede l’ora di farsi scopare.» Le sbirciò sotto la gonna.
«Forse vuole provare un uccello negro?» intervenne Stubbs, con la sua voce rauca.
Alison si voltò, ma non lo vide vicino alle sbarre, così si alzò e camminò a passo lento e deciso lungo il corridoio, quindi si fermò davanti alla cella battendo i tacchi.
Tra gli uomini selezionati per quel folle progetto, Stubbs era quello che odiava di più. Era pura malvagità, senza mezzi termini. Ogni singolo crimine sulla sua fedina penale l’aveva commesso per il semplice gusto di farlo, come quando, a maggio, aveva tagliato la gola a Edison con un piatto rotto. Era sdraiato sulla branda, con le braccia muscolose dietro la testa e il sudore sugli enormi bicipiti che scintillava nella luce del corridoio. Lo fissò, impassibile.
«Che c’è, bambola, vuoi provare un grosso uccello negro?» ripeté, senza staccare gli occhi dal soffitto bianco.
Alison sorrise. «Mason è un opportunista», esordì con voce bassa e priva di affettazione. «Un ladro. Ha ucciso soltanto per fuggire. Non è esattamente zucchero e miele, ma tu…? Se la memoria non m’inganna, sei un tipo molto più cattivo.»
«Puoi metterci la mano sul fuoco, dolcezza.» Stubbs non si mosse, ma era palesemente lusingato.
«Credo che l’ultima persona in cui hai infilato il tuo grosso uccello nero – prima di ucciderla, s’intende – sia stata una bambina di otto anni. Questo fa di te un individuo molto disturbato. E ora, soprattutto dopo il tuo numero col piatto, le persone che gestiscono questo progetto, me compresa, non hanno intenzione di mandarti da nessuna parte.» Alison sollevò il detonatore, rosso acceso e poco più grande di un portachiavi, con STUBBS scritto in bianco sulla parte superiore. «Perciò dubito che qualcuno perderà il sonno, se per sbaglio dovessi far cadere questo coso, giusto? Tanto per vedere se resiste all’urto senza porre fine allo stretto rapporto che sembri aver instaurato con le tue mani.» Una pausa a effetto. «Sono davvero curiosa…»
Aprì le lunghe dita, allentando la presa. Il detenuto sgranò le palpebre mentre il pulsante volava verso il pavimento, muovendosi quasi al rallentatore. Dopo un secondo che parve un’eternità, atterrò sulle piastrelle con un clic, rimbalzò due volte e si fermò accanto ai piedi di Alison. Lei lo seguì con lo sguardo, poi alzò gli occhi e vide l’espressione di Stubbs: paura assoluta, come aveva sperato.
Per un istante si domandò cosa avesse visto la bambina su quella faccia, quando il prigioniero l’aveva stuprata. Desiderio, probabilmente, e del peggior tipo. Quello che, a giusto titolo, Alison odiava più di qualsiasi cosa al mondo.
«Che ti prende, ragazzone?» Raccolse il detonatore e l’agitò, tanto per farlo incazzare. «Hai paura di morire?»
Stubbs tacque, incredulo. Alison sorrise e tornò verso la cella di Mason.
Dopo essersi ripreso, il nero urlò: «Non ho paura di morire, bambina. Ho soltanto paura di restare senza mani e di non poterti sborrare addosso quando sarai morta».
Mason rise. Lei lo ignorò, girò la sedia con lo schienale verso la porta e si sedette, vicina ma non troppo. «Togliti quel ghigno dalla faccia.»
Lui fece una serie di versi disgustosi e mosse la lingua su e giù. Alison, ostentando indifferenza, prese i detonatori senza farsi vedere dalle guardie e staccò lo sportellino posteriore.
«Che cazzo stai facendo?» Mason controllò le fasce intorno ai polsi, assicurandosi che le spie rosse non si accendessero. «Se quei cosi esplodono…»
Lei si posò i due pezzi sulle ginocchia ed estrasse il meccanismo da quello di Mason. «Vogliono ucciderti.» Lo invitò al silenzio con un’occhiata eloquente.
«Chi?» sussurrò il prigioniero. Era stupido, ma non al punto di non capire quando era meglio ascoltare che parlare.
«Klein e il resto del team.» Alison si concentrò sul detonatore di Stubbs. «Non chiedermi come faccio a saperlo, ma lo so per certo. T’illudi di partire per un viaggio della salvezza? Non andrai da nessuna parte, Mason.»
«Perché vogliono uccidere Mason? Che cos’ha fatto Mason?» Sembrava che l’avesse bevuta.
Alison scambiò i detonatori, sforzandosi di non pensare ai crimini commessi dal prigioniero, sufficienti a giustificare almeno tre morti dolorose. Il meccanismo di Mason finì nella custodia di Stubbs e viceversa. Riposizionò gli sportellini con uno scatto sonoro, pregando che le guardie non l’avessero vista.
«Niente, per ora», rispose calma.
«Allora perché dici questo a Mason se Mason non ha fatto niente?» L’uomo era nervoso, forse aveva persino iniziato a sudare. «Sei venuta a far vedere le tue belle chiappe?»
«No, sono venuta a salvare la tua triste e patetica vita.»
«Mi prendi per il culo. Non vogliono uccidere Mason. Cerchi di fottermi e basta», disse il detenuto, in tono sprezzante. Poi, sorrise. «Molto divertente, Mason quasi ci cascava.»
«Non sto prendendo per il culo nessuno. Né tantomeno te. Prima di sera, quelle due guardie verranno mandate qui dentro, ti ammanetteranno e ti faranno uscire dalla porta principale. Poi, non so quando e non so dove, ti uccideranno.»
«Come fai a saperlo?»
«Credevo di averti detto di non chiedermelo.»
«E tu mi salvi?»
«Non necessariamente. Ma voglio darti una chance.» Gli mostrò i detonatori.
Mason aveva seguito ogni sua mossa come un mendicante affamato che sbircia dalla vetrina di un ristorante. Non aveva idea del perché quella donna volesse aiutarlo. A che cazzo di gioco stava giocando? «Allora cosa deve fare Mason?»
«Stare zitto, ascoltare e imparare. In quest’ordine. Se mi sbaglio, non hai nulla da perdere a tenere la bocca chiusa per cinque minuti, ma, se ho ragione, potresti salvarti la pelle, per quanto valga. A te la scelta. Poi, una volta che ti avrò aiutato, in cambio mi farai un piccolo favore.»
«Cioè?»
Alison tacque. Mason la fissò pensoso; non sapeva se facesse sul serio oppure no, ma aveva ragione: non aveva nulla da perdere ad ascoltarla sino alla fine.
«Okay, Mason è tutt’orecchie.»