25

Los Angeles,

venerdì, 10 giugno 2011

C’era voluto più del previsto perché Tina si tranquillizzasse. Era entusiasta come un bambino a Natale, nel giorno del suo compleanno o quando arrivava il furgone dei gelati. Era emozionata in molti modi diversi, ma erano tutti tipici di una persona con meno di un terzo dei suoi anni.

Mi venne voglia di tornare ragazzino, di vedere il mondo e i suoi abitanti con la stessa ingenuità e indulgenza inconsapevole. Il mondo era un posto di merda. Ogni volta che guardavo un bambino, avrei voluto dirglielo – anzi, gridarglielo, se fosse stato necessario –, così che avesse un vantaggio sui coetanei.

Guardando gli occhi luminosi e innocenti di Tina, non provai mai quel desiderio. Pregavo soltanto che non si rendesse mai conto di quanto fosse schifoso il mondo.

La mia preghiera non fu ascoltata.

Mentre Sarah faceva del suo meglio per distrarre la sorella con la Sanfelice di Dumas in versione originale, uscii a fumare una sigaretta.

Se diciotto blocchi di cemento, ciascuno del diametro di circa sessanta centimetri, circondati da un muretto di mattoni e accessibili soltanto da una scala antincendio arrugginita, costituiscono un giardino pensile, è quello che ho a disposizione nel mio appartamento. È là che vado quando sento il bisogno di pensare, riflettere, ragionare e, in numerose occasioni, di autocommiserarmi.

Una volta, forse tre settimane dopo che Katherine se n’era andata, sono uscito e mi sono infilato in bocca la canna di una calibro 357. Sapeva di olio caldo, setoso ma acido, come un frutto andato a male. Non era carica, naturalmente – non sono stupido –, ma, nei pochi secondi durante i quali me la sono premuta contro la lingua, mi ha fatto sentire meglio. Mi sono reso conto che c’erano cose peggiori nella vita. La morte, ad esempio. Non avevo mai fatto nulla di simile prima e non l’ho più fatto dopo, ma forse quel gesto era stato dettato dalla convinzione che Katherine non avrebbe sentito la mia mancanza.

Quella consapevolezza è stata quasi più dolorosa di un colpo di pistola.

Il mio condominio era un edificio di sei piani che non faceva favoritismi quando si trattava di stabilire quale fosse il più trascurato, di conseguenza il «giardino» offriva una vista ampia e, a volte, rilassante su un’area abbastanza grande della parte meridionale di Los Angeles. Senza dubbio, quella zona aveva più probabilità di comparire in un film di Spike Lee che in una guida turistica, ma l’amavo per ciò che era. Per ciò che sarà sempre. Era casa mia e, in un certo senso, prosperavo come un batterio sul sudiciume che mi attorniava.

Quel giorno, mentre avevo la sensazione che forse non sarei tornato nel giardino per un po’, la distesa verdeggiante intorno all’Oakdene diventò un sostituto meno gradevole in cui raccogliere le idee e provare a capire come sarebbe potuta andare a finire.

La mia mente era piena di possibilità quanto New York lo è di tassisti incompetenti, piccole auto gialle cariche d’indecisione che tagliavano bruscamente la strada alle proposte razionali intente ad attraversare la città.

Per come vedevo la situazione a quel punto, avevo un uomo morto e nudo. Non si sapeva perché fosse nudo, ma cominciavo a capire perché fosse morto. Si era impossessato di qualcosa, di sua iniziativa o per conto di una terza parte; il qualcosa era una mappa cifrata che, una volta decodificata, avrebbe condotto a tesori perduti da secoli. Dubitavo che quegli oggetti avrebbero rivelato le risposte ai quesiti dell’esistenza o annunciato una nuova alba per l’umanità, ma ero sicuro che, per il semplice fatto di essere antichi, fossero molto preziosi. Sarebbero potuti valere abbastanza per uccidere, soprattutto dato che gli assassini sembravano costare sempre meno ogni anno.

Quell’uomo, dunque, aveva trovato una mappa. Gli restava soltanto da rintracciare qualcuno che la traducesse, ricordando che un computer non sarebbe servito a nulla. Così, aveva portato la mappa a Los Angeles perché aveva sentito dire che Tina era il miracolo vivente di cui aveva bisogno. A quel punto della storia, mi preoccupava il fatto che fosse stato ucciso con una certa professionalità, il che aveva indotto Deacon ad affidare il caso a tre squadre. Il cadavere non aveva impronte digitali né documenti d’identità ed era stato rinvenuto disteso a pancia in giù. Questo significava che non era stato attirato nel vicolo, piuttosto, era stato preparato e spogliato prima di essere portato là per finire il lavoro. Perché i killer non l’avessero fatto fuori e poi trasferito nella viuzza era ancora una delle risposte che definirei «elusive». A meno che non fosse stato denudato laggiù. Nel qual caso, perché prendergli i vestiti? Quali indizi avrebbero potuto contenere?

La mia paura, per quanto fossi riluttante ad ammetterlo, era che lo sconosciuto fosse stato ucciso «dai nostri». Dai buoni, se preferite. Mi rendo conto che è un’accusa assurda; lo era allora e lo è anche adesso, ma secondo Sarah erano stati loro ad acquistare il sito in Francia – quello in cui nemmeno i francesi erano autorizzati a entrare – e a investire fior di soldi nel progetto. Ammirai il coraggio dell’uomo. Se Sarah aveva ragione, la mappa era la soluzione del mistero e, a prescindere da chi fosse l’assassino, suppongo che gli avesse chiesto il documento con una certa insistenza. L’uomo non gliel’aveva consegnato. Aveva avuto il foglio infilato nel didietro per tutto il tempo e non se n’era mai separato. Di sicuro non erano stati i killer a nasconderglielo addosso.

A meno che non fosse una montatura.

Forse il testo era una falsa pista, un indizio fasullo seminato perché gli imbecilli del distretto di polizia, me compreso, lo trovassero e avviassero un’indagine inutile mentre gli assassini insabbiavano ogni cosa. Mi augurai non fosse così, perché altrimenti mi sarebbe toccato passare la vecchiaia da Cody a spiegare alla successiva generazione di ubriaconi come mi fossi imbattuto in un cadavere nudo con un indizio fasullo ficcato nel culo.

Ma, se l’unica pista era falsa, perché i federali ci avevano rubato il caso?

In quella farsa pietosa c’era qualcosa che non quadrava, qualcosa che mi puzzava: un chiaro segno, se mai me ne fosse servito uno, che la situazione sarebbe peggiorata molto prima di intravedere anche solo un vago miglioramento.

La porta si chiuse alle mie spalle e, voltatomi, vidi Sarah che scendeva i gradini con un sorriso incerto. «Ora sta bene.»

Intuii che, per quanto lei e Tina amassero quelle visite, odiavano i commiati. «Dove andiamo?»

Sospirò e guardò oltre la fila di pini e le strisce deserte di asfalto polveroso dell’interstatale 15, verso i cactus e le artemisie che si stendevano fino all’orizzonte e oltre. Quell’anno era stato torrido in tutto il mondo. Pareva che ogni estate la temperatura salisse sempre di più. La TV diceva che era colpa del riscaldamento globale, il lento cancro inflitto al mondo dall’uomo. Per quel che mi riguarda, venivo dalla scuola di pensiero secondo cui, se il mondo fosse stato ancora abitabile quando io fossi uscito di scena, sarebbe stato più che sufficiente.

Sarah fece un respiro affannoso e raddrizzò la schiena. «All’aeroporto.» Si mise una ciocca di capelli dietro l’orecchio e indossò gli occhiali da sole. Quindi, sorrise.

Quando scese dall’auto, all’aeroporto, mi fece tre promesse: mi avrebbe chiamato non appena fosse tornata, mi avrebbe detto esattamente cosa aveva trovato e sarebbe stata molto, molto prudente. In quell’istante capii che ormai la questione non era più nelle mie mani. Nonostante la sua onestà, quegli impegni assomigliavano più a un compromesso maldestro, privo di garanzie. Potei soltanto lasciarla andare, non avevo nulla con cui trattenerla. Zero assoluto e, a prescindere dal tempo che sarebbe occorso a Deacon per andare a fondo delle informazioni, sarebbero state ore sprecate, perché con ogni probabilità Sarah sarebbe arrivata a Serres e in «Arcadia» prima di chiunque altro il mio capo potesse contattare.

Dubitavo che, date le circostanze, Deacon avrebbe chiamato il team di archeologi americani in Francia per condividere le nuove informazioni. Piuttosto, sarebbe dovuto ricorrere ai suoi canali per scoprire cosa fosse stato eventualmente nascosto nel villaggio. Canali che, nella migliore delle ipotesi, erano semplici rivoli rispetto all’ondata di entusiasmo da cui era animata la ragazza.

Al distretto, salii al secondo piano e percepii che in paradiso non era tutto rose e fiori. Nella stanza regnava un’atmosfera opprimente. C’erano quasi tutti, il che non era insolito, ma non correvano qua e là come il piccolo sciame di api operaie che erano di norma. Quel giorno camminavano lenti, come se il valore delle azioni del miele si fosse dimezzato e i loro mondi avessero deciso di girare per qualche tempo a velocità ridotta, a mo’ di compensazione.

Ellis, la cui scrivania ordinatissima era collocata dietro la mia, sedeva dritto come un fuso, coi gomiti appoggiati su una pila di scartoffie inevase. Per lui, erano un sacrilegio che lo avrebbe spinto a prenotare un lungo soggiorno in un confessionale, seguito da una settimana di cilicio e di avemaria. Si era tolto gli occhiali e, coi polpastrelli premuti in cima al naso, fissava qualcosa che solo lui aveva il privilegio di vedere.

«Come va con l’uomo nudo?» chiesi, con nonchalance. Sapendo di aver scoperto molto più di lui e di Dean, faticai a non sfoderare un sorriso trionfante.

Non rispose. Credo che per un attimo non si fosse nemmeno accorto della mia esistenza. Né della propria. Dopo qualche minuto alzò gli occhi, il volto ancora inespressivo, e annunciò con voce piatta: «Deacon vuole vederti».

Giratomi, vidi il solito post-it appiccicato sul viso di Vicki. Perché non li attaccava mai sulla faccia di qualcuno che non volevo vedere? Katherine, ad esempio. Come sempre, lo staccai e feci per gettarlo nella spazzatura col consueto «vaffanculo», ma Deacon non si era fermato là. Non quella volta.

Sotto il post-it c’era un altro adesivo, uno di quelli che per rimuoverli servono un secchio d’acqua calda e sapone. Diceva solo: Subito!. Seccato, mi avviai verso il terzo piano.

Ellis tornò a fissare il nulla.

Deacon stava alzando le veneziane e guardava fuori della finestra, dove il traffico procedeva lungo 5th Street. Bretelle rosse, quel giorno; un autentico tocco di classe. Stringeva un bicchiere di Coca-Cola con ghiaccio, ma sulla scrivania vidi qualcosa da cui dedussi che non si era limitato a una bibita: mezza bottiglia di whisky e un altro bicchiere, vuoto a eccezione dei cubetti che si stavano sciogliendo. Qualunque fosse la ragione, l’alcol poteva significare una cosa sola: era una giornataccia.

«Wells e Rodriguez sono morti», dichiarò brusco, senza girarsi.

Avevo un modo tutto mio di entrare nel suo ufficio, perciò non aveva avuto bisogno di controllare chi fosse.

«E tu sei fuori dal caso del cadavere nudo. In quest’ordine.»

«Morti?» Un silenzio troppo lungo. «Come?»

«Nessun legame con l’indagine. Stavano uscendo dagli archivi municipali, quando un rapinatore ha rubato la valigetta a un tipo davanti a loro. L’hanno inseguito, quello ha scelto bene il percorso e, quando ha trovato una via deserta, si è fermato e si è voltato. Ha sparato quando hanno girato l’angolo. Li ha colpiti alla testa.»

«L’abbiamo acciuffato?»

«No, e dubito che lo prenderemo.»

Tra tutte le parole che mi ero aspettato di sentire, ne aveva scelte di nuove. Quelle non erano le parole che un capo pronunciava dopo che due dei suoi uomini erano stati uccisi in un vicolo. Iniziai a preoccuparmi.

«Ma perché vuoi togliermi il caso? Insomma, sono appena stato…»

Mi guardò e ciò che lessi nei suoi occhi non mi piacque. Capitava di rado che mi piacesse, a dire il vero, ma quella volta fu diverso. Il suo sguardo era pieno di rancore.

«So benissimo dove sei stato. E aggiungerei che lo sanno anche i federali. Cristo, non potevi essere un po’ più discreto? Tanto valeva che sventolassi un cavolo di bandiera mentre andavi all’Oakdene. Hai fatto incazzare Creed per l’ennesima volta e poi sei andato a cercare la sorella. Peggio ancora, hai chiesto indicazioni ai vicini, santo cielo.» Si sedette sulla poltrona di pelle, che scricchiolò contro la sua camicia sudata. «I federali sono venuti a farmi il culo. E abbiamo perso, capitolo chiuso. Mille grazie, Lambert. Ma ora basta, vai a occuparti delle scartoffie sulla tua scrivania, piuttosto.»

Seguì un momento di silenzio, disturbato soltanto dal dolce tremolio delle veneziane e dal ronzio del traffico. Scelsi con cura le parole per romperlo. Mi chinai sulla scrivania e le scandii in modo chiaro, così che non perdesse neppure una sillaba: «Vuoi scherzare? Questa è roba grossa. No, mi correggo, è roba enorme».

Stavo cercando di conservare il caso, lo volevo a tutti i costi. Mi dispiaceva per Wells e Rodriguez, ma erano gli inconvenienti del mestiere. Un giorno sarebbe potuto capitare a me di rincorrere l’uomo sbagliato in una viuzza deserta e di beccarmi un proiettile. Nel frattempo, tuttavia, potevo ancora far sfigurare Ellis e Dean. «Mi hai invitato alla festa, ora non puoi rimandarmi a casa.»

«Roba grossa?» rise sprezzante. «Certo che è roba grossa. È per questo che ho passato quasi tutta la mattinata a sorbirmi il cazziatone del vicedirettore, arrivato dritto dritto dal palazzo bianco in Wilshire Boulevard.»

Aveva alzato la voce. Non molto, ma quanto bastava perché i colleghi al di là delle veneziane si voltassero nella nostra direzione.

Charlie Petersen. Vicedirettore dell’ufficio distaccato dell’FBI a Los Angeles. In Wilshire Boulevard, appunto. Ecco chi aveva usato l’altro bicchiere.

«E vogliono tagliarci fuori?»

«Non avremmo dovuto intrometterci. Gli abbiamo rubato il caso, ricordi? Se lo sono soltanto ripreso.» Strizzò le palpebre come si fa quando si pensa a cosa dire, o a come dirlo. Fiutò l’aria lanciando un’impercettibile occhiata obliqua, come se qualcosa nel minifrigo fosse andato a male. «Merda, Nick, hai bevuto?»

Ebbi l’impressione che volesse trovare qualcosa di cui accusarmi. Appoggiai i palmi sulla scrivania e lo fissai. «Ascolta, sei stato tu a chiedermi di rubare il caso, e ho fatto progressi. E, no, non ho bevuto», mentii. «Annusami l’alito.»

Rassegnato, posò il bicchiere e mi guardò negli occhi. Parlò in tono determinato, indicando l’acquario: «L’alito fattelo annusare dai pesci rossi, Nick. Comunque, non hai bevuto e hai fatto progressi? Perdona lo scetticismo, ma non sono frasi che ti sentiamo dire molto spesso, o sbaglio?»

Voleva litigare a tutti i costi.

«Vaffanculo, Deacon.» Risposta scontata, nulla di originale.

«Io non ti ho chiesto di rubare un bel niente, soltanto di fare lavoro di squadra. Cosa che non hai fatto. Ti ho mandato all’Oakdene, e non ricordo di averti ordinato di rintracciare nessun cavolo di sorella. Ora la squadra ha mollato il colpo, ed esigo che tu faccia lo stesso.»

Proruppi in una risata nasale, sardonica, e mi allontanai dalla scrivania. «Squadra? Di quale squadra stai parlando, per l’esattezza: della nostra o della loro?»

Si risedette e finì la Coca-Cola. «Non c’è nessuna differenza, ti pare? Tu sei fuori dal caso. Non tornerai all’Oakdene, a meno che qualcuno non ti minacci con una pistola, e non rivedrai più la sorella. Tutto chiaro? Mettici una pietra sopra.»

«Che mi dici di Wells e Rodriguez, vuoi mettere una pietra sopra anche di loro?»

«In caso tu non l’abbia ancora capito, Lambert, la tua opinione non m’interessa. Devi soltanto obbedire agli ordini e andartene con la coda tra le gambe.» Roteò il bicchiere. «In altre parole, sei stato rimosso. Fine del discorso. Perché? Perché sei una palla al piede.»

«Vaffanculo.»

«È già il secondo, e me ne basta uno per sospenderti.»

Dalla luce astuta nei suoi occhi capii che c’era altro. Il bello doveva ancora arrivare.

Proseguì: «Ma hai un po’ di ferie arretrate, e quelle farebbero un’impressione di gran lunga migliore su un curriculum pietoso come il tuo. Perciò, t’invito caldamente a prenderti una vacanza».

«Non ne ho nessuna voglia.»

«Allora annoto questa risposta nel tuo fascicolo e, data l’innegabile verità che stanno per essere formulate accuse a tuo carico e che sembri incapace di obbedire anche alle istruzioni più semplici, oltre al fatto che stai intossicando il mio pesciolino rosso e che mi sei costato venti dollari perché hai resistito solo quattro giorni senza fumare, ti sospendo. Me lo farai sapere se esaurisco la lista dei guai che hai combinato, vero, Nick?»

Perse mordente nell’ultima frase. Il piano ingegnoso, qualunque esso fosse, si delineò in modo chiaro, facendogli dimenticare la rabbia. Per il momento, supposi. La sua voce era diventata gentile, calma e quasi suadente.

Nick? Ma sappiamo già che Deacon mi chiama così soltanto quando…

Allora capii. Le risposte a tutte le parole che non mi piacevano, servite su un vassoio con un rametto verde a mo’ di guarnizione superflua. Rodriguez e Wells erano morti, ma Deacon dubitava che avremmo mai acciuffato il colpevole. Quel tizio era un ammazza poliziotti, e noi ce la mettiamo sempre tutta per catturare i killer di quel genere, giusto? Funziona così sin dalla notte dei tempi. Dove voleva arrivare Deacon?

Sapeva benissimo che quel caso era roba grossa. Petersen era stato nel suo ufficio, Cristo santo, e questo era tutto dire. Quell’indagine era così scottante che Deacon non poteva rischiare la vita dei suoi uomini. Forse c’era un nesso che io non vedevo e che lui non aveva intenzione d’indicarmi, il sospetto che la morte di Wells e di Rodriguez avesse a che fare con l’inchiesta. Tuttavia, se era così, sarebbe stato pronto a rischiare la mia vita, perché ai suoi occhi Nick Lambert valeva meno di zero. Eppure, non me lo stava dicendo, l’avevo intuito dal suo cambio di tono.

Me lo stava chiedendo.

Era un comportamento da codardo, ma ipotizzai fosse l’unica porta che Petersen gli aveva lasciato aperta. L’ho già detto e lo ripeto: forse Deacon non era stupido come sembrava.

Forse nessuno è stupido come sembra Deacon.

«Quante ferie ho di preciso?» domandai.

Deve aver fatto un calcolo a mente, perché sapevamo entrambi che avevo meno di una settimana.

«Quindici giorni, e ti consiglio di usarli con saggezza. E da sobrio», rispose, inflessibile.

Socchiusi gli occhi e sorrisi per comunicargli che avevo capito e che avrei colmato le lacune in un secondo momento. Tirai fuori la pistola, staccai il distintivo dalla cintura e li posai sulla scrivania. «Vaffanculo, Deacon.» Tris.

Sorrise a sua volta, seppur a fatica.

A volte, immagino cosa fece dopo che fui uscito. Sprofondato nella poltrona bassa e cigolante, tutto preso a roteare il bicchiere e a chiedersi cosa avesse messo in moto nel tentativo di tenersi stretto il caso. Non aveva idea che Wells e Rodriguez fossero stati uccisi dal governo. O almeno spero di no – e sarebbero passati mesi prima che io stesso scoprissi l’amara verità –, ma probabilmente aveva intuito che la loro morte non era una coincidenza.

Forse vi aveva accennato anche Petersen, usando quell’insinuazione per fargli pressioni. Non che ne avessi bisogno, ma in situazioni simili ricorrerei a un garbato atteggiamento diplomatico. È questo il trucco dei giochetti politici: non si pugnala mai alle spalle qualcuno che qualche anno dopo potrebbe vendicarsi con crudeltà.

Forse il vicedirettore, serio come un beccamorto, aveva guardato dritto negli occhi ambiziosi del mio capo e aveva detto qualcosa come: «Stiamo dando la caccia a criminali spietati, Paul. Può darsi che stessero tenendo d’occhio i tuoi uomini all’obitorio o mentre esaminavano il testo latino. Forse è più sicuro se lasci che siamo noi a occuparcene, sai? Come avevi promesso di fare».

A differenza di Deacon, però, Petersen non gliel’avrebbe chiesto. Impossibile. La diplomazia avrebbe funto solo da lubrificante.

Così, quando immagino Deacon, lo vedo seduto sulla poltrona, con un colorito cinereo. Resta là a lungo, rimpiangendo di non aver superato la visita medica dell’FBI l’anno precedente. Perché in quel caso, se avesse ottenuto una media superiore a 18 anziché pari a 16,5, forse – e sottolineo forse –, il desiderio di rivincita non avrebbe causato la morte di due dei suoi uomini migliori. Entrambi sposati e, nel caso di Eric Wells, con figli.

Una volta tornato al secondo piano, presi le poche cose che mi servivano. In realtà, non mi serviva nulla, ma mi parve la cosa giusta da fare; era adatta alla situazione, e supposi che, se mai avessero girato un film sulla mia vita, avrebbe dato all’attore protagonista una piccola scena in cui pronunciare una battuta a effetto. Rivolta a Ellis, a essere precisi, quando si avvicinava col sorrisetto che sembra riservare soltanto a me.

Ellis non perde un colpo. È un brav’uomo, se si ha una predilezione per le persone il cui unico scopo nella vita è manovrare i superiori come burattini. Purtroppo, questo significa che il giorno in cui il servilismo diventerà una disciplina olimpica sarà anche quello in cui verrà creata una medaglia di platino da appendere al collo degli stronzetti come lui.

«Congedo forzato», annunciai. Sarebbe stato inutile omettere la seconda parola. Deacon si sarebbe lasciato sfuggire la frase: «Gli ho consigliato di…» non appena Ellis si fosse seduto nel suo ufficio.

«E dove vai di bello?»

Pessima battuta. Già m’immaginava rintanato in casa per settimane, con le tende chiuse e qualche bottiglia di Jack Daniel’s, intento a mangiare piatti d’asporto e a guardare le repliche di noiosi talk show.

Invece, avevo progetti molto più interessanti e ne ero piuttosto orgoglioso, cosa che non mi capita quasi mai.

Chiusi il cassetto e, nel voltarmi, mi sistemai il colletto della giacca nel patetico tentativo d’irritarlo apparendo freddo e impassibile. La verità è che ci riuscii, soprattutto perché ero freddo e impassibile. Riflettei come se stessi vagliando le infinite destinazioni possibili.

«Non saprei. In un posto caldo. Nel Sud della Francia, magari.» Uscii con un sorriso trionfante.

Battuta degna del migliore copione, non trovi?

Mi rendo conto di avere molti pregiudizi, ma ritengo che al mondo esistano pochi lavori meno appaganti del mio. In realtà, «di merda» è la locuzione che gli rende più giustizia. Non che i poliziotti debbano pretendere di ottenere una gratificazione da ciò che fanno. Cavolo, no, dobbiamo farlo per il senso di solidarietà che s’imprime indelebile nell’anima e stronzate simili, ma ogni tanto una pacca sulla spalla, sincera o no, non ci dispiacerebbe.

Al contrario, poche cose sono più appaganti del non dover fare quel lavoro per un certo periodo. Ufficialmente, almeno. Ed eccomi là, col permesso di fare tutto ciò che mi fosse passato per la mente, per due settimane. Ovunque avessi voluto, per giunta. Che Deacon lo sapesse oppure no, la mia meta sarebbe stata un minuscolo villaggio francese, dove avrei cercato un manufatto religioso assieme a una bellissima, giovane donna.

Ammesso e non concesso che riuscissi a prendere l’aereo.

Insomma, quando il tuo lavoro è di merda come il mio, deve pur offrire qualche soddisfazione oltre a uno stipendio da fame, giusto?

Così, mentre attraversavo il parcheggio sotterraneo, diretto verso la mia auto, sorrisi come non mi succedeva da tempo e lanciai in aria le chiavi per poi riprenderle al volo. Tuttavia, visto che Wells e Rodriguez erano stati uccisi, che non avevo più la pistola e che Deacon mi aveva esortato a restare sobrio, sarebbe ragionevole pensare che abbia tenuto gli occhi aperti. Ma non lo feci. Udii soltanto lo sgocciolio di una manichetta antincendio che perdeva dacché ricordavo e il ronzio monotono del traffico di mezzogiorno sulla strada sopra di me, che filtrava attraverso le bocche di ventilazione.

Camminai spedito. Se volevo prendere il volo di Sarah, non avrei avuto il tempo di tornare a casa per fare i bagagli. Avrei dovuto viaggiare coi vestiti che avevo indosso, che erano non solo quelli del giorno prima, ma anche gli unici puliti di cui disponevo in quel momento. Così, nel grande schema delle cose, non riuscire a passare da casa non aveva grande importanza.

Immerso nel piccolo mondo che avevo creato, non sentii lo scalpiccio alle mie spalle. Qualcuno mi aveva visto uscire dalla tromba delle scale e mi aveva seguito nel parcheggio, senza mai restare troppo indietro. Anzi, avvicinandosi di soppiatto. Non mi accorsi di nulla, almeno finché non fu troppo tardi. Ormai l’intruso era dietro di me e udii soltanto la sua voce: «Ciao, detective».

Mi voltai di scatto, la mano allungata verso la fondina vuota. Quindi tirai un sospiro di sollievo. «Oh, Gesù, mi hai fatto prendere un colpo.»

Sarah era piegata su un fianco, con un sorriso allegro sulle labbra, gli occhiali infilati tra i capelli arruffati e lo zaino in spalla. «Ti dispiacerebbe darmi un passaggio?»

«Non dovresti aver già fatto il check-in?»

«Ho deciso di prendere il volo successivo. Non potevo partire senza di te, ti pare?»

Raggiungemmo la Taurus e le aprii la portiera, come il gentiluomo che mia madre aveva cercato invano di farmi diventare.

«Ora che hai due settimane di sospensione camuffate da ferie, ho pensato di venire a portarti il biglietto.» Agitò una busta bianca. «E un cambio di vestiti.»

La Teoria Dell'eternità
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